New York, 1977. Non una città qualunque, non un anno qualunque. E, poi, ancora: Martin Rev, electronics. Alan Vega, voce. Nient'altro. O quasi. La definizione corretta è: "Blues di New York City". Parola di Alan Vega. Solo che del blues (o del rock, del jazz, dell'avanguardia… fate un po' voi) è rimasto ben poco: solo la proiezione dell'anima, il fuoco che divampa, una mano tesa verso il tempo, inafferrabile. Tutto il resto è battito, pulsazione, energia; suicidio, certo, ma come riappropriazione della vita, ritorno alla sua fonte. Non la morte come ribellione, bensì la ribellione estrema come urlo contro l'oscuro che abbacina la vita.
I Suicide sono una delle band più provocatorie e influenti dell'intero movimento new wave. Il loro sound, sfondo ideale per storie d'angoscia e alienazione metropolitana, ha costituito un riferimento costante per le band degli anni Ottanta, aprendo la strada, in particolare, alle generazioni del synth-pop, dell'industrial e persino della techno.
Tutto nasce all'inizio del decennio 70. Alan Vega, scultore di luci e artista d'avanguardia, ha una formazione più rock, mentre Martin Rev, musicista di free jazz, incarna l'anima punk-wave del gruppo. I due si incontrano nel 1971 al Project, una galleria newyorkese aperta a eventi artistici di vario genere, e decidono di formare un gruppo scegliendo il nome oltraggioso di Suicide. Le loro prime performance avvengono sul palco del Mercer Art Center, uno dei templi dell'intellighenzia musicale della Grande Mela. Il duo suona blues spettrali e apocalittici, con Rev, sepolto dietro le tastiere, a intessere riff ossessivi e alienanti, e Vega a declamare storie raggelanti d'amore e morte.
La loro proposta, così estrema e impenetrabile, incontra lo scetticismo dei discografici, fino a quando, nel 1977, Martin Thau, ex-manager delle New York Dolls, e proprietario della Red Star, decide di ingaggiarli, pubblicando l'album omonimo Suicide, con l'artwork di Timothy Jackson (la scritta Suicide a tutto campo grondante sangue, sovrastata dalla stella rossa logo dell'etichetta). E' una delle pietre miliari della new wave, un album impressionante per la sua capacità di precorrere i tempi, ma anche una testimonianza del clima d'auto-distruzione che regnava nei salotti intellettuali di Manhattan all'alba della new wave. "La nostra musica è il suono di New York," disse una volta Vega. Pur restando all'interno del formato-canzone tradizionale, i Suicide compiono un'opera di destrutturazione del classico impianto chitarra-basso-batteria, grazie alle infinite possibilità del synth di Rev. Il risultato è un saggio di musica di ricerca, proiettata nel futuro ma con i piedi nel rock brado di Stooges e Velvet Underground. Il tappeto analogico delle tastiere di Rev si combina con il canto psicotico di Vega, fatto anche di silenzi, gemiti, riverberi, trascinando l'ascoltatore in una trance senza via d'uscita.
Sette schegge impazzite. Sette rituali di autodistruzione. Trentuno minuti e quindici secondi di cui la storia della musica non potrà mai liberarsi. "Frankie Teardrop", il più agghiacciante, si regge su un minimalismo scheletrico e, al tempo stesso, abnorme, trascina lentamente la voce (quella voce che è come un sussurro gelido) verso la dissoluzione. Frankie è dentro di sé, chiuso nel suo mistero. L'era tecnologica ha fallito, ha ucciso ogni solidarietà col mondo. Frankie può anche non sapere tutto questo, ma il suo gesto (l'uccisione di moglie e figlio, con annesso suicidio) è il prodotto di tutto questo. Ma tutto questo è già in secondo piano, messo in disparte dal taglio "teatrale" che assume il brano, dalla sua "drammaturgia post-industriale", che è anche e soprattutto un tentativo chiarificatore dell'esistenza. Non ha più senso riferirsi al rock, allora. Forse è più giusto parlare di "Musica Totale". Come definire, infatti, l'eco tremolante di "Che", con il suo organo fluorescente e quella circolarità inifinitesimale che lascia culminare il disco in vuoto cosmico? E che dire della bellezza estenuante di "Cheree", litania meccanica dal cuore umano? Che dire della sua dolcezza macchiata di colpa e di una possibile redenzione?
