Pere Ubu

Pere Ubu

La danza moderna

Con il loro peculiare garage-rock d'avanguardia, i Pere Ubu di David Thomas hanno rappresentato in musica tutti gli incubi della società industriale. Realizzando con "The Modern Dance" uno dei grandi capolavori della new wave

di Francesco Nunziata

La più grande band americana degli anni 70 (e una delle più grandi in assoluto) deve il suo nome alla pièce teatrale "Ubu Roi" dello scrittore francese Alfred Jarry (1873-1907): un'opera caratterizzata dal gusto della satira, dalla sfrenata irruenza verbale e dalla insofferenza delle convenzioni.

Quando Pere Ubu (il protagonista della pièce) giunge a Cleveland, nello stato dell'Ohio, intorno alla metà degli anni '70, la sua natura di poetico ribelle si scontra con una realtà industrializzata, piena zeppa di nevrosi urbane e di paure. Il fiume Cuyahoga, che scorre libero in un andirivieni mai esausto di rifiuti di ogni genere, accarezza con indifferenza una città sull'orlo del collasso, parente prossima di molte altre realtà urbane dell'America del tempo.

Dopo il boom economico degli anni '60, nel decennio successivo una crisi economica di livello mondiale contribuì a gettare nello sconforto e nella depressione più cupa molta di quella gente che credeva in una lunga età dell'oro. Ma furono soprattutto i giovani ad essere investiti da una noia esistenziale prossima al nichilismo più tragico. La stagione del punk prende le mosse proprio da questo background socio-economico. E il punk non faceva altro che attuare un disperato rifiuto del mondo così come si andava configurando nell'epoca delle crisi petrolifere e dell'avvento dei "personal computer". Ma, mentre i punk non erano granché consci della squallida realtà che li circondava, limitandosi ad offrire violenti slogan autodistruttivi, la nuova generazione scavò ancora più a fondo, giungendo in un territorio dove la nientificazione del reale è a livelli altissimi.

Cleveland fu uno dei centri fondamentali di questa fase nichilistica. La gioventù del posto - quella meno disposta a seguire i dettami di una vita becera e meschina - finì per sacrificare le sue forze o sull'altare del rock'n'roll o su quello, bastardo e senza sacralità alcuna, della droga: Peter Laughner riuscì ad immolarsi su entrambe le sponde. Intellettuale disilluso, poeta innamorato dell'espansione lisergica, Peter era da sempre un convinto assertore della capacità della musica di poter rappresentare le convulsioni e gli isterismi dell'uomo post-atomico. Amante dei Velvet Underground, degli MC5, degli Stooges e del rock psichedelico in generale, riuscì in breve tempo a diventare (anche grazie alle sue conoscenze sulla rivoluzione punk in corso a New York) un punto centrale della scena locale, quella che già dalla fine degli anni '60 stava cercando di spingere il rock verso lidi sconosciuti, grazie a band quali Electric Eels, Left End e Mirrors (poi Styrenes) (come ricorda Charlotte Pressler, furono proprio queste band a forgiare l'estetica di quella che un giorno sarà chiamata "new wave").

Nel 1973, Laughner fondò insieme all'amico David Thomas (ex critico rock) i Rocket From The Tombs, una compagine dedita a un punk (ma, forse, sarebbe meglio dire "garage-rock") sgraziato e rumoroso, denso di frammenti psichedelici e di enfasi orgiastica (il loro più grande classico è "Sonic Reducer", violento inno elargito in memoria di Velvet e Stooges).

Fu proprio Thomas a diventare poco alla volta la figura centrale della nuova band: tra i massimi cantanti di sempre, parente prossimo di Beefheart e di Tim Buckley, sorta di crooner "negativo", era un omone che ricalcava perfettamente la maschera burlesca di Jarry, anche se, in fondo, la sua psiche era martoriata da tormenti e paure ancestrali, ma sempre pronta alla catarsi in performance devastanti. In sostanza, Thomas rappresentava il lato grottesco e surreale della band, perfettamente bilanciato da quello intellettuale di Laughner.

Quando Thomas fu sostituito da Stiv Bators, Peter e David decisero di formare una nuova band, che fu ribattezzata Pere Ubu. Qualcosa, però, era cambiato. In superficie, certo, si avvertivano ancora i furori del punk, la sua carica brutale e nichilista; ma nel profondo cresceva lentamente una straordinaria capacità visionaria, figlia della psichedelia più "oltraggiosa" e sperimentale (Red Crayola su tutti) e di certa avanguardia (soprattutto della musica concreta).

E' in questa fase, allora, che inizia ad emergere la personalità del tastierista Allen Ravenstine, folle terrorista del sintetizzatore: il suo modo di suonare è più figlio dell'astrattismo pittorico che di qualsiasi influenza musicale. La sua capacità di "violentare" le ritmiche imbastite dal batterista Scott Krauss e dal bassista Tim Wright (poi sostituito da Tony Maimone) con gargarismi sonici e rumorismi di ogni tipo non ha eguali negli annali del rock.Il suo sintetizzatore Eml divenne il luogo predisposto per l'attacco al mondo musicale (ma non solo) dell'era post-industriale. (l'Eml era una rarissima macchina analogica usata nelle scuole tecniche; fu fabbricata per un breve periodo da una compagnia del Connecticut, poi dedicatasi alla più lucrativa produzione di satelliti per uso militare).

