Francesco Nunziata

Captain Mask Replica

Autore: Francesco Nunziata
Titolo: Captain Mask Replica - Vita e arte di Don Van Vliet / Captain Beefheart
Editore: Arcana
Pagine: 383
Prezzo: Euro 25,00

Vita, opere e omissioni di Don Glen “Captain Beefheart” Vliet. Questo, sintetizzando e di certo banalizzando, il contenuto e l’assunto di Francesco Nunziata nel suo libro d’esordio, “Captain Mask Replica”. Pubblicato da Arcana - una garanzia del settore - è il primo volume in lingua italiana interamente dedicato a uno dei massimi geni della musica rock, oltre al suo fido complesso, la Magic Band nelle sue svariate incarnazioni.
Altro suo merito è senz’altro la linearità. Non solo, o non tanto, come semplicità di lettura e visione d’insieme, ma quanto come acuto riflesso del personaggio, uno suo primo abbozzo meta-testuale. Nunziata comincia con la nascita e finisce con la morte dell’artista (vi è una sola, unica digressione: al lettore il piacere di scoprire di cosa si tratta), narrando, nel mezzo, per filo e per segno ogni singola vicissitudine, ogni singolo brano, ogni album del nostro. Per un personaggio come Beefheart, in cui vita e arte non si scindono, la scelta non potrebbe essere più felice.

E la lettura del testo di Nunziata sembra davvero scorrere, a tratti, come un romanzo, se non come un lungometraggio. Dall’infanzia, dalle sue primissime creazioni (sculture), da quell’ambiente desertico - il cui potenziale misterioso d’indefinitezza surreale pian piano confluisce nella definizione della sua originalissima estetica artistica, oltre che nella sua visione delle cose - fino all’amicizia in tenera età con Frank Zappa e alle primissime esibizioni scolastiche a far il verso ai suoi bluesman del cuore, si passa al primo deciso passo verso la carriera musicale. Sempre più messo in luce come cantante atipico, licantropico, raspo e viscerale, Don trova la quadratura del cerchio con la musica jazz, l’ammirazione per i grandi a lui coevi, dapprima sbalordito dal talento di Roland Kirk, e poi certo innamorato del grande quartetto di John Coltrane, di Ornette Coleman, di Cecil Taylor, cioè in pratica della crème del free-jazz degli albori.

Se dapprima quel soprannome che ormai in molti conoscono, Captain Beefheart (oltre all’intercalare Van in onore del suo idolo Van Gogh), non era che un nomignolo di una realtà musicale in divenire, via via Don raggiunge lo status di leader assoluto, finanche dittatoriale, arrivando a fondare, comandare e controllare in toto il suo personale complesso, appunto l’iconica Magic Band. Dopo l’incisione dei primi singoli si arriva al primo mitico album lungo, il blues dadaistico di quel “Safe As Milk” (1967) che già fa detonare gioie e dolori: eleva Don a cantante e compositore visionario, inaugura davvero il suo microcosmo di surrealismo, la sua poesia cubista, e al contempo mette in luce il suo carattere scontroso se non iracondo, e soprattutto il suo controverso rapporto con i produttori discografici, fino alle esibizioni dal vivo, il suo pubblico. Seguono dunque le lunghe, visionarie jam post-blues di “Mirror Man” (1968), la migliore vetrina fino a quel punto per la banda magica, e l’assaggio di acid-blues “incidentale” di “Strictly Personal” (1968), per l’appunto un tentativo di rimaneggiamento a cura del produttore Bob Krasnow, a metà via tra il colpo di genio e il pasticcio inascoltabile.

