"Tim Buckley possedeva una voce eccezionale che spaziava tra i registri di baritono e tenore. Cosa più importante, sapeva esattamente cosa voleva fare con essa".
(Lee Underwood)
Once I Was - The Folk Years (1966-1969)
Timothy Charles Buckley III nasce il 14 febbraio 1947 a Washington DC e all'inizio degli anni Sessanta la sua famiglia lo conduce in California. Qui muove i primi passi con il complesso dei Bohemians (il cui repertorio è costituito da cover di celebri brani pop) e con gli Harlequin Three, più orientati a un primordiale connubio tra musica folk e liriche poetiche, anche grazie alla presenza dell'amico poeta Larry Beckett che successivamente collaborerà a numerose composizioni di Buckley in qualità di paroliere. Il suo nome inizia a circolare nel circuito folk di Los Angeles e di lui si accorge Herb Cohen, al tempo manager di personaggi quali Frank Zappa e Captain Beefheart. Grazie all'aiuto di Cohen, Buckley viene introdotto al boss della Elektra, Jac Holzman, che lo affianca al produttore Paul Rothchild (pochi mesi più tardi curatore dell'esordio dei Doors di Jim Morrison) per la realizzazione di un primo album.
Tim Buckley (Elektra EKS 4004) dicembre 1966
(I Can't See You / Wings / Song Of The Magician / Strange Street Affair Under Blue / Valentine Melody / Aren't You The Girl / Song Slowly Song / It Happens Every Time / Song For Jainie / Grief In My Soul / She Is / Understand Your Man)
Coadiuvato da un manipolo di valenti musicisti quali Lee Underwood (chitarra), Jim Fielder (basso), Billy Mundi (batteria) e con la straordinaria partecipazione di Van Dyke Parks alle tastiere, Buckley registra l'album omonimo d'esordio ai Sunset Sound di Los Angeles. Il cantante si dichiara apertamente ispirato da Bob Dylan, Tim Hardin e Fred Neil e la musica presentata è di ovvia estrazione folk. Non però così tradizionale come si potrebbe pensare: già l'iniziale "I Can't See You" è capace di minare la spigliata struttura folk rock con l'ausilio di azzeccate e minimali variazioni armoniche. Molto belli e intensi sono il valzer dai soffusi toni psichedelici di "Song Of The Magician", le ballate di "Wings" e "Valentine Melody" (con la presenza di corpose ma non ridondanti sezioni d'archi arrangiate da Jack Nitzsche) e pure non mancano brani più ordinari, realizzati per necessità di copione ("It Happens Every Time", "Aren't You The Girl" con chitarra folk rock, ma pure il clavicembalo di Parks in sottofondo), in ogni caso mai scontati o di cattivo gusto.
In realtà le canzoni di Buckley possiedono già alcuni embrionali elementi che le distinguono dalla produzione folk dell'epoca, strutture di buona varietà ritmica imparentate con un gusto soul, un utilizzo della strumentazione discreto e originale (in particolare la chitarra di Underwood) e, a soli diciannove anni, una voce immediatamente riconoscibile, ancora lontana dalle incredibili evoluzioni a venire ma subito capace di dominare tonalità e modulazione, in grado di emergere dal suono con brevi, inattesi ed emozionanti voli ("Strange Street Affair Under Blue").
