Going to the Feelies this evening, Henry?" Enquired the Assistant Predestinator. "I hear the new one at the Alhambra is first-rate. There's a love scene on a bearskin rug; they say it's marvelous. Every hair of the beast reproduced. The most amazing tactual effects.
(Aldous Huxley, "Brave New World")
Intrattenimento di gruppo, socialità e sessualità coatta, tossicodipendenza controllata. Il delirio distopico di "Brave New World" fa parte solo in via collaterale dell'immaginario dei Feelies; potrebbe sembrare quasi un feticcio dell'età scolare col quale certificare la propria immagine di secchioni del New Jersey. Eppure la musica di Glenn Mercer e Bill Million assomiglia un po' a quei ritrovi collettivi descritti da Aldous Huxley: sfrenata, anzi barbarica nel suo essere pre-razionale e subliminale; soprattutto, estremamente erotica, nella rappresentazione rituale ma anche plastica dell'amplesso.
Ciò che affascina dei Feelies è come la distopia comunque elitaria, perlomeno intellettualmente, dello scrittore britannico venga rovesciata e irrisa dal gruppo statunitense. In quelle innumerevoli serate al Maxwell's di Hoboken non si realizzava l'orrore contemporaneo dell'oblio e dell'annullamento di sé, dell'addomesticazione delle coscienze: semplicemente, con la rara corporeità delle grandi opere umane, prendeva forma la vita, seppure quella sudaticcia, giovanile, ormonale e imperfetta del rock.
I "ritmi pazzi" della New York di fine anni 70
La New York del 1976-78 è il vero polo d'attrazione della new wave americana: decine di band planano sulla città alla disperata ricerca di un contratto discografico. L'imperativo comune è distinguersi, farsi notare: nei festival estivi si presenta una dozzina di gruppi ogni serata, ognuno con un proprio repertorio originale. Tra il Cbgb's e il Max's Kansas City si esibiscono i Television, Blondie, i Talking Heads... In questo marasma i Feelies saranno abbastanza in vista per permettersi di farsi promuovere dal manager della band di Verlaine e di continuare a suonare (e sognare) in zona, ma non abbastanza per farsi accalappiare da un'etichetta.
Il nucleo iniziale della band è formato non solo da Mercer e Million, i due chitarristi, ma anche da Dave Weckerman, che diventerà poi il percussionista - ruolo quindi di primo piano - senza comparire ufficialmente nei credits del primo disco dei Feelies. La storia iniziale del gruppo è fatta di una lenta progressione in cui la ricerca sonora, indipendente e stimolata non solo dalla scena newyorkese ma anche dal movimento punk britannico, si fonde con la necessità di affrontare cambi di line-up improvvisi. Il momento chiave si ha quando Vinnie Di Nunzio, batterista e fratello del bassista Keith, lascia i Feelies per suonare con Richard Floyd dei Television. Al suo posto arriva Anton Fier, musicista già conosciuto dopo aver suonato con Electric Eels e Pere Ubu.
La sperimentazione sonora del gruppo, ossia la rinuncia all'uso dei piatti in favore di un più ampio accompagnamento percussivo (maracas, tom-tom, tamburello), si tradurrà nella pratica, in questa occasione, in una ritmica animalesca, in spettacoli sovraeccitati (leggenda vuole che i membri del gruppo bevessero ingenti quantità di caffè prima di ogni show) che i Feelies centellinano nel corso dell'anno. "Suonavamo soltanto in giorni di festività nazionale", ricorda Mercer. Poco interessati all'attività live, maniacali nella limatura del sound e con un repertorio assai limitato: così, forse, si spiega il mistero della mancata firma della band per un'etichetta. Al momento dell'uscita del singolo "Fa-Cé-La" con la Rough Trade, i cinque di Haledon, New Jersey sono però già sotto contratto per la Stiff, ansiosa di mettere le mani su quella che considera una band dal singolo facile e dalle esplosive potenzialità dal vivo.
Sono in realtà i Feelies a rispondere coscientemente alla prima offerta che garantisce loro completa autonomia di produzione e controllo non solo sull'aspetto musicale ma anche d'immagine della band. Prima "delusione" per l'etichetta londinese di Elvis Costello e Nick Lowe sarà il record interno nella durata delle registrazioni del disco: quattro settimane, nelle quali la scarsa soddisfazione di Mercer e Million per il suono delle chitarre li spingerà alla scelta disperata di registrare le loro parti senza amplificatore.