La prima esibizione ufficiale della nuova formazione fu al Viking Saloon, alla fine del 1975. In precedenza, gli Ubu avevano licenziato il loro primo singolo autoprodotto: "30 Seconds Over Tokio/Heart Of Darkness", pubblicato dalla loro etichetta Hearthan. Uno dei singoli più programmatici di tutti i tempi e archetipo sonoro per tante "destrutturazioni" musicali a venire, il viaggio su Tokio è un monumento alla devoluzione totale, al massacro dell'uomo nell'era delle macchine. Riff circolare di Laughner, basso magnetico di Wright, voce in fondo allo stomaco di Thomas, Ravenstine che srotola tappeti seminascosti di sfumature sintetiche, poi il volo del synth che prepara la prima corsa rumorista lanciata nel caos liberatorio, dal quale riemerge un velenoso sostrato sintetico. Come raccontare il planare del basso sulla ritmica che Krauss spinge alla deriva? Come raccontare il finale in cui, nel caos che avanza, Ravenstine pone il suo sigillo sfregiando il tutto come se fosse un Jackson Pollock in acido colto alla finestra da una esplosione atomica? Lungo tutto il brano serpeggia una tensione estrema, qua e là volteggiano squarci cinematografici di rara bellezza. Nessun altro gruppo è andato mai più così vicino alla "concretezza" apocalittica della fine, del tramonto della civiltà e del suo "passare oltre".

Il lato B è una danza tribale diluita nelle pulsazioni del basso e tra i fremiti metallici della chitarra. Il "cuore di tenebra" batte implacabile il tempo dell'abbandono, il tempo della "povertà estrema", direbbe Holderlin. Nel marzo del '76 arriva il secondo singolo: "Final Solution/Cloud 149". Proprio "Final Solution" definisce in modo ancora più accentuato l'ideologia del gruppo: indicativi in tal senso sono i versi "I don't need a cure/ I need a final solution", voce di un'intera generazione che sente l'insensatezza dell'esserci come una malattia mortale. Musicalmente, il brano è un rifacimento della "Summertime Blues" dei Blue Cheer (i progenitori dello stoner rock): ma "rifacimento" è da intendersi in maniera "creativa". In effetti, gli Ubu si allontanano quasi del tutto dal brano originale, calando la sua vena garage-psichedelica in un mood post-atomico, smembrato qua e là da esplosioni sintetiche e abbagliato da una visionarietà tragica e clownesca. Su tutto, si erge l'assolo che Peter Laughner sciorina in maniera esaltante (ed esaltata) prima dell'ultimo piano-sequenza: un brulicare evocativo di note che sembrano voler a tutti i costi oltrepassare il loro reale significato e sfondare il muro, o chi per esso, e guardare dall'altra parte. (E se pensiamo che di lì a poco, a soli 24 anni, Peter sarà ucciso da un'overdose infame, allora il tutto non può che farci accapponare la pelle). "Cloud 149", sull'altra facciata, è un vaudeville in salsa new wave condotto a ritmo galoppante.

Entro il gennaio del 1977, raggiungeranno i negozi altri due singoli: "Street Waves/My Dark Ages" e "Modern Dance/Heaven", le cui facciate A finiranno direttamente sul loro primo 33 giri, mentre "My Dark Ages" e "Heaven" sono una l'opposta dell'altra: cupa e rassegnata astrazione sonica la prima, solare e quasi reggae la seconda (anche se dalla voce di Thomas traspare un non so che di malsano e di abulico). Tutti i singoli pubblicati tra il 1975 e il 1980 saranno raccolti su "Terminal Tower". Al principio del 1978, la formazione della band, perso per strada Laughner, è la seguente: Thomas, Herman (l'altro chitarrista), Maimone, Ravenstine e Krauss. Difficile spiegare cosa passasse per la loro testa prima che entrassero negli studi per registrare una delle più grandi opere musicali di tutti i tempi.So però con certezza che al primo ascolto si intravedeva da un lato tutta la rabbia e l'ebbrezza del garage degli anni '60, condito con spezie beefheartiane e con un pizzico di Red Crayola, musica free-form, avanguardia e teatro dell'assurdo. E si riusciva, di scorcio, anche a leggere tra i versi di Thomas l'apocalisse e la sua bellezza tragica. C'era un non so che di altro tra i solchi, ma nell'ineffabilità del momento estetico il tutto svaniva per far posto a un silenzio di fondo, dove riposano i nostri abissi più intimi e inaccessibili. Questa è musica che merita un ascolto attento e devoto, insomma. Musica totale, nel senso che allora come oggi, più che un semplice disco, The Modern Dance è un vero è proprio saggio sulla decadenza del nostro tempo, un poema sulla distanza spirituale che ci separa dal mondo e dall' estasi eternizzante dell'"Aperto" rilkiano. In 36 minuti e 20 secondi, i Pere Ubu riuscirono a condensare l'essenza di un'epoca pregna di nichilismo, devoluzione, irrazionalismo, meccanizzazione e paura. Ma andiamo per ordine.

Ad aprire The Modern Dance (1978), è "Non Alignment Pact", introdotta dal sibilo del synth e dal riff alla Chuck Berry di Tom Herman (proprio questo rapporto di contrapposizione chiarisce, fin dall' inizio, quello che sarà lo scenario musicale dell'intero disco: una collisione tra vecchio e nuovo, tra l'ombra del garage -o proto-punk - e la tecnologia moderna in chiave destrutturante e impressionista - a riguardo, già molti critici dell'epoca parlarono di un processo di "primitivizzazione del modernismo"). Il brano è concitato, orgia sconnessa pregna di tribalismo dell'era industriale, con la voce poderosa di Thomas che si scontra con dissonanze, scordature, sfregi armonici e con un caotico effetto di fondo. Il basso di Maimone e la batteria di Krauss interagiscono stupendamente, creando una ritmica-tessuto di stampo stoogesiano. Ma è soprattutto Ravenstine a spingere il brano al dì là di certe strutture "ordinarie", con un uso rivoluzionario delle tastiere, in preda a qualche estasi creativa terribilmente concreta e delirante.