"Musica Totale", insomma, il che è come dire che non si da più differenza tra rappresentazione (musicale) e cosa rappresentata. New York è qui dentro, questa è New York. Questa è la realtà, e solo questa. Questo è il suono dell'umanità sacrificata sull'altare dell'utopia modernista. E per raccontare questo sacrificio è cosa buona e giusta che si tenga ben presente il passato. Ecco, perciò, venire alla ribalta il rockabilly, ma deturpato e destrutturato, condotto verso la sua apoteosi meccanica: "Ghost Rider".
Ma, in fin dei conti, non c'è nulla di meccanico in tutto questo. C'è solo un senso di frenesia acida, di tensione stratificata, fatta di riverberi accecanti, come la voce di Vega che perde continuamente la sua posizione nella struttura del brano, martoriata da feedback immondi, come si evince anche dalla successiva "Rocket USA", quasi una danza tribale in costante "devoluzione". Dal canto suo, invece, "Johnny" conferma il gusto per la rilettura in chiave elettronica del rockabilly, questa volta, però, impacchettato e spedito direttamente nel futuro. Resta soltanto la sensuale "Girl", intenta a dondolare stralunata su di un tappeto fatto di ricami di organo e pulsazioni ovattate.
Raggelante rappresentazione della decadenza post-industriale, Suicide afferma anche un nuovo linguaggio, non espressivo, ripetitivo e distaccato, che cancella ogni traccia di soggettività ed emotività, portando a una stasi quasi catatonica. Un'opera fondamentale, che getterà le basi per la quasi totalità della musica di matrice elettronica di lì a venire. Senza quel prototipo, per quanto grezzo ed ermetico, gruppi degli anni 80 come Devo, Ultravox, Depeche Mode, Jesus and Mary Chain, Sisters of Mercy o dei '90, come Daft Punk, Chemical Brothers (solo per citarne alcuni), forse, non sarebbero esistiti o comunque non sarebbero mai stati gli stessi.
Con il successivo Suicide II (1980), tuttavia, il duo newyorkese perde smalto, virando verso un pop cibernetico che mantiene le atmosfere da incubo urbano, ma stempera in parte l'intensità degli esordi. Brani come "Touch Me", "Dance" e "Harlem" sono tuttavia esempi ancora luminosi di una poesia sonora disumanizzante e piena di suspense.
Dopo questo secondo capitolo, i due decidono di concentrarsi soprattutto su progetti solisti, sostenuti anche dall'amico Rick Ocasek, leader dei Cars e produttore illuminato della scena "indie".
Vega pubblica album discontinui, ma capaci a tratti di resuscitare lo spirito malato dei Suicide con brani come la robotica "Jukebox Baby" (da Alan Vega del 1980), il demoniaco "Magdalena 82" e l'allucinata denuncia di "Viet Vet" (da Collision Drive del 1982), le agghiaccianti "Hammered" e "Life Ain't Life" (da Dujang Prang del 1996). Il tutto alternato da altri progetti artistici, come il libro di fotografia "Deuce Avenue War" (1990) e l'opera di prosa e poesia "Cripple Nation" (1991). Meno suggestiva la produzione di Rev, dal primo album omonimo di sole tastiere del 1980 a Strangeworld (2000), passando per See Me Ridin' (1996).
I due si riuniscono una prima volta nel 1988 per A Way Of Life e tre anni dopo per Why Be Blue, prendendo parte ad alcuni tour e facendo da spalla a Elvis Costello e Clash. Concerti talvolta roventi, come quello inciso in un cd-bonus allegato all'album d'esordio, dal titolo "23 Minutes Over Brussels": la registrazione di un concerto del '78 finito in rissa, con conseguente intervento delle forze dell'ordine.
Dopo una lunga assenza dalle scene, i Suicide tornano a sorpresa nel 2002 con American Supreme. Registrato a New York subito dopo il fatidico 11 settembre e nato dalla collaborazione con gli artisti Scott King e Matt Worley (meglio conosciuti come Crash), firmatari del manifesto Failure contenuto all'interno del booklet, e con Jonathan de Villers, per la foto di copertina, il disco scava nel malessere americano con una grande carica espressiva, a partire dalla bandiera a stelle e strisce sgualcita e consumata, ritratta in copertina. Ed è anche la musica di Vega-Rev a creare malessere. Una musica ancora una volta gelida, torbida, lacerata: una miscela di pulsazioni hip-hop, funk digitale, dub e house, rap, iniezioni di techno, chitarre metal e synth ossessivi. E su questo sfondo sonoro si erge una voce "messianica", che riecheggia le gesta di Lou Reed, Jim Morrison e Nick Cave.
