Simon Reynolds

Il futuro ha sempre avuto un suono

L'uscita di "Futuromania" (come sempre pubblicato in Italia da Minimum Fax) ci ha dato l'opportunità di raggiungere uno dei più importanti critici musicali contemporanei per una chiacchierata a tutto tondo sul libro (che raccoglie i suoi articoli per testate come The Wire, The Village Voice, Pitchfork) e sulla musica elettronica che ha orientato la nostra percezione del futuro negli ultimi decenni, da Moroder alla conceptronica, passando per i Kraftwerk, il synth-pop e tutta la cultura dance elettronica inglese anni Novanta. 
 
Le prime pagine del libro sono dedicate a Moroder, che è il responsabile, insieme ai Kraftwerk, del mio primo vero contatto, da bambino, con le sonorità elettroniche, nel 1978. Moroder mi piaceva, ma non riusciva a fare scattare dentro di me quella fascinazione per il futuro che invece i Kraftwerk, con la loro estetica androide unita a sonorità altrettanto inumane, non avevano difficoltà a trasmettere (sebbene mi facessero paura). In quello stesso periodo, anche la tv e il cinema spingevano la fantasia di molti bambini della mia età verso l'ignoto ("Spazio 1999", "Doctor Who", "Guerre Stellari"). Possiamo dire che alle fine degli anni Settanta la spinta verso il futuro, cominciata nei decenni precedenti, si è trasformata in vera e propria impazienza? 
Non so dire, dipende dall'area della cultura a cui ti riferisci. In un senso più ampio, l'entusiasmo per il futuro, e la relativa sensazione che sarebbe stato radicalmente diverso dal presente, erano più forti durante gli anni Cinquanta e Sessanta e, in una certa misura, anche all'inizio del Ventesimo secolo, quando c'erano tutte le fiere mondiali con in mostra le nuove tecnologie tipo "La Casa del Futuro", oltre a film come "Metropolis". Ma certamente negli anni Cinquanta e Sessanta c'era molta eccitazione per l'esplorazione dello spazio e per la plastica intesa come "materiale del futuro", entrata nel mondo della moda grazie a stilisti come Courrèges, Rabanne e Cardin, che utilizzavano tessuti artificiali e imitavano gli abiti degli astronauti.
In un certo senso, gli anni Settanta furono il periodo in cui la fiducia nel futuro iniziò a diminuire in modo significativo. Alcuni commentatori dell'epoca consideravano gli anni Settanta il decennio in cui morì il sogno del futuro. Fu quando le preoccupazioni per la sovrappopolazione, l'inquinamento e l'esaurimento delle risorse determinarono una perdita di fiducia nelle narrazioni sul progresso e sulla crescita economica illimitata. C'era una cupa sensazione che tutte le speranze selvagge degli anni Sessanta fossero svanite e che quella spinta utopica al cambiamento si fosse scontrata con la realtà più ostinata. Un senso di stagnazione sociale. E musicalmente questo si rifletteva nel punk, con il suo messaggio "no future". Ma certamente, nel senso stretto di quello che stava succedendo alla musica popolare, alla fine dei Settanta i suoni elettronici e il ritmo delle macchine avevano cominciato ad assumere quell’importanza che negli anni Ottanta sarebbe poi diventata un vero e proprio predominio.
I sintetizzatori erano stati ampiamente utilizzati nella musica rock e in altri generi all'inizio degli anni Settanta, ma in un modo che accentuava la loro musicalità e il ruolo umano nel suonarli: groovy e funky, con artisti come Stevie Wonder, sottili ed espressivi, con Joe Zawinul dei Weather Report o altri personaggi della scena jazz fusion, mentre nei gruppi rock gli strumenti come il Moog erano spesso usati per produrre assoli come dimostrazione di virtuosismo. Ciò che Moroder e i Kraftwerk hanno invece introdotto pionieristicamente è stata una sensazione meccanicistica: i ritmi sequenziati davano l’impressione che le macchine avessero preso il sopravvento e gli umani non fossero più al comando. Ovviamente si trattava di un'illusione, poiché erano le decisioni umane applicate alla tecnologia a produrre il risultato, ma agli ascoltatori è sembrata una "musica automatica", un'anteprima di un futuro scintillante, snello e controllato a distanza. "I Feel Love" e "Trans Europe Express" in particolare, usciti nello stesso anno (1977), hanno avuto un impatto enorme, catturando l’attenzione di tutti i tipi di musicisti, come gli Human League e gli Sparks.
 