"[...]Decisamente la produzione fu unica, per le mie orecchie. Una delle ragioni principali è che avevamo un sacco di problemi nell'ottenere un buon sound delle chitarre in studio. Provammo qualsiasi cosa. Ampli diversi, stanze diverse. Praticamente esaurimmo le possibilità dello studio in cui eravamo. Mark Ambel, il co-produttore del disco, disse: "Perché non registriamo direttamente le chitarre e le re-amplifichiamo quanto siamo pronti a mixare?". Avremmo dovuto fare il missaggio in uno studio migliore. Ci disse che avremmo ottenuto un suono migliore là. Così stavamo registrando le chitarre direttamente, il che è come una regola. Mai registrare le chitarre direttamente. Suonava davvero secco, morto. Ma in realtà quel sound cominciò a piacerci. Molte delle chitarre sul disco vennero lasciate così. Scoprimmo che, quando registri direttamente, è un po' più vicino al tuo orecchio. Hai lo spazio dello speaker e ... del microfono mentre stai registrando. Molta gente pensa che le chitarre acustiche siano solo delle elettriche registrate direttamente. Una specie di suono asciutto".
(Glenn Mercer)
L'inizio del disco è più di una semplice introduzione. In quel minuto di buio primordiale, in cui i suoni si accavallano da lontano come in una caverna lentamente popolata di torce, sembrano trascorrere intere epoche e si stipula silenziosamente col sangue una promessa di non ritorno. Qualcosa di misteriosamente primitivo si avverte provenire dai suoni di Crazy Rhythms. Quella asciuttezza, il sordo incalzare della batteria e delle percussioni, il graffio bestiale dell'intreccio chitarristico simbiotico di Million e Mercer, trasformano "The Boy With The Perpetual Nervousness" in un incipit solenne, in cui questo ragazzo timido e schivo della porta accanto pare innalzarsi a totem gigantesco, con ogni orifizio corporeo che erutta fuoco. Il "ragazzo della porta accanto" non sembra fare granché, perché "non aiuta nei lavori in giardino", o perché non aiuta la mamma a portare i sacchetti della spesa. La riscossa del nerd si compie nel ritornello:
The boy next door is into better things
As far as I can see
The boy next door is into bigger things
The boy next door is me
I Feelies "scelgono" un - allora come adesso - necessario immaginario di riferimento, a partire dalla celebre copertina (citata e replicata nel debutto dei Weezer), in cui sfoggiano il look più sfacciato dell'emarginato della mensa scolastica. In realtà l'estetica del gruppo non pare rivestita di chissà quali connotati intellettuali: i testi impressionisti di Crazy Rhythms sembrano tesi a intercettare le sensazioni dei coetanei e a descriverne il mondo in un pugno di parole, più che a imbastire un solido pantheon concettuale.
La vera importanza del disco risiede indubbiamente nel suo contenuto musicale e nella intrinseca ed esplosiva novità sonora. A trascendere la somma di ingredienti del disco - il punk della cover di "Paint It Black", bonus track del disco, la chitarra di Verlaine, i primi monocordi vagiti no-wave di "Forces At Work", l'accelerazione della psichedelia del "White Album" nella cover di "Everybody's Got Something To Hide (Except Me And My Monkey)" - è proprio la fusione centrifugata di ingredienti passati e contemporanei, accelerata follemente fino a ottenere un nucleo il più puro possibile.
La ritmica assume valore centrale e preponderante (la title track). E le chitarre di Mercer e Million, dopo una carriera giovanile passata a imparare insieme lo strumento, sono simbiotiche, complementari, si veda la quasi strumentale "Raised Eyebrows", ma soprattutto "Loveless Love", introdotta da sequenze minimali di accordi e dal batterismo à-la Maureen Tucker di Fier, espone una sorta di teorema ante-litteram e post-punk del "math-rock", ma come eroso dall'interno dalla solita vena ansiogena, con, nel finale, un rapido saliscendi della sei corde che si stempera in un brevissimo pannello impressionista di elettronica planante.
Desiderosi di staccarsi dall'immagine punk-rock delle band più in vista all'epoca (Stooges e MC5, ad esempio), i Feelies guarderanno all'esperienza dei lavori di Eno per creare spazi e paesaggi tra gli strumenti, prendendo spunto dalle lezioni del compositore sull'"uso dello studio di registrazione come strumento compositivo".
