Pere Ubu

The Modern Dance

1978 (Blank)
new wave

Non sempre si può raccontare un disco con distacco, anzi, forse quasi mai. Quando, poi, il disco in questione è considerato da chi scrive uno dei massimi capolavori della musica del XX secolo, oltre che il disco della propria vita, quello che non mancherebbe mai su di una eventuale isola deserta… beh, allora l'oggettività va a farsi… ehm… benedire.

D'altra parte, come si fa ad ascoltare un disco così dall'alto della propria "onestà intellettuale"? Non è nemmeno una questione di predisposizione emotiva verso sonorità del genere, e bla-bla-bla… La verità è che "The Modern Dance", così come ogni grande opera d'arte, suscita reazioni emotive a catena, forte di una struttura dirompente, di un suono eccessivo, di paesaggi immaginari che si inseguono su più livelli. Pur essendo radicato nel suo tempo, tuttavia il capolavoro di Thomas & co. ha ancora tantissimo da insegnare a tutti quelli che nella musica cercano non risposte, ma domande; non sogni, ma incubi organizzati; non disimpegno, ma autenticità e coraggio. Non solo (grande, grandissima) musica, ma visioni di "universi possibili".

Dopo 45 giri irripetibili e rivoluzionari come "30 Seconds Over Tokyo" e "Final Solution", ancora con l'indimenticato Peter Laughner alla chitarra (ascoltatevi l'assolo su "Final Solution" e capirete…), gli Ubu decisero di marchiare a fuoco il loro nome nell'epopea del rock registrando nel 1978 il disco in questione.

Il sibilo che introduce "Non Alignment Pact" mette subito le cose in chiaro: la danza moderna è un'orgiastica sintesi tra garage-rock, primitivismo sfrenato, rumorismo e psichedelia astratta. I cardini di questa rivoluzione sono il canto "beefheartiano" di Thomas (ma con una carica grottesca e un senso dello humour ancora più sconcertanti di quelli del genio di Glendale — in tutto ciò, mette lo zampino la maschera jarryana) e il tastierismo aleatorio e ultra-impressionista di Ravenstine. Intorno a questi due punti nodali, Krauss (batteria) e Maimone (basso) si aggirano minacciosi ridisegnando le coordinate della sezione ritmica, e costituendo, di riflesso, la struttura essenziale di questa danza dell'era tecnologica, che è il risultato dello scontro tra due opposte tendenze: quella "primitivista" (legata al ballo come mezzo espressivo della corporeità) e quella "modernista" (che è evidente nel tentativo di rileggere quella prima componente in chiave post-moderna). Chiude il cerchio Herman, con la sua chitarra sbilenca e dissonante, ma pur sempre memore dei primi vagiti del rock.

Fatte le debite premesse, non resta altro che rilevare l'importanza dell'elemento "concreto" nell'economia della loro sintesi rivoluzionaria. Se, da un lato, Ravenstine costringe il suo sintetizzatore Eml a escursioni sonore che sono delle vere e proprie "astrazioni", dall'altro ci si imbatte in veri e propri brandelli di realtà che reclamano il loro diritto a diventare "segno" proprio di quella realtà, ormai alienante e angosciante, che sfugge a ogni definizione risolutiva. Prendiamo, ad esempio, il caso della title-track: questo ballabile schizofrenico e bestiale stupisce per il suo equilibrio tragico tra sequenze "concrete" e disastrose impennate pseudo-musicali. L'amalgama sonoro ha lo stesso effetto di un documentario cinematografico sulla società industriale. Un altro effetto di "straniamento" è riscontrabile, in maniera del tutto peculiare, in "Laughing", in cui l'intro di free-jazz abulico finisce per essere dissolto da un altro dei loro boogie folli e disumani. "Street Waves" ritorna alla matrice rock del loro sound, ma con una tensione ancora più palpabile, rinvigorita dai miasmi chimici che, dall'inizio alla fine, seguono l'organizzarsi del brano in un disperato quanto solenne requiem post-atomico.

La loro poetica dell'alienazione e del disagio trova uno straordinario corrispettivo "drammatico" nella struttura "esplosa" di "Chinese Radiation". Ma siamo sempre nell'era del punk, e allora eccolo il punk esagitato e sconnesso di "Life Stinks", con grande tripudio "free" di sintetizzatore. Il funk nevrotico di "Real World", però, riconduce quest'ultima agghiacciante visione apocalittica nel solco di una rivelazione maggiormente solenne, condita da sinistre frequenze di synth e dal canto "imploso" di Thomas. La liturgia del disordine e della disperazione giunge a un passo dal silenzio mistico nella lenta peregrinazione di fantasmi di "Over My Head", dove ogni brandello sonico risulta situato in una zona d'ombra totale.

L'ermetismo di questi magistrali fotogrammi del nostro tempo ha, probabilmente, il momento di maggiore efficacia nell'esperimento di "Sentimental Journey", tra stoviglie in frantumi, voce ormai prossima al collasso, squarci di synth ed esplosioni ritmiche maciullanti: sinfonia rumorista per esaurimento nervoso, se mai ve ne è stata una… Ed, in fondo, nemmeno la goliardia appiccicosa di "Humor Me" riesce a porre rimedio al senso di claustrofobia gelida a cui è ormai giunto questo capolavoro assoluto della new-wave.

Esiste, insomma, una nuova religione: la religione dell'assurdo; dell'assurdo come rimedio alla disperazione. Alfred Jarry lo aveva capito già alla fine dell'800. Ma l'assurdità della musica dei Pere Ubu riconduce le nostre nevrosi verso l'ascolto del bisbiglio primordiale del mondo: la gioia tragica.

05/11/2006

Tracklist

  1. Non alignment pact
  2. Modern dance
  3. Laughing
  4. Street waves
  5. Chinese radiation
  6. Life stinks
  7. Real world
  8. Over my head
  9. Sentimental journey
  10. Humour me