A seguire, la title-track, il capolavoro nel capolavoro: gli Ubu creano l'archetipo della "danza moderna", inserendo, sulla struttura ritmica di matrice funk (ma virata in senso tecnologico e glaciale), affreschi della condizione operaia nell'era delle macchine e dell'alienazione. Dentro la mente scorrono sequenze cinematografiche che vanno da Chaplin a Fritz Lang, mentre sul vociare indistinto della folla inorganica si scarica un assalto di distorsioni disastrose che non lasciano scampo: "confusion is next", canteranno anni dopo i Sonic Youth. Laughing sfoga la tensione accumulata nella introduttiva jam di free-jazz (con corno e sax) in un'altra devastante e impietosa bolgia garage, con strepiti dei fiati e della chitarra, in un clima infernale e nevrotico.

"Steet Waves" decolla su di un possente giro di basso, lambito alle estremità da un vento sintetico, marcio di velami atomici, e da una chitarra abrasiva e lontana. Man mano la chitarra sale in primo piano, man mano il vento diventa pìù minaccioso, fino a restarsene solitario tra le macerie, accompagnato dal basso e dal ringhiare della sei corde verso il muro su cui, schiantandosi, libera ancora una volta la furia iniziale. Consumandosi lentamente la minaccia invisibile dei miasmi radioattivi, la "danza moderna" giunge dalle parti di "Chinese Radiation", aperta da Herman con un arpeggio morbido e maligno, sospinta verso il largo da un basso che riecheggia e che ricade su se stesso, iniettato di colori sintetici che si spengono lontano, messo in disparte da una voce che non conosce altro che le sue cavità mostruose e immutabili. Ad un certo punto la platea inizia ad applaudire sempre più forte, e riaffiora un baccanale bestiale, prima che Thomas sia sommerso dalla folla delirante. Ciò che sopravvive è una voce disperata, che si culla dentro note abissali suonate al pianoforte da un fantasma in una stanza buia e senza via d'uscita.

Unico brano scritto da Laughner, "Life Stinks" è il momento punk del disco, cantato in modo sconnesso da Thomas e incorniciato con una pioggia di suoni sintetici da sua follia Ravenstine. Ancora quest' ultimo declina cupezze analogiche in apertura di "Real World", funk obeso e stralunato. Krauss e Maimone dialogano negli intermezzi con una classe da far impallidire qualsiasi sezione ritmica. E poi il tutto che si arrampica su tralicci di impertinenze tastieristiche, su goliardiche ascensioni vocali e su grida anarchiche.

Nel silenzio generale, giunge un altro sibilo atonale, che va e che viene, prima di lasciarsi accarezzare da basso e chitarra che ricamano lo sfondo con lame al cuore, ad occhi chiusi. Si tratta di "Over My Head", lenta e angosciata preghiera, immacolata e spoglia, diafana. Poco alla volta, il brano si esaurisce tra il tam-tam della batteria e il sibilare del synth, ormai esangue. Si tratta (insieme al brano successivo) del momento più "introspettivo" del disco, il punto in cui il disastro fa capolino dentro l'anima, subdolamente, come un male incurabile. "Sentimental Journey" è una sinfonia rumorista per esaurimento nervoso: il blaterare sonnambulo di Thomas, i bicchieri in frantumi, i conati del synth e le scariche iconoclaste della batteria, tratteggiano un paesaggio abulico (come il suono dell'armonica che fa capolino sullo sfondo), un oscuro anfratto di mostruosi rimasugli psichici. A chiudere l'album arriva la danza goliardica di "Humor Me", accompagnata dal chitarrismo sbilenco di Herman e dalla luce spettrale che risplende dalle parti di Ravenstine. Diventa ancora più chiaro, alla fine di questo tour de force emotivo, che il riferimento all'opera di Jarry nasce da una precisa volontà ideologica: il gusto per il grottesco e per la deformazione satirica deve essere lo strumento che permetta di compiere la raffigurazione, ora espressionista ora mimetica, del mondo contemporaneo, deturpato fin nei dettagli dalla "volontà di potenza" che mantiene costantemente l'uomo sull'orlo dell'abisso.

Le vendite del disco non furono esaltanti (appena 15mila copie), ma gli Ubu non si scomposero. Non era certo il successo commerciale il loro fine ultimo. Lo si capì quando, sempre nel 1978, venne pubblicato il loro secondo lavoro, Dub Housing: il suono è ancora più fosco, rasenta la follia e la disperazione: un suono forse ancora più carico di emozioni e di riflessi psichici. La loro filosofia dell'autodistruzione trova un corrispettivo artistico impressionante, figlio di un'ispirazione lucida e rigogliosa. La logica che regola questi dieci brani non ha nulla di razionale: c'è più un senso di perfezione inconscia e arcaica a rendere intelligibili questi affreschi sconvolgenti dell'uomo post-atomico.

"Navvy", in apertura, chiarisce che la band è ancora quella che pochi mesi prima ha inciso The Modern Dance: ritmica sfrenata, canto alieno e disfunzioni sintetiche; "On the Surface", più composta, e con un eccellente figura centrale di basso e batteria; "Dub Housing", lenta e maligna visione di fantasmi in un vicolo cieco (con voce disperata di Thomas e coro ossessivo di angeli maledetti); "Caligari's Mirror", introdotta da un riff scarno di Herman e sfiancata da bordate di synth. Arriva, poi, "Thriller!", quasi una colonna sonora per un film sugli alieni: un basso che ripete un riff monocorde, voci che sembrano provenire da un nastro magnetico, percussioni trovate, urla, passi in lontananza, suono desertificato e lentamente distrutto. "I Will Wait" è una breve epilessi dove Thomas scorrazza ubriaco e Herman regala un assolo al fulmicotone; "Drinking Wine Spodyody" è un'altra delle loro goliardiche "danze moderne", prima della definitiva celebrazione del Re Ubu in "Ubu Dance Party", imbrattata dalle frequenze cacofoniche del synth in un surreale clima di festa popolare. "Blow Daddy-o" è un esperimento per batteria, basso e suono sintetico circolare, mentre "Codex" chiude il cerchio con arpeggi lancinanti, fondali di depressione cosmica e rimbombi sonori nel deserto dell'anima.