Nell'articolo del 1991 per il Village Voice scrivevi che “i Kraftwerk suscitano nostalgia per i giorni in cui pensavamo che la tecnologia ci avrebbe liberato, che la città del futuro sarebbe stata immacolata e pianificata in ogni dettaglio”. Riflettendo su questa frase oggi, è più forte la nostalgia o il senso di delusione/disillusione, considerato come sono andate poi realmente le cose?
La cosa interessante dei Kraftwerk è che spesso i loro punti di riferimento a livello di testi e arte visiva si riferiscono all'inizio del ventesimo secolo: l'autobahn, il Trans Europe Express, "Metropolis" di Fritz Lang, la grafica modernista sovietica sulla copertina di "The Man-Machine". Ma dal punto di vista sonoro stanno inventando gli anni Ottanta e Novanta già negli anni Settanta, aprendo la strada alle sequenze e alle ritmiche di drum machine usate poi dal synth-pop, dalla techno e dalla trance. Quindi c'è un'interessante miscela di retro-futurismo e futurismo attuale. Ma con "Computer World", le tematiche vengono aggiornate: c'è una perfetta integrazione tra suono all'avanguardia e contenuto dei testi (calcolatrici tascabili, appuntamenti con il computer, l'idea che i computer alimentino una società orientata al controllo e alla sorveglianza). Si è parlato molto, intorno al 1979-80, di cose come i microchip e concetti del tipo "perderanno tutti il lavoro per via delle fabbriche robotizzate?", così come della necessità di aumentare la consapevolezza dell'importanza dei computer nei lavori d'ufficio, nella burocrazia governativa, nell'analisi statistica, nel mondo della finanza ecc. Sul fronte del tempo libero, c’è stato anche l’inizio dei giochi per computer e dei videogiochi nei bar, con "Space Invaders" e "Pacman".
La musica elettronica è fondamentalmente figlia dei Kraftwerk e di "Space Invaders". Alla fine degli anni Ottanta invece, i Kraftwerk sono rimasti indietro rispetto allo stato dell'arte o sono rimasti paralizzati nel tentativo di tenere il passo. Quindi, all’epoca dell'album "The Mix" (1991) e della rimodellazione dei loro classici anni Settanta/primi anni Ottanta, i Kraftwerk hanno cominciato a fare quello che hanno fatto negli ultimi trent’anni: esistere come museo del futuro, o più precisamente, un museo del loro futurismo passato. Se vedi i Kraftwerk nel 1991 come ho fatto io, ma anche nel 1998, come ho fatto di nuovo, e poi ancora una volta nel 2014, stai vivendo una sorta di archivio vivente, un gruppo che si commemora e celebra i propri traguardi, ma che non è in grado di partecipare alla cultura pop del momento. Gli spettacoli del 2014 sono impressionanti, con tutte quelle immagini 3D, ma la musica è essenzialmente un atto di conservazione dell'audio: una mostra del museo sonoro. E quando vai a vederli, ci sono più livelli di nostalgia al lavoro: una sorta di nostalgia ironica per le immagini del futuro pulito e robotico che erano soliti celebrare, ma anche nostalgia per la storia dei Kraftwerk e la sensazione di intensa eccitazione per il futuro che i loro dischi solevano suscitare, quando erano pionieri piuttosto che curatori della loro stessa leggenda.
È interessante il fatto che ci vengono proposte ancora oggi immagini di un futuro pulito, luminoso, immacolato e perfettamente organizzato, nel mondo della Silicon Valley, nella pubblicità di tecnologia personale come smartphone e laptop, o tecnologia di intrattenimento (Tv ad alta definizione, giochi, VR). Ma non penso che qualcuno creda che il futuro in senso generale possa essere un incontaminato tecno-paradiso, con marciapiedi in movimento e piccoli velivoli usati per andare in ufficio o fare vacanze sulla Luna. Potrebbero esserci elementi della nostra vita realmente futuristici (i nostri smartphone, il cruscotto delle nostre auto, i nostri centri di intrattenimento domestici... quello che accade negli ospedali è sempre più fantascienza), ma sotto altri aspetti, sappiamo che il futuro sarà caotico, sporco e pericoloso. E la nuova tecnologia consente anche manipolazione psicologica, disinformazione, cospirazioni disseminate sui social media, droni, sorveglianza e monitoraggio da parte dello stato e delle aziende che raccolgono i nostri dati. Quindi l'immagine del futuro è ancora più buia ora.
 