Riassunto di tutto ciò è probabilmente il primo e unico singolo della band, "Fa-Cé-La", dalla sezione percussiva robotica, come se batteria e percussioni fossero fusi in un enorme meccanismo meccanico, perfettamente automatico, lo strumming minimale e impazzito di Million e i lampi voluttuosi di Mercer, che si sovrappongono vocalmente nel ribadire il loro messaggio schizzato, impressionista: "Get a message to Mom and Dad: - Everything is all right -".
Tutto bene, ma non per la Stiff. Nonostante i Feelies abbiano dovuto pagare di tasca propria i giorni in più passati in studio, la loro etichetta vorrebbe imbarcarli in un tour promozionale al quale parteciperebbero tutte le band sotto contratto, con un headlining a rotazione. La band, abituata a esibirsi per non più di otto volte in un anno, rifiuta di partecipare a quella tournée di tre mesi a tappe forzate. Le cose si mettono male, fino alla rottura definitiva.
Questa avviene quando, in risposta alla richiesta della Stiff di presentare un demo per il secondo album, il gruppo presenta "The Obediant Atom", traccia in pieno stile Feelies: "Quasi tutta strumentale, con qualche coro alla fine", ricorda Mercer. L'etichetta li convoca in sede; vogliono una hit strofa-ritornello.
Tra le difficoltà nel proseguire il progetto e l'effettivamente scarsa attività della band, i membri dei Feelies iniziano a interessarsi ad altre esperienze. Anton Fier lascia il gruppo (per non tornare, e questo avrà forse la maggior influenza sulla produzione successiva dei Feelies), mentre Keith DiNunzio fonda la propria band.
Rimarrà quindi, nuovamente, il nucleo iniziale dei Feelies (Mercer, Million e Weckerman) a continuare a suonare insieme, sotto nuovo nome: i tre saranno, per diversi anni, i Willies.
Un'ibernazione attiva fino al ritorno sulla "buona Terra"
I Willies suonavano al buio, seduti. Volevamo che fosse un'esperienza anti-rock.
(Glenn Mercer)
Il nome "Feelies" non avrà forse raggiunto la popolarità necessaria a conferirgli un qualche valore, ma i tre musicisti sono ormai un punto di riferimento della New York dei primi anni 80. I Willies fanno performance art più che musica: Bill, Glenn e Dave accompagnano un nastro registrato in lunghe digressioni psichedeliche e rigorosamente strumentali. Anche l'oscurità in cui avvengono i concerti fa parte della negazione dell'immagine che fa parte dell'esperienza dei Willies.
Con questa attività i tre acquisiscono sufficiente nomea da entrare in contatto col regista Jonathan Demme e suonare in uno dei suoi film, "Something Wild" (in cui interpreteranno anche una cover di "I'm A Believer"), oltre che comporre la colonna sonora di "The Smithereens", di Susan Seidelmann.
Intorno all''82 Glenn compone un nuovo pezzo, questa volta cantato ("On The Roof", che comparirà poi in The Good Earth). I tre continuano a suonare come Willies, dato che la band ha ormai più seguito dei Feelies stessi, ma portano sul palco pezzi che ricalcano l'esperienza precedente; più che altro per vedere se i Feelies funzionano ancora. Il pubblico apprezza ben più di quanto facesse per i bui spettacoli dei vecchi Willies, e così, nel maggio del 1983, con l'aggiunta di Brenda Sauter al basso, si svolgerà il primo concerto di reunion della band di Crazy Rhythms.
Nei primi anni 80 le cose sono molto più facili, per una band indipendente. Se prima potevi suonare solo nelle grandi città e quindi dovevi imbastire lunghi e costosi tour per tutta la nazione, ora le college radio permettono una diffusione capillare di quella musica che prima faticosamente superava i confini della propria città, in una vera e propria Rete ante litteram di pizzerie, sale da bowling e piccoli locali sparsi per gli Stati Uniti. Non appena gira la voce che i Feelies sono di nuovo insieme, Mercer & C. vengono contattati da un manager, che propone loro un tour nazionale.
Per la prima volta nella loro carriera, i Feelies saranno coinvolti in venticinque date, probabilmente più di tutte quelle accumulate negli anni precedenti. Anche nelle cittadine di provincia nomi come Rem, Replacements e Minutemen sono di casa; in un paio d'anni la band acquisisce un'esperienza live che non ha mai avuto. Cosa più importante, le canzoni del loro secondo album, The Good Earth, avranno una gestazione ben diversa dal certosino lavoro in studio di Crazy Rhythms.