Le ombre sono fittissime, la rappresentazione del male e dell'assurdo è terrificante. La civiltà post-atomica conduce le sue legioni lungo strade impervie e senza nome.Il vuoto lampeggia lontano con bagliori chimici. Dub Housing è un viaggio senza ritorno dentro le nostre vertigini.

Nel tour successivo, gli Ubu giungono in Gran Bretagna, supportati dagli Human League, dai Soft Boys, da Nico e dai leggendari Red Crayola, il cui leader, Mayo Thompson, entra subito in sintonia con i nostri. Alla fine del tour, iniziano le registrazioni per il nuovo album, il cui titolo provvisorio, "Goodbye", sarà alla fine sostituito da New Picnic Time. Pubblicato nel 1979, l'album abbandona la claustrofobia di Dub Housing e attua una urticante rilettura del rock'n'roll, tenendo presenti le lezioni di Red Crayola e, soprattutto, di Captain Beefheart, il cui "Trout Mask Replica" è, senza dubbio, il riferimento principale.

La musica industriale non è più l'asse portante dei brani: l'amicizia con Mayo Thompson, infatti, inaugura la transizione verso la psichedelia visionaria che tanto sfavillare aveva prodotto proprio sul disco d'esordio dei Red Crayola, quel "Parable Of Arable Land" che fu gioiello di caotica e sconcertante sperimentazione nell'anno sacro 1967.

Muovendosi in acque torbide, e a tratti impenetrabili, i Pere Ubu decostruiscono sistematicamente la musica popolare attraverso un lento ma progressivo processo di astrazione. Accanto ai brani che conservano la possente carica ritmica delle origini (dovuta soprattutto all'asse Krauss-Maimone), si fanno largo sonorità "impressioniste", volte alla ricerca di un'atmosfera colma di rarefatte visioni tecnologiche. In questa dicotomia risiede la forza del disco e, soprattutto, la sua capacità destabilizzante.

Si diceva della sezione ritmica: la forza propulsiva del basso e la spazialità pseudo-anarchica della batteria costituiscono il fondo sicuro su cui si ancorano la voce sempre più eclettica di Thomas, il chitarrismo essenziale di Herman e la pittura sonora e anti-accademica di Ravenstine. Questa perfetta sinergia è subito evidente nella iniziale "The Fabulous Sequel" . Sulla stessa linea si mantengono "49 Guitars & One Girl", più anarchica e ricca di un'esuberanza animalesca; la danza di "Small Was Fast", che si dipana su di una traiettoria pseudo-funky, condita genialmente dal solito Ravenstine; "One Less Worry", assortimento di ghirigori elettronici, vortici di chitarra e un canto febbrile e insaziabile, che trasforma il corpo e l'anima di Thomas in un palcoscenico per le nostre ossessioni. Più "lineari", invece, sono "Make Hay", immersa in un turbine elettronico, e "Kingdom Come", con percussività tribale e trombe sintetiche. Sul versante più propriamente avanguardistico, si situano gli esperimenti di "A Small Dark Cloud" (percussioni rarefatte, bisbigli, palpiti artificiali, note di piano solitarie e vocalizzi liberi); "All The Dogs Are Barking" (glaciale visione metropolitana scandita da una chitarra che ripete ossessivamente un solo accordo, limpido come metallo nell'infuriare della pioggia); "Goodbye" (fraseggio di chitarra e voli pindarici del synth, quasi una trasposizione sonora dello spazio e del silenzio); e, per finire, "The Voice Of The Sand" (in cui la "sinteticità" del suono ha ormai raggiunto una consapevolezza "vitale", riducendo la voce umana a puro bisbiglio ancestrale). Pur essendo ancora avvolto in un'aria di decadenza e di disastro cosmico, New Picnic Time riesce, grazie alle liriche di Thomas (influenzate dalla sua conversione al culto di Geova), a mantenere il contatto con le cose della vita di tutti i giorni. In questo senso, sotto la caotica struttura musicale, si fa largo una inedita volontà chiarificatrice, che, pur riconoscendo le tenebre dell'esistenza, riesce comunque a sperare in una salvifica "rivelazione".

Dopo l'abbandono di Herman,Thomas e Ravenstine decisero di ingaggiare Mayo Thompson (fu certamente quest'ultimo a segnare una svolta nel corso della band, anche se, a dire il vero, lo stesso Thomas già da tempo cercava nuove soluzioni musicali).Il nuovo corso è aperto da The Art Of Walking, il loro maggior successo commerciale fino ad allora. L' opera rappresenta il passaggio dalle strutture ispide e violente dei dischi precedenti ad una sorta di rumorismo, per così dire, più "ragionato". Inoltre, venuto a mancare Herman, il suono perde quella sua capacità "pulsante", per fare spazio a un chitarrismo quasi "inafferrabile" e a un senso globale di abbandono e di malinconia. Ma sono soprattutto l'astrazione e l'informalità a farla da padrone tra i labirinti dei brani. Certo, le classiche danze funk in stile clownesco non mancano - vedi il caso di "Go, Misery Goats" e "Rounder" - e non mancano nemmeno i brani più linea con lo standard psichedelico dei nostri, come "Birdies" e "Horses" - arricchiti, comunque, da una visionarietà non più nichilista, ma essenzialmente surreale e dilatata. Ad ogni modo, gli Ubu focalizzano il loro sguardo"decostruzionistico" soprattutto in quei brani, come "Rhapsody In Pink" e "Young Miles In The Basement", in cui si assiste ad una sorta di dissoluzione formale, e psichica, della classica "struttura-canzone" (non che questo non fosse già accaduto nei dischi precedenti, anzi, ma ora il tutto ha assunto dei contorni più decisamente "concettuali", dove la lezione di Thompson, e della sua "musica d'avanguardia per complesso rock", trova un chiaro e deciso riscontro). E, per inciso, sono proprio questi brani che vedono Ravenstine diventare l'elemento cardine, il polo d'attrazione verso cui convogliano tutti gli elementi sonori, diventando un unico vertiginoso respiro mimetico.