Grazie ai Kraftwerk e alla diffusione di sintetizzatori più economici, tutta la cultura elettronica ha assunto una connotazione finalmente accessibile (a differenza dell'elettronica cosmica di metà anni Settanta), che ha contribuito a scolpire l'estetica sonora del synth-pop. Quali pensi che siano state le band che hanno interpretato meglio la spinta futuristica nel synth-pop anni Ottanta?
In termini di immagine, grafica, atteggiamento positivo, ottimista e umano, penso che gli Human League siano probabilmente quelli che l’hanno interpretata meglio - penso qui principalmente all'album “Dare” e ai singoli estratti, come "Love Action", "The Sound Of The Crowd", "Don't You Want Me", e l’ottimo singolo uscito non molto tempo dopo l'album, "(Keep Feeling) Fascination". Ma anche l'album di remix “Love And Dancing” è stato un risultato fantastico, in gran parte dovuto al genio e all'incredibile attenzione ai dettagli del loro produttore Martin Rushent, che ha fatto sfoggio di molte delle tecniche che sarebbero diventate uno standard nella club music degli anni Ottanta. Ma tanti altri sono venuti fuori con punti di vista molto diversi. I DAF avevano un fantastico suono scuro e minimalista. E dipende anche da come definisci il synth-pop. Generalmente le persone lo usano per descrivere gruppi come Soft Cell e Depeche Mode, ma la migliore musica pop elettronica degli anni Ottanta era rappresentata dall’electro (Mantronix, Man Parrish, Nitro Delux) e dalla musica da club post-disco che utilizzava sempre più drum machine, bassi sintetici, elementi sequenziati, uniti a voci appassionatamente soul ed erotiche. Pensa al team di produzione Jam & Lewis, meglio conosciuto per il lavoro con The SOS Band e Janet Jackson, che poi ha effettivamente lavorato con gli Human League quando questi ultimi avevano bisogno di una nuova hit alla fine degli anni Ottanta. Probabilmente gruppi inglesi come gli Human League hanno influenzato Jam & Lewis in una certa misura a livello di abbraccio della tecnologia elettronica, ma poi la cosa è diventata vera anche al contrario. Quindi c'è un intero lato oscuro del synth-pop legato all'avvicendarsi delle idee, negli anni Ottanta.
 