Com’era prevedibile e come peraltro suggerito anche dal titolo del volume, la parte dedicata al colosso “Trout Mask Replica” (1969), suo indiscusso capolavoro e uno dei dischi più importanti e controversi della musica rock, è il cuore del saggio. Grande e dettagliatissima è la rievocazione dei giorni del making of, e qui Nunziata coglie l’occasione, con piglio puntuale e un po’ (ma giustamente) bacchettone, di dirimere definitivamente l’equivoco che legge superficialmente l’opera come il risultato di un’anarchia incontrollata estemporanea, o di stati alterati della coscienza tanto cari alla civiltà hippie, o peggio ancora di una presunta esecuzione amatoriale a casaccio.
Preciso intento dell’autore è anzi di porre in luce come le delizie politonali, polimorfiche, poliritmiche e dissonanti dell’opera (“Dachau Blues”, “Frownland”, “Pena”, “Fallin’ Ditch”), le giaculatorie atonali del leader, i suoi scherzetti stridenti e i suoi soliloqui (“Well”, “The Dust Blows Forward”, “The Blimp”), e tutto il resto di questo piccolo, grande, influente universo, rappresentino una perfetta forma di cristallizzazione del caos e di poesia aliena, e non un semplice frutto del caso o del no-sense fine a sé stesso. Al contrario, è anzi il risultato di un lavoro meticoloso generato dagli abbozzi al pianoforte di Don, trasformato e messo a punto dall’apporto fondamentale del batterista John French, concluso con le trovate di produzione di Zappa, ma anche rifinito dall’ambiente circostante (l’isolamento rigidamente irreale autoimposto nella Trout House). E la stessa razionalità - in misura forse anche maggiore - pervade l’album del “dopo”: “Lick My Decals Off, Baby” (1970).

Ma il testo è anche e soprattutto una miniera di informazioni. Passati due album interlocutori come “Spotlight Kid” (1972) e “Clear Spot” (1972), è particolarmente interessante andare a scoprire ragioni e retroscena del suo periodo di stanchezza, rimbambimento e crisi, “Unconditionally Guaranteed” (1974) e “Bluejeans & Moonbeams” (1974), i continui assoldamenti di musicisti, la rottura con Zappa e la successiva, anche se instabile, riconciliazione sugellata dal collaborativo “Bongo Fury” (1975), e la rinascita affidata al lost albumBat Chain Puller” (1976), sorgente della trilogia della tarda carriera: “Shiny Beast” (1978), “Doc At The Radar Station” (1980) e “Ice Cream For Crow” (1982). Infine, è commovente leggere dell’ultimo periodo, il breve tentennamento prima dell’abbandono definitivo della scena musicale, le ultimissime interviste (una piccola chicca: una conversazione con Bono) e le ultime comparsate radio, la felice avventura nell’amata pittura (cui è dedicato un intero capitolo), la tarda amicizia col discepolo Tom Waits (ma anche con una giovane, entusiasta PJ Harvey), e purtroppo la malattia che lo conduce alla dipartita, avvenuta nel dicembre 2010.

“Captain Mask Replica” è una lettura assolutamente fondamentale per gli appassionati del Capitano Cuordibue, fondamentale per come, a un tempo scolpisce a tuttotondo il personaggio, per come spiega le ragioni del mito, le giustifica, razionalizza, e contemporaneamente per come lo de-mitizza, rifinendo aspetti umani e quotidiani, dipinge l’uomo Don, la sua forza e la sua fragilità, la sua energia influente e le sue contraddizioni ingloriose. Non la tradizionale scorsa di ascesa e declino, quindi. Piuttosto un trattato competente (impressionanti le informazioni e i collegamenti, ad esempio, con i titoli dei blues ispiratori dei pezzi dell’artista) e più che approfondito, ma sempre appassionato, trattato con calore e dedizione, amore per la musica, e ovviamente la musica di Don in particolare. Per i non appassionati, per gli ascoltatori a digiuno di cotali sonorità, o per le nuove generazioni, è ugualmente una lettura da non perdere, anche solo per rendere merito a una di quelle vere, grandi eminenze in grado di espandere il linguaggio rock, per renderlo quel magnifico coacervo universale che oggi conosciamo e apprezziamo.