Goodbye And Hello (Elektra EKS 318) dicembre 1967
(No Man Can Find The War / Carnival Song / Pleasant Street / Hallucinations / I Never Asked To Be Your Mountain / Once I Was / Phantasmagoria In Two / Knight-Errant / Goodbye And Hello / Morning Glory)
A un anno esatto di distanza, con la supervisione di Jerry Yester (già produttore degli Association e membro dei Lovin' Spoonful), esce il secondo lp "Goodbye And Hello" che, in apparenza, sposa per un attimo il suono hippie di quei giorni nel presumibile tentativo da parte della produzione di cavalcare il successo di analoghe esperienze (il disco giungerà però solamente al n. 171). Se "No Man Can Find The War" si perde in una drammaticità un pò scontata, "Carnival Song" è un grazioso, deviato carillon psichedelico mentre "Pleasant Street" sfodera le congas di Carter Collins e una voce che tenta disperatamente di far breccia sui tempi pari della canzone. La direzione da intraprendere appare tutt'altro che chiara; accanto alla confusa lisergia di "Hallucinations" (si dice composta a metà tra il sonno e la veglia), penalizzata da un arrangiamento di scarsa ispirazione, coesistono ballate quali "Once I Was" e "Morning Glory", semplice e stupendamente controllata dal timbro vocale di Tim l'una, pacata e raffinata l'altra (scelta anche come singolo e ripresa in bello stile l'anno seguente sul primo album dei Blood Sweat & Tears dov'è finito il vecchio amico Jim Fielder). La monumentale ed epica title track si arrovella tra mille contraddizioni, scivolando tra aperture di gran lirismo e pesanti arrangiamenti orchestrali, che in parte compromettono la morbida anima psichedelica della composizione. Impreziosisce il disco la stupenda, struggente "Phantamagoria In Two", una delle più belle canzoni d'amore della storia del rock. E c'è un brano, "I Never Asked To Be Your Mountain", che più di ogni altro anticipa le sonorità del Buckley della maturità, vera e propria dichiarazione di autonomia esistenziale alla moglie Mary Guilbert, dalla quale Tim ha un figlio, Jeffrey Scott poi semplicemente conosciuto come Jeff. Il ritmo della dodici corde e delle congas si fa serrato e implacabile e invita la voce a liberarsi dalla classica, ordinata metrica della ballata folk; dovrà però attendere ancora un anno e mezzo e la travolgente "Gypsy Woman" per poter finalmente incamminarsi sui sentieri dell'estasi e dell'emozione assolute.
The Peel Sessions (Strange Fruit SFPS 082) agosto 1991
(Morning Glory / Coming Home To You (Happy Time) / Sing A Song For You / Hallucinations-Troubadour / Once I Was)
Le uscite discografiche del 1968 si limitano ad alcuni singoli assemblati con brani già pubblicati nei primi due album e Buckley concentra l'impegno nelle esibizioni dal vivo, accompagnato dal fido Underwood, dalle percussioni di Collins e dai nuovi arrivati John Miller al basso e David Friedman al vibrafono. In quell'anno da segnalare anche alcune redditizie (sul piano artistico) visite inglesi, la prima delle quali frutta alcune registrazioni realizzate il 2 aprile per il programma radiofonico John Peel Show, condotto dal popolare D.J. sul primo canale della BBC. Nel 1991 viene edito un Ep contenente il materiale della session, costituito da belle, limpide ed ispirate esecuzioni di canzoni tratte da Goodbye And Hello ("Morning Glory", "Once I Was" e "Hallucinations", in medley con l'inedita "Troubadour"), oltre a una buona versione intitolata "Coming Home To You", che successivamente sarà registrata per l'album Blue Afternoon con il titolo di "Happy Time", e un'ottima resa della "Sing A Song For You" poi inserita su Happy Sad. A parte l'onnipresente dodici corde del cantante, alcuni brani si avvalgono del solo accompagnamento della chitarra di Underwood, altri sono proposti in trio con Collins e le inseparabili congas.