Fanno bella mostra di sé anche il minimalismo ossessivo di "Arabia", il gelido incubo dissonante di "Loop" (con ombre minacciose del synth), la batteria free-form e le urla di Thomas nel delirio di "Lost In Art" (con un gelido e fluttuante piano in lontananza) e, per finire, le frequenze radio in stile cageano di "Crush This Horn".

Esauritasi la prima fase, quella delle "danze moderne" e degli assalti sonici in stile beefheartiano, gli Ubu approdano in una nuova e sconfinata landa, quella che anni prima Thompson aveva avuto il merito di "invadere" con i suoi Red Crayola. In lontananza il deserto troneggia minaccioso, disteso a perdita d'occhio. Ma in quelle poche, pochissime oasi in cui è possibile sopravvivere si avverte, anche se quasi indistinto, il profumo di qualcosa di terribile e affascinante. The Art Of Walking è una di queste oasi.

Songs Of The Bailing Man, uscito nel 1982 e con Anton Fier (ex-Feelies, poi nei Lounge Lizards) alla batteria, prosegue sulla strada intrapresa dal disco precedente. La novità, però, è rappresentata dalla ventata di jazz che il neo arrivato conferisce alla struttura ritmica, come è evidente in "Long Walk Home" e in "West Side Story" (anche se strutturalmente è rintracciabile un po' ovunque). Con l'arrivo di Fier, e dopo la dipartita di Herman, il suono ha perso qualsiasi connotazione "rock", diventando essenzialmente "art", se mai questo termine ha significato qualcosa.Echi lontani di ciò che furono gli Ubu più aggressivi e marziali si hanno in "Thoughts That Go By", in "Big End's Used Farms" e in "Horns Are A Dilemma". In verità il disco, anche se ha dei momenti splendidi e senza dubbio "temerari", risente di una certa stanchezza, e non è un caso, quindi, che dopo la sua pubblicazione il gruppo decida di sciogliersi.

Il periodo "classico", e anche quello più originale ed innovativo dei Pere Ubu, lasciò spazio alla carriera solista di Thomas, che ottenne straordinari risultati artistici con album qualiThe Sound Of The Sande Monster Walks The Winter Lake.

Nel 1988, la formazione che accompagnava Thomas decise di ribattezzarsi Pere Ubu, in pratica segnando la rinascita della band: facevano parte, infatti, di quella formazione Maimone, Ravenstine, Krauss, più i nuovi arrivati, Cutler (ex Henry Cow) alla batteria e Jones alle chitarre.

Tenement Of The Year, pubblicato nel 1988, vede così anche il ritorno alle origini, alla loro apocalittica danza moderna, affiancata però da una inedita e vibrante sensibilità pop (segno evidente, quest'ultimo, che l'umore di un tempo ha lasciato spazio ad una visione più serena e, forse rassegnata, delle cose). Tra i brani da ricordare vanno certamente annoverati "Say Goodbye", "We Have The Technology" e "Hollow Heart".

Dopo i deludenti Cloudland, Worlds In Collision e The Story Of My Life, (tutti accomunati dalla ricerca di strutture più caratteristicamente pop), Ray Gun Suitcase, uscito nel 1995, metterà fine al periodo di crisi con un'altra serie di brani appassionanti, tra i quali si segnalano "Electricity" (con una meravigliosa chitarra evocativa), e "Montana" (con violino, fisarmonica, rumori assortiti e la classica voce "ubriaca" di Thomas a disegnare traiettorie evanescenti). Alcuni brani, come "Surfer Girl" (dal repertorio dei Beach Boys) e "My Friend Is A Stooge", sono più vicini agli stilemi del pop-rock, anche se mai banali e prevedibili.

Nel 1996 esce per la Dgc l'antologia Datapanik In The Year Zero, un cofanetto che raccoglie i loro primi cinque album. Sempre del 1996 è Apocalypse Now, registrazione di uno show dal vivo. Due anni dopo è la volta di Pennsylvania, un album più desolato del solito, che dispensa il folk abrasivo di "Urban Lifestyle", l'atmosfera alienata di "Silent Spring" e le tracce industriali di "Woolie Bullie". Così lo stesso Thomas si esprimeva a proposito di questo nuovo progetto: "Considera che tutte le parole appartengono ai bugiardi e la cultura è un'arma che può essere usata contro di noi, ma la geografia può essere uno specchio e dietro ad essa si nasconde un linguaggio incorruttibile. La geografia scavalca le parole ed è lontana dai mentitori".

L'ultimo vagito dell'orco ribelle è il recentissimo St. Arkansas, certo non all'altezza dei capolavori di un tempo, ma comunque un lavoro da ascoltare con dedizione e con rispetto, tenendo d'occhio alcune gemme come "Dark" e "Steve", quest'ultima memore del tribalismo industriale del periodo classico.

A 27 anni dal loro primo singolo, i Pere Ubu restano una delle compagini rock più grandi in assoluto. Con un disco come The Modern Dance hanno dato vita a una delle esperienze estetiche più "alte" di tutti i tempi, capace tanto di influenzare un'intera generazione di musicisti (Husker Du, Pixies, Sonic Youth, Minutemen, Mission Of Burma, solo per citarne i migliori), quanto di convogliare in musica la verità storica di un intero secolo.

