Quanto alla genesi del capolavoro beefheartiano, i fatti sono più o meno noti: intorno alla metà del 1968, reduce dalla delusione di "Strictly Personal" (rovinato, a suo dire, dalla produzione fin troppo psichedelica di Bob Krasnow), Don Van Vliet/Captain Beefheart mandò tutti a quel paese e si rivolse all'amico Zappa, chiedendogli totale libertà artistica. Baffo Frank non se lo fece ripetere due volte e gli disse che gli avrebbe dato la possibilità di registrare un disco, realizzandolo, però, come una "registrazione antropologica sul campo". La location scelta era una vecchia casa di legno a due piani, situata a Woodland Hills, sulle colline intorno a Los Angeles. Beefheart l'aveva presa in affitto da poco e vi si era trasferito insieme all'allora sua fidanzata Laurie Stone e alla Magic Band. Per "comporre" i nuovi brani, Beefheart aveva comprato un pianoforte verticale, costringendo i facchini che glielo consegnarono a smontare una delle porte di casa per posizionarlo lì dove gli faceva più comodo.
Beefheart non sapeva assolutamente suonare quello strumento e proprio per quel motivo lo aveva scelto: non poteva piegare, infatti, la musica che gli ronzava in testa alle regole di uno strumento di cui aveva qualche seppur piccola conoscenza, pena l'alterazione della purezza istintiva della stessa. Così, seduto dinanzi a quei tasti, tirò fuori decine e decine di figure pianistiche dalla forte impronta ritmica, assegnando, di volta in volta, le parti a questo o a quel membro della sua "magica banda". Al suo fianco, il batterista John French (iscritto all'anagrafe di Beefheart-landia con il nomignolo di Drumbo e l'unico dei suoi musicisti ad avere un'infarinatura di notazione musicale) trascrisse, con sufficiente approssimazione (non sapeva bene come tradurre sul suo taccuino le parti suonate al pianoforte!) tutto quello che Beefheart andava suonando. Distribuire ai chitarristi Bill Harkleroad (Zoot Horn Rollo) e Jeff Cotton (Antennae Jimmy Semens) e al bassista Mark Boston (Rockette Morton) le rispettive parti fu compito dello stesso French che, oltre ad assicurarsi che i ragazzi le suonassero nel miglior modo possibile, prese anche a sperimentare nuove soluzioni batteristiche, nel tentativo di tenere insieme quella musica così tentacolare. L'ultima parola, in ogni caso, spettava sempre a Beefheart, che "scolpiva" le parti che non lo convincevano, fino a dare loro la forma che riteneva più vicina a quella che aveva generato attraverso il suo corpo a corpo con il pianoforte.
Così, tra prove estenuanti (fino a sedici ore al giorno!), sedute e gite culturali (con Beefheart a fare da Cicerone), discussioni e scazzottate, tentativi di manipolazione (pare che Beefheart avesse preso in prestito, dalla più vicina biblioteca, un po' di libri dedicati al controllo della mente umana...), soluzioni matematiche per sincronizzare le varie parti dei brani (spesso caratterizzate da misure ritmiche e tonalità divergenti) e un regime alimentare da Terzo Mondo, la musica di "Trout Mask Replica" assunse, giorno dopo giorno, quella forma "razionalmente informe" che traeva linfa vitale dal blues del Delta del Mississippi, dal rock, dal free-jazz (Ornette Coleman, John Coltrane ed Eric Dolphy i musicisti prediletti), dalla psichedelia e da correnti artistico-letterarie come il dadaismo, il surrealismo, l'espressionismo, la "beat poetry" e quant'altro, in un cortocircuito lirico-musicale senza precedenti. Tutt'altro che improvvisata, ma anzi assolutamente sistematica nel suo costringere il caos di svariati frammenti lirico-musicali dentro strutture (chiamarle "canzoni" è un po' azzardato...) perfettamente cesellate, la musica di "Trout Mask Replica" è quanto di più radicale e rivoluzionario si possa incontrare lungo la traiettoria di quella "cosa" che continuiamo a chiamare "rock".