Dream Letter - Live In London 1968 (Demon D FIEND 200) giugno 1990
(Buzzin' Fly / Phantasmagoria In Two / Morning Glory / Dolphins / I've Been Out Walking / The Earth Is Broken / Who Do You Love / Pleasant Street-You Keep Me Hanging On / Love From Room 109-Strange Feelin' / Carnival Song-Hi Lily, Hi Lo / Hallucinations / Troubadour / Dream Letter-Happy Time / Wayfaring Stranger-You Got Me Runnin' / Once I Was)
Nell'estate del 1968 Buckley torna in Inghilterra per tenere un primo concerto londinese e, a causa dei costi di viaggio e di soggiorno, è costretto a portare con sé solo alcuni dei componenti del suo gruppo. A splendida testimonianza dell'evento resta il doppio postumo Dream Letter - Live In London 1968 ricavato dal concerto del 10 luglio alla Queen Elizabeth Hall, con Tim supportato da Underwood alla chitarra, da Friedman al vibrafono e dal bassista dei Pentangle Danny Thompson che, pur non avendo mai suonato prima di allora con Buckley, grazie alla naturale predisposizione per quello stile musicale e all'indubbia classe, riesce comunque a calarsi alla perfezione nel suono del gruppo. In scaletta brani tratti da Goodbye And Hello, alcune canzoni che troveranno posto in album successivi, originali cover e un buon numero di inediti. Di particolare interesse la proposta di "Dolphins" del vecchio maestro Fred Neil, il solitario confronto con la drammatica "Pleasant Street" che alla fine stempera nella "You Keep Me Hangin' On" di Brian Holland e Lamont Dozier (nel 1966 grande successo per le Supremes di Diana Ross), una finalmente splendida "Hallucinations", le bellissime sequenze "Dream Letter" / "Happy Time" e (completamente inedita) "Wayfaring Stranger" / "You Got Me Runnin'". Dal vivo lo scarno e affascinante accompagnamento strumentale e la voce di Tim, ormai libera di uscire dalle regole della semplice interpretazione di storie in musica (ma ancora sono inimmaginabili i futuri voli senza rete o paracadute), offrono una visuale sempre legata ad ambientazioni folk anche se le esecuzioni sono completamente svincolate dagli stereotipi del genere, a diretta anticipazione del magistrale Happy Sad.
Happy Sad (Elektra EKS 74045) luglio 1969
(Strange Feelin' / Buzzin' Fly / Love From Room 109 At The Islander (On Pacific Coast Highway) / Dream Letter / Gypsy Woman / Sing A Song For You)
Dopo un anno e mezzo di sostanziale assenza di novità discografiche, nell'estate 1969 viene finalmente pubblicato Happy Sad, prodotto dai due Lovin' Spoonful Jerry Yester e Zal Yanovsky sotto la supervisione di Jac Holzman. Nelle registrazioni del materiale incluso, in buona parte pronto da mesi, Buckley è coadiuvato dal gruppo di accompagnamento utilizzato anche nei concerti dal vivo (Underwood, Collins, Miller e Friedman). Oltre ad essere il disco più "venduto" di Buckley (n. 81 in classifica!), Happy Sad è un lavoro decisivo per l'evoluzione della sua musica: la matrice prevalente resta quella folk, ma in parecchie canzoni si fa strada un'evidente influenza jazz, a volte limitata ad alcuni aspetti degli arrangiamenti, in altri casi più marcata e dominante ("Strange Feelin'"), prevalentemente mutuata dal Miles Davis di "Kind Of Blue" e rafforzata dall'eccellente utilizzo di strumenti acustici quali vibrafono e contrabbasso, oltre che dalla raffinata e originale tecnica di Underwood alla chitarra elettrica. Il controllo tonale della voce di Buckley è superlativo, in grado di caratterizzare indelebilmente la sonorità complessiva. In questo disco Tim dilata i tempi delle composizioni e allarga la coscienza della propria creatività. Accanto a brani che si riallacciano agli esordi folk ("Buzzin' Fly" e l'ottima "Sing A Song For You") trovano spazio composizioni di assetto cameristico quali la lunga, raffinata "Love From Room 109 At The Islander (On Pacific Coast Highway)" e la stupenda, malinconica "Dream Letter", rivolta al figlio Jeff che Tim incontrerà una sola volta nella vita. Ma è con "Gypsy Woman" che si compie il definitivo trapasso creativo nello stile di Buckley. Su un insistito tappeto percussivo che sorge dal nulla, un ritmo tribale prende il sopravvento, in una sorta di folk blues avvolgente e soffocante, una spirale che non ammette comode vie d'uscita. La voce non è più quella del folksinger, ora urla, stride, geme, abbaia, si contorce su sé stessa per richiamare le energie più riposte, cambia registro con allucinante disinvoltura, diventa essa stessa strumento.
