Quando inizia questo disco, quando inizia a suonare l'armonica sghemba e poi entra l'inconfondibile growl, la prima reazione che si ha, se si è appassionati di certa musica, è un fragoroso tuffo al cuore; quasi ti si strozza in gola per poi risalire e sfociare in un sorriso ebete. Dopo puoi solo piangere.
Mi rendo conto che tutto ciò potrebbe avere poco a che fare con la musica in senso stretto ma il solo immaginare Captain Beefheart redivivo di nuovo in sala d'incisione fa davvero venire la pelle d'oca, soprattutto oggi che sappiamo essere gravemente malato.
Era noto negli ambienti che John French avesse uno stile e un timbro canoro molto affine a quello del maestro; come pure tutti sanno ormai che il materiale dell'osannato "Trout Mask Replica" fu scritto da French, sulle indicazioni (a volte solo gestuali) di Vliet, ricevendone in cambio nientemeno che l'esclusione dai credits (!); ma, sarà per la presenza del nucleo della compianta Magic Band, sarà per quei ritmi sghembi, sarà per la voce di French che ricorda in modo impressionante, come si diceva, quella del Capitano, "City Of Refuge", con tutti i limiti che vedremo, riesce a sollecitare le corde emotive di cui siamo dotati.
Diamo conto di un po' di storia.
Le vicissitudini della Magic Band non sono sempre chiare ma si sa che i membri che di volta in volta ne hanno fatto parte hanno permeato sotto superficie (ma qualcuno anche fuori, leggi Ry Cooder e Gary Lucas) il rock degli ultimi 40 anni; più di una volta si è tentato di far rivivere quel mito ma, vuoi per i progetti non sempre convincenti (Mallard e Fast'n'Bulbous) vuoi per la decisione di Don Vliet di dedicarsi completamente alla pittura (vivendo quasi da recluso nel Mojave), la magia non s'è più ripetuta. Del resto le operazioni nostalgia finiscono quasi sempre per essere poi demoralizzanti e fare più male che bene alla causa; causa peraltro nobilissima, nel caso di Beefheart.
Dopo l'abbandono delle scene di Vliet "the Beef", French è rimasto relegato in una sorta di limbo; fu Fred Frith a tirarlo via dalle nebbie della memoria coinvolgendolo nell'incisione di un discutibile ma avvincente "Live, Love, Larf & Loaf" nel 1987 e nel 1990 di un mediocre "Invisible Means" entrambi a nome Frith/French/Thompson/Kaiser, una superband come andavano di moda in quegli anni. A ogni modo, il redivivo French poté finalmente provare a riavviare una carriera che sembrava seppellita dopo il fallimento della Magic Band; nel 1995 un autoprodotto "Waiting On The Flame" tentò di riportare French sotto la luce di qualche riflettore del grande carrozzone del rock e dopo un curioso (e inutile) "O Solo Drumbo" (in pratica la riproposizione delle sole tracce di batteria di alcuni classici di Beefheart), la bestia parve scomparire nella foresta, salvo farsi rivedere in giro nel 2003 e in sala d'incisione di nuovo nel 2008, per questo disco appunto. È singolare notare come la carriera di French sembri ricalcare quella del maestro; una sorta di maledizione.
A pensarci bene allora, solo French poteva riuscire a resuscitare, anche solo in parte, il mito di 40 anni fa. Ferma restando l'impossibilità (e non solo per motivi di salute) di riportare in sala d'incisione il vecchio Capitano, riappropriandosi dello storico moniker egli s'è armato di buona volontà e tenacia, ha imbracciato una vecchia armonica (il suo strumento originario) e un vecchio sax, oltre alla consueta batteria, e ha vestito i panni del suo mentore; è riuscito a richiamare nientemeno che Bill Harkleroad (Zoot Horn Rollo) alla chitarra e Mark Boston (Rockette Morton) al basso che, con French, costituivano il core della Magic Band che incise "Trout Mask Replica".
A loro si sono aggiunti altri musicisti di indubbio valore: il pianista John Thomas (Bat Chain Puller) e il chitarrista Greg Davidson (ribattezzato Ella Guru per l'occasione, proprio come si usava fare ai bei tempi), guidati in studio da Paul Riley. Questa formazione cominciò ad esibirsi in pubblico dal 2003 appunto, riscuotendo un largo consenso; fatto che ha certamente invogliato French e Riley a metter giù il disco in questione.
La composizione di French è certamente ispirata al rock dada e sudaticcio di Beefheart e il nume tutelare del vecchio maestro aleggia su tutte le tracce; e ciò non riguarda solo il trattamento della voce ma anche le trame musicali che la sostengono, facendo finanche intravedere i brillamenti armonici e ritmici che animarono quel sommo capolavoro del 1969; persino le due chitarre sono messe su canali diversi, proprio come fece Zappa, produttore dello storico doppio vinile!
Detta così, sembra che siamo di fronte a un capolavoro, e invece...
Invece la voce di French finisce in alcuni momenti per involversi a tal punto che assume tratti parodistici; si ha la netta impressione che French forzi in modo inopportuno il suo timbro per emulare artificiosamente quello di Don Vliet. I testi tentano goffamente di appropriarsi del valore immaginifico e dada di quelli del maestro; testi che, ricordiamolo, avevano un'importanza pari se non superiore in qualche caso alla musica stessa.
Non per niente i momenti migliori sono quelli in cui davvero si riesce a riesumare quel parossismo ritmico che caratterizzava la musica di Captain Beefheart.
Ma il limite fortissimo del disco sta proprio nel fatto che il "fantasma" di Beefheart è presente in modo ingombrante su tutte le tracce. Alla fine French, musicista dalle possibilità enormi, rimane come schiacciato dal peso, ancor più enorme, del fantasma che evoca.
È una sensazione molto strana e difficile da descrivere con compiutezza; proprio per questo, parodiando Enrico III di Navarra, "City Of Refuge" vaut bien une écoute; ci si potrà così inebriare dei ritmi deragliati di una "Bogeyman" con un basso ossessivo e metallico, dell'armonica graffiante di "Bus Ticket Outta Town", di una "Blood on a Porcupine Quill" esplosiva (quasi) come la leggendaria "Moonlight on Vermont" (e brano più autenticamente beefheartiano del disco), dei riff ebeti ("Pena"?) di una "Get So Mean", di una "Maybe That'll Teach Ya" improntata al più genuino southern-rock (una sorta di fusion tra ZZ Top e Magic Band), ecc. Non mancano ingenuità, piccoli peccati veniali (non sconosciuti neppure al mentore stesso), come quella "To The Loft of Ravenscroft" dedicata a John Peel, che però testimoniano la spontaneità di fondo di questo omaggio che l'ex pupillo regala a un maestro che non si sa nemmeno se l'ha ascoltato una volta.
Alla fine si viene colti dal magone, da quella malinconia lucida, consapevole di quanto il mondo del rock ha rinunciato permettendo a un autentico gigante come Captain Beefheart di mandare tutti al diavolo tanti anni fa. Buon ascolto.
17/09/2010