Uno dei temi centrali del libro è la trattazione estensiva di quello che tu chiami hardcore continuum, ovvero la subcultura inglese delle radio pirata e dei rave nei magazzini abbandonati, che comincia a fine anni Ottanta con la house e arriva fino al 2-step passando per l'hardcore, la jungle/drum and bass e lo speed garage. Tu li definisci come vent'anni fortunati per la dance elettronica inglese. Ora che non c'è più una cultura veramente underground (perché tutto è immediatamente visibile/raggiungibile attraverso la rete) pensi che una scena con un approccio simile abbia qualche possibilità di rinascere?
Non so se sono d'accordo sul fatto che oggi non esista qualcosa di definibile come "underground". Ci sono certamente generi che a molte persone non piacciono, o che non sono conosciuti, molte scene minori con un seguito di culto. Sono invece d'accordo sul fatto che raramente sembrano esprimere la controcultura tipica del post-punk o del rock alternativo, espressa invece (anche se in modo diverso) da generi come techno, gabber e jungle negli anni Novanta. Ciò è in parte dovuto al fatto che è fin troppo facile pubblicare il proprio lavoro online, non c'è il senso di sforzo e di lotta che c'era nel pubblicare un disco fai-da-te o nel creare una fanzine. Ma se per questo è anche fin troppo facile ignorarlo (il proprio lavoro online, ndr). Parte di ciò che è stato definito underground aveva un punto di contatto con l'overground, una sorta di zona di confine, un tentativo di entrare nel mainstream per cambiarlo. Oggi invece è più una questione di mercati di nicchia che esistono felicemente senza essere notati o dare fastidio.
Ciò che ha definito l’hardcore continuum, o almeno gli ha dato una coerenza nel tempo, nonostante il fatto che il suono sia cambiato spesso drasticamente, è stato l’esser mediato dalle radio pirata, stazioni illegali che trasmettevano attraverso l’etere. Avevano una base territoriale - avevano un raggio di trasmissione limitato all'interno di Londra - il che significava che serviva una comunità locale, di solito la classe operaia, con un'alta percentuale di ascoltatori di minoranza. Ma erano anche pubbliche: le trasmissioni finivano sulle stesse frequenze utilizzate dalla radio di stato o dalle stazioni radio commerciali autorizzate. Quindi stavano invadendo uno spazio pubblico, affermando l'esistenza di popolazioni minoritarie, gusti musicali minoritari. Il modo in cui funziona Internet non è lo stesso. Puoi avere un numero infinito di trasmissioni che coesistono senza interagire. Le stazioni radio Internet vengono trasmesse a persone che le conoscono già; è preselezionato. Mentre la caratteristica di una stazione pirata è che le persone che non conoscono quel tipo di musica possono incappare involontariamente nella trasmissione, e anche le persone che odiano quella musica, e forse temono gli individui ad essa associati, ci possono finire sopra. Quindi è un intervento molto più significativo. Le stazioni pirata che sono diventate un'emittente online hanno perso completamente lo status di forza ribelle, di azione pubblica.
  
In riferimento all’impulso musicale rave, nel tuo articolo del 1992  su The Wire dici “è un cazzo di caos indecifrabile e ben poco musicale, ma quando lo vedi raggiungere un pubblico largamente proletario attraverso l’etere, sai di essere nel futuro”. È corretto dire che la ricerca di spinta progressiva in termini musicali è tipica del proletariato? È legata alla ricerca di un futuro migliore in termini economici oppure al fatto che, tutto sommato, chi ha meno da perdere ha meno paura del futuro? 
Sì potrebbe essere questo, nel senso che il futuro viene investito del ruolo di contenitore di speranze e possibilità, perché il passato non è allettante, rappresenta una costrizione. Per molti il passato significa oppressione, condizioni peggiori, e per buona parte della popolazione black coinvolge cose come il colonialismo e la schiavitù. Le persone della classe medio-alta invece è più facile che abbiano una visione migliore della Storia e della tradizione, perché la loro situazione non era poi così male. Penso che, in generale, nelle popolazioni della classe operaia, bianche e nere, colpisca come il gusto si inclina verso l'ultra-moderno. Che si tratti di musica, vestiti o mobili. Non c'è quell'interesse borghese per l'antiquariato, l'estetica vintage o i suoni retrò.
Nel Regno Unito, c'è una classe di persone a cui si fa riferimento in modo dispregiativo come chavs, una parola per indicare quello che Marx avrebbe chiamato il lumpenproletariat. In altre parole, si tratta di persone che, indipendentemente dal fatto che lavorino o meno, non sono coinvolte nei sindacati e non hanno un senso di solidarietà come classe sociale. Penso che ogni paese abbia un tipo di popolazione simile, e ogni lingua probabilmente ha il suo termine negativo per descriverli, che viene usato come un segno di esclusione sociale. Parte dello snobismo nei loro confronti riguarda quanto siano appariscenti i loro vestiti, come non abbiano alcun interesse a guardare i drammi in costume della Bbc o leggere i classici, e quanto sia trash e scadente la loro musica. Ma da tempo noto che, praticamente in ogni paese del mondo, il gusto chav in fatto di suoni va nella direzione di quelli più futuristici, o almeno, quelli del momento. Sono le forme più sintetiche di hip-hop e r&b, con l’auto-tune utilizzato al massimo, o di gabber, hard house, dancehall, reggaeton e afrobeat. Come sempre basate sull'elettronica più scintillante, sui ritmi meccanici, sull’eccessiva intonazione artificiale ecc. Quindi c'è una tendenza, che io ho chiamato avant-lumpen.
Inoltre, ciò che è interessante è l’omologazione del gusto, come la coerenza nel favorire gli aspetti ultra-contemporanei in ogni ambito di consumo - non solo nella musica ma anche nell'abbigliamento, nell'hair styling, nell'arredamento, nella tecnologia personale, nel fast food. Al momento della stesura del pezzo sull’hardcore, nel 1992, ero ancora un po' incerto sulla mia preferenza per l’hardcore e la prima jungle; istintivamente, sapevo che avevo ragione a essere entusiasta per questa musica, ma era un momento in cui gli esperti la disprezzavano e la insultavano. Quindi il riferimento al fatto che sia trash e "non musicale" riguarda il fatto che cerco di prendere quei termini negativi e positivizzarli (pur riconoscendo che, per gli standard della musicalità convenzionale e per ciò che le persone allora pensavano fosse musica elettronica avanzata, questa era rozza e prodotta male). Da un lato, nel 1992, metto in dubbio il valore della musicalità. Tuttavia, riascoltando negli ultimi anni molte di quelle tracce caotiche e disordinate che gli adolescenti producevano nelle loro camere da letto usando una tecnologia molto semplice, trovo sorprendente quanto alcuni brani siano musicali, anche in termini convenzionali. Usano campioni di colonne sonore di film e vecchi dischi soul e jazz, ma creano interessanti contrasti armonici e, ritmicamente, il livello di raffinatezza nel taglio e nella ricombinazione dei breakbeat è davvero avanzato. In parte è perché, riascoltandola ora, sappiamo che quella musica si evolverà poi in drum and bass, quindi la senti sotto forma di abbozzo, di crisalide. Nel 1992 però, la maggior parte delle persone liquidava quella musica come spazzatura - ricordo le persone che dicevano "la jungle non è musica". Quindi, come tutti quelli che la celebravano in quel momento, volevo sia brandire l'idea di "anti-musica" come una sorta di arma, ma allo stesso tempo dire "in realtà, se ascolti davvero, questo è molto più interessante dal punto di vista sonoro di quello che Sven Vath o altri del genere facevano all’epoca, e che la gente presumibilmente informata pensava fosse vera techno”.
 