Live At The Troubadour 1969 (Demon EDCD 400) marzo 1994
(Strange Feelin' / Venice Mating Call / I Don't Need It To Rain / I Had A Talk With My Woman / Gypsy Woman / Blue Melody / Chase The Blues Away / Driftin' / Nobody Walkin')
Che la musica di Tim Buckley stesse completamente cambiando rotta creativa è pure evidente grazie alla preziosa testimonianza live regalataci nel 1994 dal cd Live At The Troubadour 1969, importante resoconto di due esibizioni tenute il 3 e 4 settembre 1969 al Los Angeles Troubadour. Buckley si presenta con un'inedita formazione comprendente Underwood, Collins, il bassista John Balkin e il batterista Art Tripp (in arte Ed Marimba), già con la Magic Band di Captain Beefheart e quindi, nei Settanta, con gli eccellenti Mallard. Inediti sono anche il contorto strumentale jazzato di "Venice Mating Call" e l'allucinata ballata (se ancora si può definire tale) di "I Don't Need It To Rain". Il resto del repertorio è costituito da ispirate esecuzioni di brani tratti da Happy Sad e di altre composizioni poi destinate ai due seguenti album di studio.
Di pomeriggi blue e canzoni per la sirena (1970-1971)
Già all'inizio del 1968 Bob Dylan si rende conto che "c'è troppa confusione, non riesco ad avere un attimo di pace" e cerca "un modo di uscire di qui" ("All Along The Watchtower"). La sua personale via per fuggire dalle troppe droghe, dalle confuse filosofie di vita e dalle presunte estati dell'amore in fase di avanzato tramonto, è rappresentata dalla decisa virata verso asciutte forme country, una sofferta ma necessaria resa, indispensabile per archiviare in qualche modo le follie pericolose dei Sixties. Buckley, spirito solitario mai pienamente partecipe delle generazioni a lui contemporanee, quella psichedelica, dei figli dei fiori o di Woodstock che fossero, sceglie invece la strada dell'estremismo radicale in musica; le linee inconsuete, sinistre e a volte inquietanti di Lorca, lavoro non a caso posizionato tra i due meravigliosi estremi della sua arte, i capolavori di Blue Afternoon e di Starsailor. Qualcosa di tremendamente e paurosamente affine all'anima e all'emozione umana.
Blue Afternoon (Straight STS 1060) febbraio 1970
(Happy Time / Chase The Blues Away / I Must Have Been Blind / The River / So Lonely / Cafe / Blue Melody / The Train)
Sarà a causa delle modeste vendite discografiche o della linea artistica intrapresa, in ogni caso il contratto con la Elektra volge rapidamente al termine e Buckley necessita di un'etichetta che gli permetta la massima libertà d'azione. L'occasione viene offerta dal solito Herb Cohen che, in collaborazione con Frank Zappa, è al lavoro per lanciare la nuova label Straight per la quale, tanto per dire, pochi mesi prima il Capitano Cuordibue incide lo storico "Trout Mask Replica". Blue Afternoon, prodotto dallo stesso Buckley e con il solito sopraffino accompagnamento dei vari Underwood, Collins (presente solo su "Blue Melody"), Friedman, Miller (oltre al batterista Jimmy Madison), è lavoro dai toni soffusi, triste e poetico, dotato di un'intrinseca forza emotiva che consente un coinvolgente quanto malinconico confronto con l'anima dell'artista. Un viaggio il cui esordio è affidato all'eccellente "Happy Time" (da tempo nel repertorio live di Buckley), presentata in una veste sobria ed elegante. "Chase The Blues Away" è una serenata blues guidata dalla sepolcrale voce di Tim e impreziosita dalla chitarra di Underwood. Stupenda canzone, tra le sue melodie più classiche, "I Must Have Been Blind" (ripresa di recente da Brendan Perry) condensa in pochi minuti la forza passionale dell'artista, che viene poi espressa compiutamente nella seguente "The River". La voce di Buckley è al massimo delle possibilità espressive, non liberata e selvaggia come sarà per Starsailor ma, stupendamente modulata, sale e scende di tono in un battere di ciglia ed emoziona profondamente disegnando la melodia del brano; ormai la rarefatta strumentazione (squisito il vibrafono di Friedman) funge da mirabile complemento sonoro. Se in "So Lonely" la chitarra jazz di Underwood vivacizza la cadenza, i toni sussurrati di "Cafe" e la stessa chitarra da oltretomba intristiscono, mentre la suadente "Blue Melody" si propone come canzone da fumoso jazz club. Conclusione a sorpresa con la notevole "The Train" che si riallaccia (sia pur con maggior moderazione e chiari accenti jazz) al folk pirotecnico e selvaggio di "Gypsy Woman", anticipando il parziale recupero di quel genere di sonorità effettuato sul seguente Lorca.
