“Come mi disse mia madre: ‘Van Dyke, ho sempre ammirato il modo in cui la tua pensione ha preceduto la tua carriera’”.
Non ha tutti i torti, la signora Parks, nel suo commento alla parabola artistica del figlio. Un inizio eclatante come autore enfant prodige negli anni 60 per la Warner, detentore del record del budget di lavorazione per un solo disco nel 1968 – per il suo “Song Cycle”, flop colossale di vendite e di critica, tanto da spingere la stessa casa discografica a inserzioni pubblicitarie come “lost $35,509 on 'the album of the year' (dammit)”, e a offrire, addirittura, a chiunque ne portasse una copia già usata, di averne in cambio due nuove, una per sé e una per “acculturare un amico” – paroliere per i Beach Boys di “Smile”, che vuole la leggenda nel 1969 abbia messo in mano a Brian Wilson la prima pastiglia di anfetamina della sua vita, dopo che questi aveva cercato ingenuamente di convincerlo a partecipare alla composizione del disco allettandolo con ingenti quantitativi di marijuana.
Poi, il silenzio. Tanto prolifico come autore quanto in difficoltà nella produzione solista, Parks: due soli dischi negli anni 70, “Discover America” e “Clang Of The Yankee Reaper”, entrambi legati alla sua ricerca sul Calypso e i ritmi caraibici; due altri esperimenti negli Ottanta: una messa in musica di favole folk per bambini, “Jump!”, il primo, un tentativo di analisi della fusione della cultura americana con quella giapponese il secondo, “Tokyo Rose”, datato 1989 e ufficialmente ultima release di Van Dyke Parks, nonostante un successivo (e quasi fantasma) esperimento con Brian Wilson nel 1995 intitolato “Orange Crate”.
A ventiquattro anni di distanza proprio da questa sua ultima creazione ufficiale, e ormai settantenne, Parks torna sulle scene, anche grazie all’operazione di recupero della sua prima produzione avviata l’anno scorso dalla Bella Union, che l’ha portato fino al palco del Barbican, insieme a Robin Pecknold dei Fleet Foxes e a Daniel Rossen dei Grizzly Bear.
Un album complesso, “Songs Cycled”, pensato dal suo autore come un moto di protesta – ”Insisto, la forma-canzone è lo strumento politico più forte a disposizione”, afferma Parks nelle sue note di accompagnamento al disco – ma che, ancora una volta, paradossalmente, fa catalizzare l’attenzione sulla composizione piuttosto che sulle liriche. Se, infatti, il musicista dichiara di “attingere dalla pesca a sorpresa della musica americana delle origini dal diciannovesimo secolo in poi”, è indiscutibile che una delle maggiori influenze siano le fisarmoniche e i contrappunti della musica popolare francese, che si sovrappongono a palpabili reminiscenze della ricerca sui ritmi caraibici che Parks aveva intrapreso negli anni Settanta.
Ed è proprio questo il problema principale di questo album, come di quasi tutta la produzione parksiana: un sovraffollamento, caotico, incontrollato, che troppo spesso supera il confine del genio per naufragare nell’accumulazione compulsiva. Conoscendo l’autore, è impossibile non vedere nella sua discografia e nei suoi intenti un ritratto fedele della persona; un peccato la sua inabilità a tenere in equilibrio le parti, perché il risultato, ancora una volta, è quello di un disco pesante, troppo carico soprattutto nella prima metà.
Certo, non mancano le perle, come il trittico di “Money Is King”, “Wall Street” e “The Parting Hand”, gli unici brani che riescono a emergere dalla stratificazione eccessiva, ma che da soli basterebbero a completare un intero disco, per la quantità di spunti contenuti.
Il momento più difficile, per le leggende, è sempre quello in cui toccano terra per entrare in contatto con il mondo reale. Così, anche per Van Dyke Parks, probabilmente ha più valore la figura totemica che incarna che non l’artista nel presente.
29/07/2013