All'interno dell'hardcore continuum, la subcultura che avverte per prima la sensazione di entrare in un secolo buio è quella della jungle. Tu scrivi che "la jungle è la morte vivente del rave, il suono di chi vive e convive con il tramonto del sogno". In quel momento, l'immagine del futuro si fa dark, ma non perde la sua spinta propulsiva. È quella la prima forma di resistenza culturale nella quale la tecnologia può essere utilizzata anche per sopravvivere in un mondo capitalista dominato dal “tutti contro tutti”?
Non so se è quello il preciso momento in cui il futuro diventa scuro, credo sia più una questione relativa al fatto che dentro all’immaginario da fantascienza c'è sempre stato uno spettro che va dall’utopico al distopico. Quindi entrambi coesistono allo stesso tempo - se torni agli anni Sessanta, ci sono romanzi e film di fantascienza che sono positivi, ma anche altri che dipingono un'immagine oscura e desolante del futuro. Probabilmente, ci sono più immagini distopiche che utopiche. In campo musicale, ci sono state entrambe le cose - nello stesso momento in cui gruppi come Cabaret Voltaire e i Tubeway Army di Gary Numan hanno presentato visioni agghiaccianti e paranoiche del futuro, ci sono anche stati i Kraftwerk con "Neon Lights" e gli Human League che hanno deriso le fredde immagini urbane in stile J.G. Ballard nella loro canzone "Blind Youth". Nel caso particolare del rave, hai un immaginario utopico più positivo a fine anni Ottanta/inizio Novanta, in gran parte a causa degli effetti dell'Mdma. Ma poi il rave hardcore diventa darkside o darkcore, perché gli effetti negativi a lungo termine dell'uso di ecstasy iniziano a creare paranoia. A quel punto la jungle si sviluppa in una sorta di suono militante urbano che parla di tensione e di stare in guardia. Canzoni sulla polizia, sulla vita dei gangster, sul diventare "real" - il che significa affrontare la realtà in stile “cane mangia cane”. I sogni di unità e amore, pace e armonia, tipici della prima ondata house, e quello splendore da luna di miele dovuto all’uso dell'Mdma nelle sue fasi iniziali - quando la gente pensava che questa droga e questa cultura potessero cambiare il mondo - tutto questo inizia a frantumarsi. Le persone iniziano a esagerare con le droghe o con mix di farmaci che creano effetti psicologici confusi. Molti cominciano a fumare erba, che negli anni Novanta è molto forte e crea effetti fastidiosi e altrettanto paranoici, non equiparabili alla rilassatezza degli hippy o di Bob Marley. E tutto questo va ad alimentare la musica.
C'è poi l'influenza estetica dei film cyberpunk - "Blade Runner", "Robocop", Terminator - immagini di un oscuro futuro controllato da qualche azienda, e molti videogiochi che ne ricalcano l’aspetto. Il problema dei film e delle fiction distopiche, però, è che sono eccitanti. Descrivono emozionanti scene d'azione e avventura, in cui ti rivedi come l’eroe o l’antieroe fuorilegge che combatte il sistema. Il filosofo Fredric Jameson, che è anche un esperto di fantascienza, ha scritto un intero libro sul genere, chiamato “Archaeologies Of The Future”. Il sottotitolo è “il desiderio chiamato utopia”, che è una bella frase, molto evocativa, ma penso che si potrebbe anche parlare di "il desiderio chiamato distopia", visto che ci piacciono queste oscure visioni del domani, che siano quelle di "Alien" o "The Hunger Games". Alimentano il desiderio che il mondo sia radicalmente diverso e che ci sia la possibilità per noi stessi di vivere un'esistenza intensificata ed eroica, la possibilità di essere straordinari in qualche modo. Quindi, con la jungle oscura, il techstep, il cupo gabber del Mover e della PCP Records, questi freddi scenari futuri diventano attraenti. Riflettono alcune delle ansie e delle tensioni del presente, ma le trasformano in fantasie di lotta e trionfo.
 