Perfezionate show dopo show, verranno infine registrate una volta ottenuto un contratto - alle proprie condizioni, naturalmente - con la Twin/Tone tramite Steve Fallon, proprietario di Maxwell's e loro manager ufficioso.
Nel 1986, anno di uscita del disco, molte cose sono cambiate. Addirittura una band - i Rem - ha già avuto grande successo ispirandosi dichiaratamente ai Feelies, tanto che Peter Buck insisterà per fare l'ingegnere del suono di The Good Earth. Glenn e Bill, pur nell'indipendenza della loro idea di sound e di musica, non saranno impermeabili a quanto espresso dalla scena indipendente del periodo.
La dipartita di Anton Fier - che diventerà poi il batterista di Herbie Hancock - forzerà una normalizzazione ritmica; l'esperienza dei Willies si farà sentire nella gassosa psichedelia multicolore di "Tomorrow Today".
Il suono della chitarra elettrica senza amplificazione si trasforma nella sua naturale evoluzione, l'acustica; più in generale il sound si "riempie", perde quella patina artistica di liberazione istintiva, di sorde pulsioni atonali di Crazy Rhythms.La vitalità del jangle chitarristico, già completamente immerso nella nuova atmosfera a partire dall'iniziale duetto di chitarra e pianoforte di "On The Roof", recupera però in termini melodici e di generale schiudimento dell'agone giovanile di sei anni prima.
I Feelies del 1986 sono una band composta da musicisti ormai navigati, consapevoli e rassegnati al fatto che la loro musica non arriverà mai all'orecchio del grande pubblico (a differenza di quanto accaduto alle band con cui dividevano il palco della New York di fine anni 70), ma pronti a raccogliere la sfida dell'America nascosta, che solo in quel momento si affacciava al mondo della musica "cittadina".
Difficilmente si può pensare a un album più adatto di The Good Earth come compagno di viaggio nel lungo attraversamento delle pianure e montagne che separano le coste americane. Accordi che si alternano incessantemente come purissimo carburante, affilati e aerodinamici, una sezione ritmica che si trasforma da moto da corsa ad affidabile tour van: tutti pronti per "The High Road" (già pezzo strumentale dei Willies), col cantato stralunato di Mercer, improvvisamente giullare di ventura, dopo essere stato capitano della filibusta nelle incursioni di Crazy Rhythms. Impressionista era e impressionista rimane, la voce umana appare e scompare come una lontana eco nel microfono, il vago borbottio reediano di chi preferisce lasciar parlare il proprio strumento.
L'evoluzione dei Feelies in band pop tout court è soprattutto esemplificata dalla mutazione della chitarra "deamplificata" in acustica vera e propria: è tutto lì il segreto dell'apertura delle rasoiate del disco precedente nei rassicuranti volteggi d'accordi - splendenti come poche altre volte, come nei dischi dei Galaxie 500 - di "Let's Go".
Alright
Let's go
Let's go
All night long.
L'inizio della fine: "it's only life"
L'allievo aveva superato il maestro, nel frattempo, e così i Feelies vanno in tour come spalla dei Rem (oltre che di Lou Reed), per dodici date in grandi arene degli Stati Uniti. Intraprendono la loro prima tournée europea: sono ormai una band dal pedigree comprovato. Non è un caso, quindi, che vengano contattati da un'etichetta importante, l'allora A&M, che si evolverà poi in Polygram e, infine, Universal. Se, però, la Stiff era "un'etichetta indipendente che si comportava da major", ricorda Mercer, la A&M è proprio il contrario. Conoscitori ed estimatori della band fin da tempi non sospetti, i discografici della A&M permettono a Mercer e Million di co-produrre il loro terzo disco.
Senza volerlo i due sfoderano un album piuttosto accomodante rispetto alle sonorità dell'epoca (a partire dal cantato di Mercer), con un sound molto omogeneo, amalgamato dal riverbero sulla batteria. Un lavoro decisamente rilassato, non solo senza gli spigoli di Crazy Rhythms, ma anche privo della vitalità di The Good Earth. Gli accordi si rincorrono tra rintocchi percussivi ("The Undertow"), ritmica e lead guitar danzano sensualmente in lunghi, voluttuosi amplessi ("Higher Ground"): i Feelies hanno inventato una formula e a tale si attengono, senza osare spostarsi di un millimetro.