Supportata da giovani musicisti di talento (età media: vent'anni), la voce di Beefheart ci guida in un viaggio attraverso l'immaginario americano. Il distacco dalla "frownland" (la "terra arcigna", dominata dall'odio e dall'egoismo) inaugura un vero e proprio "nostos" spirituale verso la sorgente della propria interiorità ("my own land", "my homeland"), lì dove Io e Mondo sono in perfetta sintonia, perché essenzialmente rappresentano l'uno il riflesso dell'altro:
My spirit's made up of the oceanE, mentre la musica ruggisce, schiamazza, sbanda, collassa, crolla su se stessa, risorge, si libera in ghirigori astratti dentro roventi paesaggi desertici o si fa da parte, lasciando la scena a evocative declamazioni poetiche, incontriamo, lungo le strade, le praterie e le vallate americane, disperati vagabondi in cui resiste, ancora intatto, lo spirito della Frontiera ("Hobo Chang Ba"), vecchi marinai segnati da una vita di stenti e di lontananza dalla propria terra ("Orange Claw Hammer"), animali in fuga dallo zoo e lune magnetiche ("Moonlight On Vermont"), impromtitudinal poem che, attraverso le "Dust Bowl Ballads", risalgono il sentiero fino alle grandi tempeste di polvere degli anni Trenta ("The Dust Blows Forward 'N The Dust Blows Back"), squarci sull'universo dei pachuco ("Pachuco Cadaver"), reminiscenze surrealiste via Salvador Dalì ("Dali's Car"), stormi di oche in volo verso terre più calde, specchi inoltrepassabili e miraggi di coyote che svaniscono dentro crepuscoli autunnali ("Steal Softly Thru Snow"), incredibili mutazioni linguistiche a margine di un sogno in cui la Natura e il Linguaggio sono il Medesimo (“Neon Meate Dream Of A Octafish”, uno dei più grandi testi di sempre), pesciolini rossi morti, chitarristi troppo magri e donne malridotte che incarnano la crisi degli Stati Uniti ("Bill's Corpse"), memorie di olocausti e timori di guerre prossime venture ("Dachau Blues"), dirigibili che sono e non sono metafore sessuali ("The Blimp"), papaveri, lacrime di madri e veterani di guerra ("Veteran's Day Poppies")... e, ancora, formiche, uomini e api tutti insieme appassionatamente come in una favola antica ("Ant Man Bee"), paesaggi che si perdono lontani, assumendo connotazioni metafisiche ("Well"), poveracci e salvadanai a forma di maialino ("China Pig") e allegorie dell'artista e della sua posizione nel mondo ("Old Fart At Play").
And the sky 'n' the sun 'n' the moon...
'n' all my eyes can see
E, tra questi e molti altri protagonisti, più o meno reali, più o meno espliciti, punti di fuga verso la musica, la cultura e la controcultura a stelle e strisce, tutto filtrato da una ferocissima aspirazione alla libertà. Un'aspirazione che, a conti fatti, condusse Captain Beefheart and His Magic Band, in quel 1969 (spartiacque tra il sogno della rivoluzione hippie e il ritorno all'ordine del "riflusso"), a fondare una vera e propria controcultura privatissima e alternativa a quella ufficiale. E ciò emerge non solo tra le pieghe di una musica ancora oggi inclassificabile (resa ancora più aliena dalle scorribande ai fiati - sax tenore, sax soprano, clarinetto basso, armonica - dello stesso Beefheart e di suo cugino Victor Hayden/The Mascara Snake, anch'egli a digiuno di teoria musicale), ma anche tra i labirinti poetici di testi ancora fin troppo sottovalutati (in bilico tra il flusso in "semitrance" di Jack Kerouac e le architetture solenni, ma già cariche di presagi modernisti, di Walt Whitman), che Beefheart si divertì, senza cuffie per la sincronizzazione, a schizzare contro la tela della musica, quasi a fornire una versione "vocale" del "dripping" di Jackson Pollock.
Ascoltare la musica di "Trout Mask Replica" senza coglierne la profonda sinergia tra musica e parole, significa, insomma, non comprendere appieno la potenza di un disco che, in definitiva, è anche, e forse soprattutto, un Grande Romanzo Americano.
(05/05/2018)