Non tragga in inganno il dispiegamento di mezzi elettronici nelle pulsazioni metropolitane di "Televised Executions", "Swearin' To The Flag", "American Mean", "Death Machine", né l'hip-hop di "Wrong Decisions" o il reggae di "Damn Rain Damn Train": quella dei Suicide non è musica da ballare. Semmai, è un ballo dell'estinzione, una danza macabra sull'orlo dell'incubo. E' la colonna sonora di un mondo corrotto e in macerie. Il nuovo lavoro non abbandona la formula, all'avanguardia oggi come 25 anni fa, ma i sound di Rev sono attualizzati: "Misery Train", ad esempio, sembra un loop dei Röyksopp, altrove si nota un break hip-hop. La genialità rivoluzionaria resta la capacità di deturpare le strutture classiche della canzone pop, intro/verse/chours/verse e usare solo il chorus, sempre uguale (come nella groovy "Power Au Go Go"). "Begging for Miracles" è un loop alla Chemical Brothers, "Dachau, Disney, Disco" è una cacofonia al rumor bianco. Ed è emblematico il manifesto finale di confusione mentale ed esistenziale estrema: "I Don't Know", non so. Una incertezza che da New York si estende al mondo.
Martin Rev si ripropone poi nel 2003 con il robotico To Live (2003).
Il 16 luglio 2016, all'età di 78 anni, muore il cantante Alan Vega, sancendo così la fine del duo.
A circa cinque anni dalla morte del carismatico leader, si aprono gli archivi dei materiali registrati e non ancora pubblicati, quei vault pieni di take ed edit che cercheranno di catturare a posteriori, in maniera laicamente agiografica, l’anima di una personalità fondamentale per l’art-rock. In “The Downtown Book. The New York Art Scene 1974-1984”, libro curato da Marvin J. Taylor, Lydia Lunch ricorda il ruolo centrale dei Suicide in quel programmatico azzeramento della tradizione rock operato dalla no wave, richiamato anche da Simon Reynolds in “Post-Punk 1978-1984”. Tutto avvenne quasi all’interno di una sola porzione di quartiere, l’East Village a Manhattan, in una manciata di anni in cui germinavano i generi rock di avanguardia e si rincorrevano sulle fanzine i modi per trattenere certe sonorità: punk, post-punk, new wave, no wave.
Ed è esattamente questo che riemerge oggi fin dai primi suoni disturbanti di Mutator (2021), album registrato tra il 1995 e il 1996 da Alan Vega nel suo studio privato a New York: l’oscurità di un mondo oltre ogni confine colto in un fragore metropolitano intriso di follia, instabilità, inquietudine e di suoni non concilia(n)ti di synth cupi e sfrangiati, quasi drones, che sembrano emessi dal subconscio. Musicista e archivista di Vega è la moglie Liz Lamere, che ha collaborato anche alla realizzazione di queste otto tracce mixate da Jared Artaud (Vacant Lots), con cui Vega aveva realizzato l’ultimo album “IT” (Fader Label, 2017).
Troviamo synth-pop e deformazioni dei Kraftwerk (“Fist”), dream-pop e incubi lynchiani (“Samurai”), dark e noise (“Nike Soldier”), industrial e sermoni (“Muscles”, “Filthy”) tra profano (“Trinity”) e sacro (“Psalm 68”). Sono esperimenti coi suoni rispetto alla loro capacità immaginativa, in cui i synth diventano noise generator e futuristici intonarumori. Chiude l’album in maniera enigmatica la distopia elettronica quasi euforica di “Breathe”.
Mutator è un ascolto destabilizzante, come ci ha abituato da sempre l’artista newyorkese, coerente con la sua opera e con un’idea di arte totalizzante che vuole scuotere e interpretare i presagi più neri dal futuro.
