Se innegabilmente l'ascolto può risultare provante, anche facendo a meno delle prescindibili tracce strumentali, anche a causa di momenti di assoluta stanca che mostrano una mancanza generale di direzione piuttosto che un concreto desiderio di musica totale (i ballatoni pop-soul al pianoforte sparsi qua e là nella collezione, dall'interpretazione vigorosa ed enfatica ma dalla scrittura alquanto seduta), nondimeno nel suo terreno d'azione privilegiato Goldie si muove ancora con un'agilità felina e una potenza invidiabile, a tal punto che le sue nuove epopee a 160 bpm non hanno niente da invidiare a classici intramontabili come “Timeless” o “Inner City Life”. Lo sa bene “Redemption”, monumentale suite da diciotto minuti che titaneggia sul resto dall'alto della sua durata colossale, ma anche da una struttura in costante trasformazione, che segue dappresso la grandiosità sconfinata e assolutamente progressiva di una “Mother”, incanalandovi spazialità atmosferica, dinamismo breakbeat, sezioni per soli bassi e campionamenti di vecchi successi techno, in un inno alla plasticità e alla malleabilità della drum'n'bass.
Anche a non cogliere gli esempi più ovvi, Price sa comunque far confluire la sua straripante personalità anche in formati più contenuti, sfruttando a suo vantaggio le dinamiche della forma-canzone. Dall'imponente impalcatura vocale dell'introduttiva “Horizons”, d'n'b più ortodossa e dalla struttura impeccabile, alle sviate inattese della successiva “Prism”, ricca di strutture sonore cangianti e di importanti sfumature house, finendo sulle interpretazioni gemelle di “The River Mirrored” e “The Mirrored River” (affidate a due voci diverse), la mano di Goldie sa ancora intessere trame di velluto capaci di assestare cazzotti durissimi, di coniugare fascino atmosferico e urgenza ritmica.
Peccato per gli eccessi di confidenza, per le sviate verso lenti soul e notturni jazz senz'altro ben curati ma in definitiva alquanto meccanici e formulaici nelle evoluzioni (il conclusivo “Run Run Run”, “The Ballad Celeste”, screziata di qualche lieve spunto elettronico, “Truth”, pur dotata di un'ottima interpretazione da parte di José James), perché ad applicare qualche sforbiciata qua e là e a disporre con criterio le poche valide deviazioni dal programma (il jazz-funk dal taglio cajun di “Castaway”, i rallentamenti in fascia trip-hop di “Mountains” e “This Is Not A Love Song”) ne sarebbe uscito un lavoro naturalmente più snello, ma comunque fedele alle imponenti intenzioni concettuali e realizzative di Price.
Malgrado un prodotto talvolta altalenante, Goldie chiude la sua imponente trilogia senza sconti e compromessi, mettendo in risalto una classe che sa ancora far valere il proprio capitale anche ad anni di distanza. Anche con tutte le sue sfuggite di mano, “The Journey Man” è ben più di quanto ci si potesse aspettare.
(31/01/2018)