Non è azzardato, allora, affermare che quest' opera è degna di figurare accanto a quella di Joyce, di Picasso, di Kafka, di Warhol, di Heidegger, di Stockhausen, di Freud, e via dicendo. La grandezza della band di Cleveland sta forse soprattutto in questa sua capacità di ricollegarsi ad esperienze umane tra loro distanti, ma tutte accomunate dal disagio del nostro tempo, dal suo scorrere inesorabile dentro il nulla, dal suo volteggiare lontano dal silenzio che è eterno bagliore divino. "Eppure - come scriveva Gorge Steiner - le zone oscure occupano il centro. Ignorarle significa rendere impossibile qualunque ragionamento serio del potenziale umano" ("Nel Castello di Barbablù", 1971).

I Pere Ubu tornano nel 2006 con Why I Hate Women, quindicesimo disco in circa trent'anni di straordinaria carriera. Titolo bizzarro, penserà qualcuno. Molto più semplicemente, una novella che Jim Thompson non ebbe mai modo di scrivere.
Della formazione originaria, ormai già da tempo ci resta il solo David Thomas, pantagruelico crooner di un'era industriale estremamente post-. Per il resto, se si eccettua l'arrivo del chitarrista Keith Moliné, la formazione è la stessa che quattro anni or sono registrò l'accattivante St. Arkansas: Robert Wheeler (sintetizzatori e theremin), Michele Temple (basso) e Steve Mehlman (batteria). Una formazione ormai affiatata e compatta nell'assecondare l'estro teatrale di Thomas, per un sound solidamente rock, anche se nell'uso, ancora una volta, surreale ed eccentrico di synth e theremin, lo stesso non nasconde le sue propensioni destabilizzanti.
"Estremamente ossessivo": così Thomas definisce il disco. Un'ossessività acuita anche dal suo narrare-cantando, in quello stile scrupoloso e dettagliato che rimanda proprio a Jim Thompson. Il funk scorrazzante e narcotico di "Two Girls (One Bar)" e la dissertazione abulica di "Babylonian Warehouses" ne sono, immediatamente, esempi lampanti. Le tenebre metropolitane avvolgono "Blue Velvet", ballata sinistra ed inafferrabile che se ne sta accovacciata, lì da qualche parte, tra l'astratta psichedelia di "The Art Of Walking" e le visioni diaboliche di "Dub Housing". Claustrofobia; e ossessione, senza dubbio. Mentre i sintetizzatori scagliano figure filiformi tutt'intorno, Mehlman stenta sulle pelli e Moliné cuce confini luminescenti. Prendere nota, please!, per futuri panegirici. Da questo girone infernale si torna esausti, eppure incapaci di non farsi prendere la mano dallo scalmanato punk di "Caroleen", sfasciato dalle deliranti filigrane del theremin (vedi anche la disincantata "Flames Over Nebraska") e assuefatto al verbo di certi Rocket From The Tombs.
Ma lì dove gli Ubu continuano a far valere tutte le loro ragioni e in quei lunghi psicodrammi come "Love Song", questa volta, però, impreziosito da febbrili punti di fuga che, nel romperne il tessuto narrativo, cercano, invano, di tradurne la dimensione onirica in jam liberatoria. Se in "Mona" siamo in pieno territorio di ballabile & grottesco, la vignetta aliena di "My Boyfriend's Back" prepara il terreno per un ennesimo tour de force psichico, "Stolen Cadillac", dove è un'ipnotica figura di basso a rappresentare il baricentro per le evoluzioni soniche di vintage-electronics. E' una musica altamente immaginifica, introspettiva al massimo grado. Forse non così debordante come una volta (leggermente "normalizzata", ma tant'è), ma sempre e comunque capace di tentare le nostre più oscure paure.
Oggi più che mai, appare sempre più chiaro che Pere Ubu è fondamentalmente un buco nero in cui il rock è costretto più volte a ritornare per dissolversi e rinascere, incapace di morire. Una compenetrazione mostruosa di tradizione e futurismo: questo il senso del tutto. E se la "Synth Farm" è una pulsione di morte in scorza goliardica, la "Texas Overture" finisce ulteriormente per consacrare, del rock, lo status di musica giovanile per eccellenza. Ovvero, luogo non-luogo di scariche adrenaliniche, tonfi emotivi, disastri esistenziale, devastanti impeti corporali e quant'altro una mente senza preconcetti ed avventurosa possa solo minimamente immaginare.

Passano tre anni e Thomas tira fuori la tanto attesa opera-rock dedicata alla creatura di Alfred Jarry. Accompagnato dal radio-drama “Bring Me the Head of Ubu Roi”, Long Live Père Ubu è un disco in cui la dimensione musicale va a braccetto con quella teatrale, come dimostra, in primis, lo “sdoppiamento vocale” tra l’omone di Cleveland e la cantante soul-jazz Sarah Jane Morris.
Con un plot narrativo derivato naturalmente dall’opera dello scrittore-drammaturgo d’Oltralpe, la nuova opera della band americana (della cui leggendaria line-up è rimasto, ormai, solo Thomas) ha dalla sua il fascino di un incontro per troppo tempo rinviato, ma, musicalmente parlando, spiace evidenziare una certa carenza di ispirazione. Accanto a numeri più corposi (il quasi hard-rock di “Road to Reason” e la verve nerboruta di “Watching the Pigeons”), trovano posto composizioni in cui il taglio drammaturgico dell’operazione è in bella mostra, a cominciare dalle voci che si passano il testimone, come in una sorta di musical dell’assurdo, di “Song of the Grocery Police” e "Bring Me the Head”.Ma la musica – si prenda, per esempio, “Banquet of the Butcher” - si distende quasi sempre abulica, infetta (ma questa volta, non è un complimento...), quasi una versione de-potenziata di quella che, “appena” 30 anni prima, aveva messo a soqquadro l’underground americano.
Manca, insomma, una controparte sonora capace di “assecondare” ma anche di completare e, perché no?, illuminare la narrazione vocale dell’asse Thomas/Morris. Numeri come “March of Greed” (che fa visita ai Residents più grotteschi), “Slowly I Turn”, la lunga apnea noir-jazz di“The Story So Far” e “Big Sombrero (Love Theme)” (che sembrano strane rivisitazioni del corpus Waits-iano, con tracce di Birthday Party strafatti di valium sull’ultima) ci dicono di una formazione cui quella sintesi tra musica e parole, che ci si aspetterebbe in un’opera del genere, è riuscita solo in parte. Un passo falso, insomma.