Nel 2024 esce un nuovo capitolo postumo a firma Alan Vega. A cavallo tra il '95 e il '98 l'artista newyorkese collaborò con artisti tanto diversi come possono essere Alex Chilton, Ric Ocasek, Mika Vainio e intanto incise a profusione per conto proprio, al punto da accumulare materiale in esubero rimasto nei cassetti. Supervisionato dalla vedova Liz Lamere insieme al fidato collaboratore Jared Artaud, Insurrection (2024) pesca dalle session immediatamente successive a quelle di Mutator (2021). Se il periodo di riferimento è bene o male lo stesso, i contenuti sono agli antipodi: la natura scarna e vagamente contemplativa del lavoro precedente viene sbriciolata nel disco più feroce della sua intera carriera.
Tramontata la possibilità di un mutamento, non rimane che l'insurrezione.
Il primo estratto, "Mercy" per l'appunto, parla da sé: l’asettica ossessività dei Suicide cede il passo a una furibonda trance tribale, intonata con la tragica intensità di uno Scott Walker pestato a sangue sull'orlo di un marciapiede. Nel secondo, "Cyanide Soul", l'ansimare isterico dei suoi brani più iconici si riduce a un sussurro oltremondano, perverso e sensuale come il sapore di un'anima al cianuro.
Altrove, alla declamazione si preferisce l'urlo (gli scomposti ruggiti alla Michael Gira di "Sewer"), alla sottrazione il caos (la bolgia catastrofica di "Fireballer Spirit"). Non che le soluzioni arrangiative più articolate (il gospel distorto di "Invasion") o i rimandi più o meno trasparenti (il tema di "Doctor Who" in controluce su "Crash", "Chains" che fa il verso alla "Pagan Love Song" dei Virgin Prunes) rechino qualche conforto. L'unico brano che può ricordare il sodalizio con Martin Rev s'intitola, significativamente, "Genocide": il singolo è estinto, il prossimo passo sarà sterminare le masse. Quanto agli oltre 9 minuti di "Murder One", è una "Frankie Teardrop" rimasticata dai primi Bad Seeds, mentre nell'ermetico interludio strumentale di "Jet Lord" sembra d'intravedere le lamiere accartocciate del WTC.
In un'America per l'ennesima volta sull'orlo del baratro, al pari del mondo che ha contribuito a plasmare, queste tracce hanno ancora il potere di dar corpo ai nostri incubi. E, forse, di spronarci a reagire.
Contributi di Maria Teresa Soldani ("Mutator") e Ossydiana Speri ("Insurrection")
SUICIDE | ||
Suicide (Bronze, 1977) | 9 | |
23 Minutes Over Brussels (Franki, 1978) | 6 | |
Suicide: Alan Vega/Martin Rev (Mute, 1980) | 7 | |
Half-Alive (ROIR, 1981) | ||
Ghost Riders (ROIR, 1986) | ||
A Way Of Life (Wax Trax, 1988) | ||
Why Be Blue (Brake Out, 1992) | 5 | |
The Second Album + The First Rehearsal Tapes (1999) | ||
American Supreme (Mute, 2002) | 6 | |
| ||
ALAN VEGA | ||
Alan Vega (PVC, 1980) | ||
Collision Drive (Celluloid, 1982) | ||
Saturn Strip (Elektra, 1983) | ||
Deuce Avenue (Infinite Zero, 1990) | ||
Power On to Zero Hour (Musidisc, 1995) | ||
Alan Vega: New Raceion (Warner, 1995) | ||
Dujang Prang (Thirsty Ear, 1996) | ||
Cubist Blues (2.13.61, Thirsty Ear, 1996) | ||
Getchertiktz(Sooj, 1996) | ||
2007 (Double T Music, 1999) | ||
Sombre (Labels, 1999) | ||
Station (Blast First, 2007) | ||
It (Fader Label, 2017) | ||
Mutator (Sacred Bones, 2021) | ||
Insurrection (In The Red, 2024) | ||
ALAN VEGA & PAN SONIC (Vainio/ Väisänen/ Vega) | ||
Endless (Blast First, 1998) | ||
Resurrection River (Mego, 2005) | ||
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MARTIN REV | ||
Martin Rev solo (Lust, 1980) | ||
See Me Ridin' (ROIR, 1996) | ||
Strangeworld (Sahko, 2000) | ||
To Live (File 13, 2003) |
Sito ufficiale |