Io ho cominciato a seguire quella scena, in particolar modo la Idm, a metà anni Novanta (venivo da una sbandata per il grunge e precedentemente per il post-punk/goth), in un momento in cui tutta la tecnologia profumava di eccitazione. I primi pc multimediali, con le schede audio e i lettori di cd-rom, avevano aperto le porte a un mondo di videogame che facevano vivere in maniera molto più realistica il futuro. Ricordo i pomeriggi a giocare a "Wipeout 2097" (la cui colonna sonora era non a caso composta da titoli di OrbitalFuture Sound Of London, Photek, Fluke, ProdigyChemical Brothers) e a "MechWarrior2". Tutto faceva pensare a un sogno futurista diventato realtà. Poi è arrivata Internet, con il suo potenziale teoricamente infinito ma al contempo fin troppo reale nell'evidenziare i pregi e i difetti della natura umana. È lì che abbiamo cominciato a guardare il futuro con occhi diversi?
Non ho davvero una risposta per questo. Penso che uno degli aspetti principali di Internet sia che non ha trasformato radicalmente l'umanità. Come contesto, è piena di tutta la merda che ci abbiamo portato. Sono rimasto molto colpito dalla visione di "The Social Network", il film su Facebook. Nello stesso periodo stavo guardando una serie Tv ambientata nell'antica Roma, appena un secolo dopo la nascita di Cristo, se ricordo bene. E guardando "The Social Network", ho pensato che, se si modificassero leggermente i dettagli, la trama di base o le motivazioni dei personaggi, si adatterebbe perfettamente al mondo antico di questa serie su Roma. Perché è tutta una questione di potere, gloria, denaro, tradimento ecc., e le motivazioni effettive a cui fanno appello Facebook e i social media riguardano allo stesso modo lo status, la vanità, l'attrazione del sesso opposto, la cricca ecc.. I recenti sviluppi di Internet, social media e app, sembrano tutti confermare questa idea che la natura umana non è cambiata. La tecnologia software è usata per disinformare, fuorviare, creare capri espiatori, fomentare odio o paura.
 