Lorca (Elektra 74074) ottobre 1970
(Lorca / Anonymous Proposition / I Had A Talk With My Woman / Driftin' / Nobody Walkin')
Resta un disco da consegnare all'Elektra per onorare il contratto in scadenza e Buckley si impegna in una singolare dedica al poeta Federico Garcia Lorca, dalla quale trae titolo l'intero album prodotto da Herb Cohen. "Lorca" è un brano dall'inquietante e arcano tono psichedelico, caratterizzato dall'organo suonato da John Balkin e dal piano elettrico di Underwood che determinano un'atmosfera allucinante e sfuggente sulla quale scivola l'espressiva voce di Buckley. Nessuna concessione mercantile, nessun comodo rilassamento creativo; del resto l'artista è ormai da tempo votato ad una ricerca timbrico-armonica inedita e spericolata e non può certo essere un ultimo lavoro per la Elektra a fargli cambiare idea. "Anonymous Proposition" è jazz, un pacato esercizio vocale di Tim sottolineato da contrabbasso e chitarra. Lorca appare comunque disco di transizione che (nel secondo lato) si affida al recupero di armonie folk già sperimentate, anche se ben distanti da tradizionali luoghi comuni; riaffiorano le congas di Collins, a tratti il ritmo torna a farsi sostenuto ("Nobody Walkin'", ancora con il piano di Underwood) e sempre la poesia del canto di Buckley mantiene elevato il livello qualitativo delle canzoni ("I Had A Talk With My Woman", "Driftin'").
Starsailor (Straight STS 1064) novembre 1970
(Come Here Woman / I Woke Up / Monterey / Moulin Rouge / Song To The Siren / Jungle Fire / Starsailor / The Healing Festival / Down By The Borderline)
"Tim fece per la voce ciò che Hendrix fece per la chitarra, Cecil Taylor per il piano e John Coltrane per il sassofono". Esagerazione? No di certo, perché ascoltando con ostinata attenzione e in totale libertà di cuore e mente il monumentale Starsailor le parole colme d'amore e stima pronunciate da Underwood appaiono più che sostanziate dai fatti. Ancora, e soprattutto, la voce di Buckley, liberata da ogni costrizione metrica e tonale, riesce nel miracolo a pochi concesso d'insinuarsi nei fragili meccanismi che regolano l'umana emozione, spazzando via le barriere che separano sentimento, compassione, speranza, disperazione, amore e malinconia dalla realtà quotidiana. La voce è finalmente e definitivamente strumento, ancora più espressivo degli strumenti tradizionali che accompagnano in modo mirabile i suoi spericolati voli (Underwood e Balkin, oltre ai fiati di Buzz e Bunk Gardner e alle percussioni di Maury Baker). Le influenze jazz (ora anche free) e di musica contemporanea (Berio, Ligeti) e molte altre ancora sono evidenti e, nonostante le rigide strutture ritmico - armoniche sulle quali si basa l'intero lavoro, qualcuno tentò di sostenere che fu "merito" della droga che lo aveva fatto uscire di testa. Nulla di più falso.