Già in Only Life, insomma, si avverte, oltre al divertimento di suonare insieme e di poterlo fare coi propri modi e tempi, la stanchezza di una band che, giunta in vista dell'indipendenza economica garantita dalla sola musica, scopre il miraggio rimanere tale, che sia tangibile o meno. Suonare in pubblico diventa un'abitudine, registrare una ripetizione calcolata di gesti ormai meccanici. Così le accelerazioni di "For A While" si dipanano con un impeto necessario, più che estemporaneo, e si dissolvono una volta concluso il compito.
Oltre alla sensazione di essersi forgiati un mestiere, i Feelies devono fare i conti con le vicissitudini della loro etichetta. Poco dopo la pubblicazione di Only Life, infatti, la A&M viene inglobata dalla Polygram - tutta l'amministrazione della label passa di mano. Gente nuova, che non conosce i Feelies e non sa che fare di una band ancora "promettente" (per il mercato discografico) a ormai dieci anni dall'esordio, che apre i concerti per gruppi più giovani. La loro indipendenza in studio viene vista, probabilmente, ancora come un capriccio adolescenziale.
Forse anche per questo, per il quarto disco dei Feelies, la Polygram fornirà loro i migliori studi di registrazione del paese, anche contro la loro volontà, viziandoli inutilmente come farebbe un padre poco presente. Magari presagendone il seguito, Bill Million avrà per Time For A Witness la meticolosità di chi teme di donare al mondo l'ultima propria creazione, facendo ripetere ossessivamente le tracce (impiegarono una settimana per la sola title track).
La scarsa attenzione e comprensione della propria etichetta non è però una novità per la band e non impedirà loro di rinchiudersi nel proprio nuovo, sfavillante studio e registrare un disco che è ritenuto il migliore della loro discografia da diversi fan della band. Forse un po' troppo generosi con l'addio del gruppo alle scene del tempo, perché Time For A Witness non ha la mera potenza espressiva, l'agone creativo di Crazy Rhythms, ma neanche, probabilmente, l'ispirazione melodica di The Good Earth.
Comunque sia, il disco non si distacca ormai dalle sonorità più accondiscendenti coi gusti dell'epoca, abbracciate con Only Life, ma riuscirà a riprendere, ad esempio nella ruvida oscurità delle chitarre di "What She Said", un po' dell'istintività del gruppo, filtrandola attraverso l'esperienza di una band ormai veterana.
Gli intrecci chitarristici di Mercer e Million sono protagonisti anche più che in passato, ogni pezzo sembra una danza sessualmente riconciliatrice ("Find A Way"), un rituale orgiastico orchestrato tra schizzi di vernice colorata. È il '91 e la band, con questo sound ispessito e una lead guitar assai più regolare, che dispensa assoli e riff circolari, sembra più che pronta a raccogliere la sfida del nuovo decennio.
Il loro manager, Steve Fallon, fa capire loro che è giunto il momento di tentare il grande passo: non più club periferici, ma un vero e proprio tour nei grandi teatri degli Stati Uniti, con tanto di fonici e addetti alle luci. La band si divide e a Mercer, in particolare, l'idea non pare buona: meglio un club strapieno che un teatro mezzo vuoto. Million, però, ha problemi di salute e non ha un'assicurazione sanitaria: dalla Florida la famiglia della moglie preme perché trovi un lavoro stabile. Questa è l'ultima occasione che hanno i Feelies per sfondare.
I teatri si riveleranno effettivamente mezzi vuoti: il tour romperà la grande illusione di popolarità della band. "Quando il tipo che solleva il tuo amplificatore prende più di te, qualcosa non va", Mercer cita Paul Westerberg per descrivere la situazione. Per la A&M sarà l'ennesima conferma, dopo il calo di vendite del disco rispetto al precedente, delle scarse potenzialità del gruppo. Tagliano loro, così, il supporto all'attività live: se vogliono andare in giro a suonare, devono farlo per conto proprio.
I Feelies non possono permettersi di autofinanziarsi un tour, e per Million suonare dal vivo è una prova fisica estenuante, per via del fumo in particolare. Nel luglio del '91 i Feelies suonano per l'ultima volta, con l'angosciante sensazione, nel vedere i ragazzini coi capelli lunghi che saltano sul palco con lo skateboard, che tutto sia cambiato. Un mese dopo uscirà "Nevermind".
Million non lascia definitivamente la band; vorrebbe solo suonare nel tempo libero, ogni tanto, rimanendo nel New Jersey. La sua famiglia si è ormai stabilita in Florida, e in quell'estate del '91 gli arriva una proposta di lavoro stabile dal suocero. L'addio di Million coinciderà con lo scioglimento dei Feelies: la sua è una delle poche chitarre ritmiche insostituibili nella storia del rock.