Negli ultimi vent'anni software come Ableton, Melodyne e Auto-Tune hanno permesso una diffusione capillare di conoscenza elettronica a buon mercato, e in generale tutta l'offerta di tecnologia sonora ha portato a vivere una specie di overdose. Holger Czukay dei Can sosteneva però che la limitazione era la madre di ogni creatività. Aveva ragione?  
C'è sicuramente una sorta di estetica "sovraccarica" in molta della musica elettronica del Ventunesimo secolo, dove i suoni vengono scolpiti in 3D, con una miriade di piccoli dettagli e cambiamenti di ritmo ogni poche battute. Il sound design è sovrapposto, in maniera molto simile a quello che si potrebbe ottenere nei film d'azione o nei videogiochi CGI. I buddisti zen lo chiamano "il fango delle opzioni". Il software ti dà troppi parametri con cui puoi modulare e sfumare qualcosa. È lo stesso a tutti i livelli, anche con la scrittura. I computer sono ottimi per l'editing, ma non altrettanto per l'atto effettivo dello scrivere. In un certo senso, le macchine da scrivere erano migliori, perché dovevi davvero impegnarti per scrivere bene una frase, e risparmiarti così il dolore di fare una correzione con il bianchetto subito dopo. Quella era una vera e propria spinta verso la scrittura. Il risultato finale poteva essere più sciatto, ma non aveva la qualità ultra-esigente di un pezzo di prosa costruito con un programma di elaborazione testi.
 
Daft Punk si sono da poco sciolti. Nel capitolo estratto dal tuo discorso al simposio "Tomorrow Never Knows", sostenevi che "Random Access Memories" finiva per definire l'anno 2013 rifiutandolo, perché pieno di riferimenti al tempo, alla transitorietà, all'idea di un futuro perduto e alla memoria. Pensi che sia stato quel tipo di riflessione (permeato da un'assenza di ipotesi sul futuro) ad avviare un processo fatale per il gruppo che più di ogni altro ha contribuito a sdoganare le sonorità dance elettroniche?
Penso che la motivazione più semplice risieda nel fatto che non sapevano più dove andare dopo quell’album. Avevano percorso un cerchio completo, dall'iniziare un lavoro che utilizzava campioni disco, soft rock e synth-pop anni Ottanta, fino a creare ex-novo il tipo di musica che una volta campionavano - usando musicisti in carne e ossa e registrazioni analogiche - da cui altri, a loro volta, avrebbero potuto campionare (anche se penso che nessuno l'abbia mai fatto). Quella che avevano completato era una traiettoria concettuale perfetta, ma non credo avesse lasciato loro un “altrove” in cui andare. Come potevano superare il successo di quel disco? "Get Lucky", qui in America, è passata in radio a ogni singola ora del giorno, per più di un anno. Hanno vinto sei Grammy e sono stati i mattatori della cerimonia di quella stessa serata, suonando sul palco con eroi come Stevie WonderNile Rodgers. Hanno portato a termine un esercizio di viaggio nel tempo tornando all'era analogica e alla monocultura pop, e il mondo ha accettato e ratificato le loro idee nel modo più totale. Penso sia significativo, tuttavia, che da allora "Random Access Memories" sembra essere stato completamente dimenticato. È sparito dalla memoria popolare. Non sentirai mai "Get Lucky" tra i vecchi classici che passano in radio. Si trattava del compimento perfetto, o la prova definitiva, del tema della "Retromania". Ho finito il libro nel 2010, quindi tre anni prima dell'uscita di "Random Access Memories", ma se avessi fatto il libro più tardi, avrei potuto scrivere un intero capitolo su quell'unico album. Tocca tanti temi, oltre al pathos della cultura retrò. C'è anche una canzone sulla corsa allo spazio.
 