La chiave di lettura, come nell'opera di Jimi Hendrix (solo per restare in ambito rock), è quella dell'emozione. Un confronto difficile, capace di fornire picchi di straordinaria intensità accanto a momenti di tragico disorientamento, quindi pericoloso, ma inevitabile. Le sconvolgenti interpretazioni vocali di Buckley si innestano alla perfezione in furiose danze tribali ora free ("Come Here Woman", "Jungle Fire", la delirante "The Healing Festival", "Down By The Borderline"), ora rock (la folle "Monterey"), altre volte in concitati momenti di simbolica pacatezza ("I Woke Up") e irrisoria cialtroneria jazz ("Moulin Rouge"). Agli opposti estremi (solo apparentemente, però) la toccante, poetica e indimenticabile melodia folk di "Song To The Siren", basata su pochi arpeggi di chitarra elettrica e sulla straordinaria forza evocativa della voce di Buckley, a definitiva revisione del concetto di ballata, e il viaggio interstellare per sedici voci di "Starsailor", assolutamente slegato da ogni "normale" canone di canzone. Dalle pagine migliori della musica di Buckley e soprattutto da Starsailor attingeranno a piene mani nello sviluppo della propria opera artisti di notevole levatura quali Peter Hammill, Roy Harper, Shawn Phillips, Demetrio Stratos e Alan Sorrenti (quello di "Aria" e zone limitrofe, non certo il "figlio delle stelle").
Have You Ever Seen The Dolphins Smile? (1972-1974)
Starsailor viene accolto in modo contrastante dalla critica (chi lo considera capolavoro assoluto, come la prestigiosa rivista Down Beat, chi al contrario nemmeno lo prende in considerazione) e sotto il profilo delle vendite si rivela un vero e proprio disastro commerciale. Per quasi due anni Buckley non registra alcunché, amareggiato e deluso anche dall'impossibilità di divulgare la propria arte dal vivo, dal momento che tutti gli impresari girano alla larga da quel modo "scontroso" e "difficile" di fare musica.
Greetings From L.A. (Warner Bros. BS 2631) ottobre 1972
(Move With Me / Get On Top / Sweet Surrender / Nighthawkin' / Devil Eyes / Honk Kong Bar / Make It Right)
Assimilate le folgoranti sperimentazioni dei dischi precedenti, la delusione che accompagna l'ascolto del "nuovo" corso buckleyano è notevole. La voce è ancora grande sotto l'aspetto timbrico, ma privata di ogni possibilità di volare, asservita com'è ad arrangiamenti tendenti al soul e al R&B un pò forzati e a tratti sofferenti di eccesso di orchestrazione. Non è musica banale, certo, ma resta ben lontana dalle glorie passate. Può esser visto come estremo (e vano) tentativo di guadagnare una concreta visibilità commerciale, di comunicare con il pubblico del rock'n'roll affidandosi a una maggiore fruibilità del discorso musicale, magari sferrando qua e là qualche colpo proibito (la prestazione vocale su "Sweet Surrender", peraltro penalizzata da un eccesso di arrangiamento, il discreto soul blues di "Devil Eyes"). Dei vecchi collaboratori di Buckley appare il solo Collins alle congas sul brano "Get On Top".
Honeyman (Edsel EDCD 450) settembre 1995
(Dolphins / Buzzin' Fly / Get On Top / Devil Eyes / Pleasant Street / Sally Go 'Round The Roses / Stone In Love / Honey Man / Sweet Surrender)
Anche il periodo conclusivo (e di minor profilo creativo) della carriera di Buckley può contare su di una incisione dal vivo di buona qualità, pubblicata dalla Edsel nel 1995. La registrazione è recuperata da un concerto del 27 novembre 1973 che vede Buckley supportato dalla band che, pochi mesi più tardi, sarà protagonista del nuovo Lp di studio, Sefronia (Joe Falsia alla chitarra, Bernie Mysior al basso, Buddy Helm alla batteria e Mark Tiernan alle tastiere). Il repertorio è in gran parte basato su brani tratti da Greetings From L.A. (le ritmate "Get On Top" e, soprattutto, "Devil Eyes") e dal successivo Sefronia (una superba "Dolphins", l'ossessionante "Honey Man"), ma pure Tim riporta alla memoria una buona, educata e spensierata "Buzzin' Fly", in inedito stile country, e la sempre drammatica "Pleasant Street".