Lady From Shanghai, che esce quattro anni dopo, viene presentato come il loro disco dance. Tuttavia, di musica "dance" in senso stretto in questo lavoro c'è poco o nulla. Tutta la prima parte del disco, a cominciare dalla nevrosi minimalista su base sintetica di “Thanks”, rivela, al massimo, la loro dimensione del “ballabile”, una dimensione ampiamente indagata già in passato. In mezzo alla solita fioritura di disturbi elettronico-rumoristi, prendono consistenza sillabazioni oscure, battiti robotici su cui aleggia il fantasma di Edison (“Feuksley Ma'am, The Hearing” campiona la sua “versione” di “Mary Had a Little Lamb”), strambe declinazioni di una malinconia atavica (“Musicians Are Scum”) e lame di synth che squarciano penombre minacciose (“Another One (Oh Maybellene)”). A questo punto, la danza moderna non può fare a meno di mostrarsi in piena luce per quello che è e per quello che, in fondo, è sempre stata: la trasfigurazione di un cabaret assurdista, come suggeriscono, senza troppe astrazioni, gli oltre sette minuti in modalità ipnotico-androide di “Mandy”.
Un disco, insomma, che fotografa una band ancora desiderosa di dire la sua, ma non riesce ad andare oltre una dignitosa affermazione di questo desiderio. Pertanto, questi cinquanta minuti scorrono in maniera piacevole, tra dissertazioni scontate, l’immancabile Capitano Cuordibue che fa una visita di cortesia regalando trote (“Lampshade Man”) e misteriose odissee spaziali (“And Then Nothing Happened”). E, mentre la tracklist va consumandosi, la percepisci la Bestia in affanno. E la riconosci, chiara e nitida, nella sua incapacità di azzannare e di scuoiarci vivi, tanto che anche i rumorismi in libertà di “The Carpenter Sun” fanno appena il solletico.

Un anno dopo, arriva Carnival Of Souls, horror B-movie diretto da Herk Harvey nel 1962 con cui David Thomas si era già confrontato nel 2011 quando, su richiesta del London East End Film Festival, aveva provato a sonorizzarne alcune scene. In seguito, avrebbe coinvolto nel progetto gli altri Pere Ubu, sviluppando sonorità che, allontanandosi dagli stilemi ballabili di Lady From Shanghai, finivano per ritornare con più convinzione alle origini della loro epopea. A dominare la scena è sempre l'orco buono Thomas, con la sua voce strascicata, abulica, aliena. Intorno, la sovrastruttura elettronica, pur essendo meno densa rispetto ai più recenti lavori, fa da collante per gli sviluppi mediamente sbilenchi e grotteschi di un art-rock inquieto e scostante, articolato tra rigurgiti di “danze moderne” (come quelli che propellono l’iniziale “Golden Surf II”), nenie post-punk come girotondi dementi (“Bus Station”) e numeri più sinistri, attraversati da ataviche paranoie (“Drag The River”) o trasformati in delicati incubi cameristici rimestati con riflessi noir (“Visions Of The Moon”). E’ un disco che fotografa una formazione mediamente ispirata, anche se la qualità media dei brani è lontana anni luce dalle vette dei giorni migliori. In ogni caso, anche questa volta la band riesce quantomeno nell’impresa di fermare il tempo, generando un cortocircuito spazio-temporale che induce a fare due conti sull’evoluzione, il presente e le sorti prossime venture del rock “colto” o comunque lo si voglia chiamare. Non convincono, in ogni caso, i dodici minuti di “Brother Ray”, una dissertazione che tradisce fin troppo il retroterra improv su cui sono cresciuti questi brani. Altrove, invece, pur facendosi più astratti (“Dr Faustus”), riescono a mantenere intatta una discreta dose di angoscia “costruttiva”, procedendo, quindi, verso notturni deliqui in orbita jazz (“Road To Utah”, con una intro probabilmente memore di quella di “This Is Radio Clash” di Joe Strummer & co.), ipnosi Tom Waits scandite dal minaccioso tema del film (“Carnival”) e addirittura la love-song "Irene", talmente languida che, per un attimo, si ha l'impressione di essere stati catapultati tra i solchi di un altro disco...