Gli anni Dieci del nuovo secolo hanno visto la scena elettronica esprimere sia un legame tra arte visiva/teatrale e sperimentazione (tipica della conceptronica), sia un messaggio di valenza politica, con artisti che hanno spesso preso posizioni nette a proposito di identità minoritarie di sessualità, razza, genere (Chino AmobiElysia CramptonArca, la compianta Sophie). In un certo senso, c'è stato un avvicinamento tra l'approccio tipicamente intellettuale e quello più viscerale/fisico. È corretto dire che in passato i due aspetti, sempre parlando di elettronica, erano invece spesso slegati?
Sì, in passato c'è stato un divario tra l’aspetto più fisico della musica da club e i progetti più concettuali o artisticamente ambiziosi. Ma ci sono sempre stati artisti che si sono mossi nella terra di mezzo. Ad esempio, il gruppo jungle 4 Hero ha avuto molte hit dancefloor, ma ha anche realizzato album come "Parallel Universe", che erano un po’ troppo sperimentali per il dancefloor, perché ispirati a idee di fantascienza, futurologia, misticismo e filosofia – argomenti di solito limitati al titolo e forse ad alcuni campionamenti, per quel tipo di musica. Lo stesso vale per altri artisti drum and bass come Goldie. Poi ci sono gli Underground Resistance, che all'inizio avevano un repertorio di pura fisicità hard techno, ma poi nel resto della carriera hanno veicolato messaggi politici, speculazioni filosofiche e concetti scientifici. Penso che la differenza con la conceptronica risieda nella misura in cui la testualità fa parte del lavoro. Con 4 Hero o UR, l'elemento "messaggio" è piuttosto obliquo, più simile a indizi forniti nei titoli, o talvolta sull'etichetta o sull'artwork, ma non prepotente, è solo un piccolo accenno, un po' di scrittura o un'immagine. Nella conceptronica, invece, hai spesso vere e proprie voci nelle tracce, di solito le voci dell'artista, che fanno dichiarazioni o esplorano idee. E le pubblicazioni sono accompagnate da testi articolati, spesso piuttosto densi e dal tono accademico, che spiegano cosa stanno cercando di fare, a che cosa si riferiscono o nei confronti di cosa si stanno impegnando. E questo a sua volta riflette un'altra cosa che è diversa dagli anni Novanta, ovvero il contesto in cui sta accadendo: UR e 4 Hero facevano ancora parte della scena rave e dei club, e sono sopravvissuti in gran parte grazie alle vendite di dischi o, in alcuni casi, grazie ad attività legate al deejaying o ai remix. Gli artisti di conceptronica oggi invece operano molto di più nel contesto del mondo dell'arte, le vendite di dischi raramente generano entrate, e quindi la sopravvivenza deriva molto di più dalle esibizioni in spazi sovvenzionati come musei, gallerie o festival. Il modo in cui si presentano è simile a quello degli artisti visivi: c'è una sorta di introduzione per l'ascoltatore informato e istruito che vuole tenersi al passo con le proposte (spesso c'è proprio una presentazione all’interno dell'istituto ospitante). Si tratta di un focus testuale e cerebrale piuttosto lontano dal focus edonistico e fisico della club culture.
 
Recentemente, la percentuale di artiste donna che si esprime con successo attraverso l'elettronica è diventata importante. Pensi che questo possa contribuire a delineare nuovi futuri?
Questa è certamente un’evoluzione incoraggiante. È interessante notare che, nella musica elettronica accademica e sperimentale del lontano passato, c'erano sempre molte donne in ruoli pioneristici, soprattutto in America, con figure come Pauline Oliveros, Laurie Spiegel, Daria Semegen, Annea Lockwood, e altre. Ma, in generale, nella maggior parte dei paesi troverai donne sperimentatrici che hanno operato in quello che probabilmente avresti pensato fosse un contesto molto maschile. Quindi, in un certo senso, è come se la cultura della dance elettronica avesse raggiunto oggi il modo in cui erano le cose all’inizio.
 
Per concludere, da dove arriva la musica elettronica più interessante (e più futuristica), in questo 2021 ancora alle prese con la pandemia globale?
Non ne ho idea, mi spiace. Probabilmente dovresti chiedere a mio figlio Kieran Press-Reynolds, che è un giornalista musicale con un interesse particolare per i generi online come l'hyperpop e i vari discendenti del Soundcloud rap, dove gran parte dell'energia risiede nell'elaborazione estrema della voce umana.

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