Sefronia (Discreet MS 2157) maggio 1974
(Dolphins / Honey Man / Because Of You / Peanut Man / Martha / Quicksand / I Know I'd Recognize Your Face / Stone In Love / Sefronia-After Asklepiades, After Kafka / Sefronia-The King's Chain / Sally Go 'Round The Roses)
A dispetto delle buone prestazioni dal vivo, Sefronia appare disco piuttosto deludente che si arena troppo spesso nelle secche di un'ispirazione messa a dura prova dalla necessità di proporre materiale di facile fruizione. Alcune cadute di tono sono davvero impensabili (l'esagerato arrangiamento della modesta "Because Of You", gli sbiaditi funky di "Peanut Man" e "Stone In Love", l'easy listening di "I Know I'd Recognize Your Face"), ma nonostante tutto l'album contiene alcuni brani di buona qualità (le spigliate "Honey Man" e "Sally Go 'Round The Roses") e soprattutto le eccellenti e toccanti versioni di "Dolphins" (Fred Neil - da sempre nel repertorio di Buckley, con Lee Underwood alla chitarra) e di "Martha" (dall'album d'esordio di Tom Waits, "Closing Time").
Look At The Fool (Discreet DS 2201) novembre 1974
(Look At The Fool / Bring It On Up / Helpless / Freeway Blues / Tijuana Moon / Ain't It Peculiar / Who Could Deny You / Mexicali Voodoo / Down In The Street / Wanda Lu)
Look At The Fool chiude il conto e per un attimo rialza la testa, almeno nel delicato soul psichedelico della title track ancora con una voce da brivido. Per il resto la proposta è un soul rock accattivante, anche se non particolarmente originale ("Wanda Lu", non a caso ultimo singolo di Tim). E' chiaro, non è più il vero Tim Buckley; cos'è rimasto dello spregiudicato navigatore stellare di pochi anni prima? Una bella voce, certo un po' particolare rispetto alla media, la volontà castrata e ricondotta alla "ragione" di comunicare con il "medio ascoltatore" da classifica, in ultima analisi l'amore per la musica. Ma tant'è, in pochi lo seguiranno e se avesse continuato sulla strada di Starsailor forse nessuno gli avrebbe concesso un'ulteriore possibilità per incidere.
Se dal punto di vista artistico, e pure da quello commerciale, i risultati sono negli ultimi anni deludenti, le più recenti stagioni perlomeno permettono a Buckley di uscire finalmente da un lungo periodo costellato di problemi fisici derivanti dall'assunzione di alcol e droghe. Ma tanto non sarà sufficiente. Nella notte tra il 28 e il 29 giugno 1975, senza un ragionevole motivo, Tim torna a drogarsi per l'ultima volta. Una combinazione di eroina (e quindi morfina nel sistema cardiocircolatorio) e alcol. Paradossalmente è proprio la imprevedibile reazione della sostanza stupefacente sul fisico ormai pulito di Buckley, non più abituato a tali eccessi, a determinarne la morte. Che poi il giorno 29 (di maggio) di ventidue anni dopo sia fatale anche al figlio Jeff, artista notevole pure lui, pare circostanza drammatica quanto casuale. Dal padre aveva ereditato il volto da eterno fanciullo sofferente e vissuto, e soprattutto una voce incredibile, unica, ma questa è senza dubbio un'altra storia.
Tim Buckley aveva solo ventotto anni e il peso di una carriera incredibile sulle spalle.