Un lungo viaggio che dura oramai da quasi trent'anni, quello di David Thomas. Il suo è un continuo peregrinare attraverso città fantasma e geografie u-topiche, partorite da una mente raminga, perennemente insoddisfatta, incuriosita dalla pregnanza di senso di ogni singola scheggia impazzita che si aggiri intorno o dentro di lui. "The Modern Dance", il capolavoro dei Pere Ubu, è ormai lontano e forse nella sua imponenza insuperabile, ma contiene ad ogni modo i topoi dell'intera opera successiva di Thomas: destrutturazioni sonore metafora dell'annichilimento dell'uomo nell'era delle macchine (vengono in mente sia Heidegger che Skynet), lo straniamento del viaggio in territori inesplorati, la paura e l'inquietudine di fronte all'incomprensibile realtà, la forza di continuare a domandare, comunque, con l'ironia ghignante di chi cavalca fieramente verso l'apocalisse.
Ne ha fatta di strada da allora, il nostro, lanciandosi, dagli anni Ottanta in poi, in una serie incredibile di progetti solisti e collaborazioni, affiancando poi la rinascita dei Pere Ubu ad altre grandi esperienze, come i Rockets From The Tombs, i Foreigner e appunto i Pale Boys (alias Keith Molinè e Andy Diagram). Forme diverse di espressione di un medesimo atteggiamento compositivo volto alla ricerca dell'innovazione, all'abbattimento di vetuste barriere (sonore e non solo) e alla scoperta di nuovi sentieri. Tornando ai Pale Boys, il duo si avvale del polistrumentismo di Keith (banjo, violino e chitarra) e della tromba delirante e schizofrenicamente softmachiniana di Andy; nessuna batteria reale, solo suoni come drappi che si librano nell'aria, assumendo ora dolci curve vagamente mesmeriche, ora irruenti picchi fendenti la materia.
L'ultimo capitolo di questa proficua collaborazione con i Ragazzi Pallidi è costituito da "18 Monkeys On A Dead Man's Chest". Ed è subito stupore: un attacco fulminante come quello di New Orleans Fuzz, che gela il sangue facendolo ribollire con un liquido riff chitarristico trafitto da una voce sibillina e da un'elettronica impazzita, fuga ogni dubbio circa la salute artistica dell'ex-Pere Ubu, apparentemente inesauribile. Si procede ancora con la ruspante "Numbered Man", dove le scimmie sul petto del morto sono solo 15, a cui forse bisogna aggiungere i tre musicisti per raggiungere il fatidico numero 18.
Il ritmo poi rallenta, segnato da presenze spettrali e femminili: l'attacco quasi folk di "Brunswick Parking Lot" lascia spazio al crooning lacerato di Thomas, quasi il Nick Cave di "The Boatman's Call" gettato in una latrina che intona un canto infine romantico alla luna. "Nebraska Alcohol Abuse" inscena invece una sontuosa elegia in cui echeggia il kraut-rock cosmico dei Can e la cui violenta accelerazione finale, avvolta in un'accozzaglia di rumori disordinati, riporta alla mente le jam ditirambiche dei Velvet più selvaggi. E se "Sad Eyed Lowlands" fa il verso al Bob Dylan di "Blonde On Blonde", la suggellante "Prepare For The End" lacera il cuore, inondandolo di amara dolcezza: "Soda Mountain" diventa il luogo mitico verso cui si indirizza l'intera esistenza di Thomas, nucleo simbolico rappresentante la morte ma, forse, anche nuova vita generata dal superamento continuo di sé (che in fondo è un po' un morire), incarnando in tal modo l'intero percorso compiuto in tanti anni di onorata carriera.
Nessun compromesso quindi, per il Mirror Man venuto da lontano e diretto chissà dove, solo la magia dei suoi suoni e degli affascinanti mondi da lui creati con la parola. Impuro e profondo.
12/12/2006