Sembrava si fosse concluso il lungo cammino dei Pere Ubu quando, quattro anni or sono, si materializzò "The Long Goodbye", omaggio al chandleriano omonimo romanzo noir che David Thomas, da tempo leader indiscusso della storica band americana e reduce da problemi di salute che lo avevano costretto a sospendere il tour statunitense della sua creatura, aveva presentato come un disco contenente "ogni canzone e ogni storia" che i Pere Ubu avevano raccontato, seppur in modo diversi, "negli ultimi quaranta e più anni". "The Long Goodbye" doveva essere "un momento definitivo", anche se a conti fatti era l'ennesimo album destinato ad allietare soprattutto i fan a oltranza di una band che, mi duole dirlo, non ha più la capacità di incidere sul rock così come riuscì a fare agli inizi della sua carriera. Eppure, gran parte della critica ci ha raccontato, negli ultimi anni, di una band ancora viva, di un Thomas ancora ispirato, salvo poi rendersi conto, una volta che i riflettori avevano rivolto altrove le loro luci, che sì!, in fondo il loro ultimo disco non era poi tutto 'sto granché.
Comunque sia, "Trouble On Big Beat Street", presentato da Thomas come la sua risposta all'ascolto, in illo tempore, di "Song Cycle" di Van Dyke Parks e contenente dieci brani nella versione Lp e ben diciassette in quella in cd (versione, quest'ultima, che l'ormai settantenne cantante ha approvato a denti stretti, perché consapevole che ci sarebbero stati, sono parole sue, "ascoltatori esausti per la lunghezza dell'album - una lezione appresa negli anni 80"), appare come un disco nel complesso più riuscito dei suoi più ravvicinati predecessori e questo, con buona pace dello stesso Thomas, proprio grazie alla presenza delle bonus track finite sulla versione cd, dove, quando non c'abbaglia la sensazione di essere ripiombati tra i solchi di "The Art Of Walking", tra astrazioni e incubi collassati su se stessi ("76 BPM", "Pidgin Music"), si continua a dissertare o a vagabondare in pataphysical mode con il santino di Alfred Jarry nella tasca destra dei pantaloni ("Nothin' But A Pimp", "Sleep", "From Adam").
Registrati secondo la regola del "buona la prima" (fatta eccezione per la simpatica cover di "Crazy Horse" degli Osmonds), i brani di "Trouble On Big Beat Street" fotografano, insomma, una band (di cui fanno parte anche i due fidi Two Pale Boys Keith Moliné e Andy Diagram, rispettivamente a chitarra e tromba filtrata dall'elettronica) in discreta forma, qui alle prese, nell'immediato, con una "Love Is Like Gravity" i cui primi secondi fanno addirittura pensare al Jon Hassell di "Dream Theory In Malaya", salvo poi incrociare i soliti, elettronici sibili che spingono la mente a surfare oltre i confini del rock (se ne occupa Gagarin, al secolo Graham Dowdall, già batterista dei Ludus), per alfine assestarsi, cullata dalle oblique tessiture vocali di Thomas, in un ibrido di minimalismo post-punk e jazz destrutturato.
Se, con il disco-pop di "Crocodile Smile", Thomas è evidentemente ancora alle prese con l'ossessione per la rivisitazione del pop che aveva caratterizzato la gestazione di "The Long Goodbye", con "Moss Covered Boondoggle" e, soprattutto, "Worried Man Blues" si veleggia invece verso le lande del blues, ma con quel piglio tra il sornione e il demente che, Captain Beefheart docet, depotenzia una tradizione ma solo per renderla sempreviva.
Altrove, "Nyah Nyah Nyah" guarda ai Residents dello sberleffo ai Beatles. "Satan's Hamster" è oscura come un'outtake di "Dub Housing". "Uh Oh" evoca l'angoscia di "Final Solution": "Tomorrow never turns out like it is supposed to/ Tomorrow is a Turkish prison movie written by Hack...".
"Trouble On Big Beat Street" non è un disco indispensabile, ma si riascolta sempre con piacere, il che, ne converrete, per una band che ha esordito quasi cinquant'anni fa, non è cosa da poco.
09/06/2023