Un albero non sradicato
I Feelies si sfalderanno, inevitabilmente, come una struttura già pericolante privata di una colonna portante. Glenn e Dave continueranno a suonare insieme nei Wake Ooloo (mentre Stan Demeski si unisce ai Luna di Dean Wareham dei Galaxie 500), guadando insieme l'epoca di Mtv, in cui l'alternative buca lo schermo televisivo e le nuove band vengono istruite dai manager su cosa dire nelle interviste.
Tutto prosegue fino al 2001: basta una telefonata generata da beghe contrattuali, la prima dopo anni, per riportare Glenn e Bill ai tempi in cui l'unica preoccupazione erano l'ordine delle canzoni sul disco, o in quale amplificatore investire i soldi guadagnati negli ultimi concerti. La promessa di tornare a suonare insieme è vaga, ma sufficiente a ristabilire i contatti e mantenerli vivi fino all'occasione giusta.
Non appena gira la voce che i Feelies sembrano voler tornare a suonare insieme, le richieste fioccano, ma la vera "offerta che non si può rifiutare" arriverà nella tarda primavera del 2008: i Sonic Youth, il cui batterista possiede metà di Maxwell's, li vorrebbero per il loro concerto del 4 luglio a Battery Park. La data estiva favorisce la riunione della formazione degli ultimi tre dischi dei Feelies: Mercer, Million, Weckermann, Sauter e Demeski. L'anno dopo, rifaranno tutto Crazy Rhythms per un'edizione dell'All Tomorrow's Parties, in occasione della ristampa del disco, insieme a The Good Earth, tramite le Bar/None (e la Domino fuori dagli Stati Uniti).
Dopo i Galaxie 500, sono proprio loro a fomentare gli appetiti "giustizialisti" del pubblico indipendente americano. Come se la storia stesse rimettendo a posto le cose, regalando ai Feelies il successo che non hanno mai avuto. Bill e Glenn scoprono però di essere rimasti quelli di sempre: si scambiano i nastri delle idee che hanno sviluppato nel corso degli anni, estraendo otto pezzi da quello di Mercer e cinque da quello di Million.
Here Before esce, sempre per la Bar/None, nel 2011. Forse fin troppo assomigliante al "classico" disco da renunion, questo lavoro vede la riproduzione del sound dei Feelies - o, meglio, della loro seconda incarnazione - prendere il sopravvento sul resto. Il rischio dell'"operazione nostalgia" c'è tutto, ma in questo la band pare non curarsi delle proprie velleità artistiche, rinunciando consapevolmente a improbabili restyling d'immagine.
Here Before è, insomma, dichiaratamente un regalo ai fan e a sé stessi: molto debitore soprattutto a The Good Earth, con qualche colporiuscito("Nobody Knows", la "On The Roof" revisited di "Should Be Gone") e altri meno (il power-pop un po' di maniera di "Time Is Right", ad esempio), come nello spettacolo di un ex-ginnasta. Che sbagli o riesca nell'esercizio di ormai vent'anni prima, sono comunque applausi.
Il secondo capitolo della rentrée, In Between (2017), è ancor più impalpabile. Canzoni come “Stay The Course”, “Time Will Tell” e “When To Go” nascono timidamente, cantate quasi senza voce, arrangiate col minimo, e svaniscono inerti. La reprise della traccia eponima, minuti di feedback chitarristici di chiusa, è però una delle loro più fedeli imitazioni dei Velvet Underground. A tratti un'opera a due dei soli Mercer e Million, improntata a una signorile senilità che fa comunella con la loro umiltà di sempre, ma che pure avvilisce l'album (sesto in quasi quarant'anni) sulla neutralità. Un tentativo di farsi piacere trasversalmente a più generazioni.
Contributi di Francesco Nunziata ("Crazy Rhythms") e Michele Saran ("In Between")
Crazy Rhythms (Stiff, 1980; reissue, A&M, 1990; reissue, Bar/None - Domino, 2009) | 9 | |
The Good Earth (Coyote, 1986; reissue, Bar/None - Domino, 2009) | 7,5 | |
Only Life (A&M, 1988) | 6,5 | |
Time For A Witness (A&M, 1990) | 7 | |
Here Before (Bar/None, 2011) | 6 | |
In Between (Bar/None, 2017) | 5,5 |
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