In 20 Years In A Montana Missile Silo, uscito nel 2017, troviamo invece una band che sembra provenire da un’altra dimensione temporale, come se avessero tirato fuori dal cassetto un progetto dimenticato o accantonato volontariamente, al punto che l'esuberanza delle prime tracce è non solo riconducibile agli esordi ma leggermente disturbante. E’ un David Thomas in forma, quello che ringhia come un personaggio di un film horror incurante dei sinuosi e frastagliati accordi sottostanti (“Monkey Bizness”), o che prende spunto da una vecchia canzone dei James Gang (“Funk 49”) sputando e gracchiando alla maniera di un giovane Iggy Pop, non senza dimenticare le regole del blues (“Prison Of The Senses”), che il musicista avvolge in toni sepolcrali e sudici che non suonano mai confortevoli  (“Walking Again”). Nella sua pur prevedibile bizzarria art-freak, è l’album più autenticamente Pere Ubu da molto tempo a questa parte, inquietante e lugubre come i migliori Yo La Tengo (“Cold Sweat”) e altresì amabilmente paradossale come un brano di Captain Beefheart (“Swampland”). Un album audace, lievemente iconoclasta nel suo accostare un maestro del blues come Howlin Wolf nel carnale noise-rock di “Howl”, ai soundscape elettronici dei primi Tangerine Dream nell’avventurosa “Plan From Frag 9”. Non mancano aneddoti e leggende sulla genesi del nuovo disco dei Pere Ubu, a cominciare dai titoli che Thomas ha scartato prima della scelta definitiva (“Bruce Springsteen Is An Asshole" e "Robert DeNiro Is An Asshole") o dalle session di registrazione, durante le quali i musicisti sono stati isolati in camere oscure con la presenza di un oggetto o di un animale che stimolasse la loro anima selvaggia. Resta solo la costante impressione che, nonostante David Thomas resti maestro del grottesco, 20 Years In A Montana Missile Silo riesca solo in parte ad allontanarsi dalle secche della routine, anche se il musicista americano dimostra di saper invecchiare come un buon vino, evitando di affidare il suo appeal all'effetto-nostalgia.

 

Nel 2023 esce Trouble On Big Beat Street, presentato da Thomas come la sua risposta all’ascolto, in illo tempore, di “Song Cycle” di Van Dyke Parks e contenente 10 brani nella versione Lp e ben 17 in quella in cd. Un disco nel complesso più riuscito dei suoi più ravvicinati predecessori e questo proprio grazie alla presenza delle bonus track finite sulla versione cd, dove, quando non c’abbaglia la sensazione di essere ripiombati tra i solchi di The Art Of Walking, tra astrazioni e incubi collassati su se stessi (“76 BPM”, “Pidgin Music”), si continua a dissertare o a vagabondare in pataphysical mode con il santino di Alfred Jarry nella tasca destra dei pantaloni (“Nothin But A Pimp”, “Sleep”, “From Adam”).
Registrati secondo la regola del “buona la prima” (fatta eccezione per la simpatica cover di “Crazy Horse” degli Osmonds), i brani di fotografano, insomma, una band (di cui fanno parte anche i due fidi Two Pale Boys Keith Moliné e Andy Diagram, rispettivamente a chitarra e tromba filtrata dall’elettronica) in discreta forma, qui alle prese, nell'immediato, con una “Love Is Like Gravity” i cui primi secondi fanno addirittura pensare al Jon Hassell di "Dream Theory In Malaya", salvo poi incrociare i soliti, elettronici sibili che spingono la mente a surfare oltre i confini del rock (se ne occupa Gagarin, al secolo Graham Dowdall, già batterista dei Ludus), per alfine assestarsi, cullata dalle oblique tessiture vocali di Thomas, in un ibrido di minimalismo post-punk e jazz destrutturato.
Se, con il disco-pop di “Crocodile Smile”, Thomas è ancora alle prese con l’ossessione per la rivisitazione del pop che aveva caratterizzato la gestazione di The Long Goodbye, con “Moss Covered Boondoggle” e, soprattutto, “Worried Man Blues” si veleggia invece verso le lande del blues, ma con quel piglio tra il sornione e il demente che, Captain Beefheart docet, depotenzia una tradizione ma solo per renderla sempreviva. Altrove, “Nyah Nyah Nyah” guarda ai Residents dello sberleffo ai Beatles. “Satan’s Hamster” è oscura come un’outtake di “Dub Housing”, mentre “Uh Oh” evoca l’angoscia di “Final Solution”.
Trouble On Big Beat Street non è un disco indispensabile, ma si riascolta sempre con piacere, il che, ne converrete, per una band che ha esordito quasi cinquant’anni fa, non è cosa da poco.

 

Contributi di Gianfranco Marmoro ("20 Years In A Montana Missile Silo")

Pere Ubu

Discografia

30 Seconds Over Tokyo/ Heart of Darkness EP (1975)

The Modern Dance (Blank, 1978)

Datapanik In The Year Zero (anthology, Atlantic, 1978)

Dub Housing (Rough Trade, 1978)

New Picnic Time (Rough Trade, 1979)

The Art Of Walking (Rough Trade, 1980)

390 Degrees Of Simulated Stereo, Ubu Live vol. 1 (Rough Trade, 1981)

Song Of The Bailing Man (Rough Trade, 1982)

Terminal Tower: An Archival collection (Tim/Kerry, 1985)

The Tenement Years (Enigma, 1988)

Cloudland (Fontana, 1989)

Worlds In Collision (Fontana, 1991)

Story Of My Life (Imago, 1993)

Ray Gun Suitcase (Tim/Kerry, 1995)

Harpen Singles (Tim/Kerry, 1995)

B Each B Oys See Dee + (Tim/Kerry, 1995)

Folly Of Youth See Dee + (Tim/Kerry, 1995)

Datapanik In The Year Zero (anthology, Geffen, 1996)

Pennsylvania (Cooking Vinyl, 1998)

Apocalypse Now (live, Thirsty Ear, 1999)

St Arkansas (spinART, 2002)

Why I Hate Women (Smog Veil, 2006)
Long Live Père Ubu (Cooking Vinyl, 2009)
Lady From Shanghai (Fire Records, 2013)
Carnival Of Souls (Fire Records, 2014)
20 Years In A Montana Missile Silo (Cherry Red, 2017)
The Long Goodbye (Cherry Red, 2019)
Trouble On Big Beat Street (Cherry Red, 2023)
Pietra miliare
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