Eviteremo la solita tiritera su quanto questo disco sia stato atteso, su quanta fotta gigante lo abbia accompagnato in termini di hype, di teaser, di ospitate. La evitiamo perché ne sapete già tutti a sufficienza. Allora andiamo con calma, però una cosa la diciamo subito: non è il disco dell'anno. Ciononostante, e conoscendo i Daft Punk, è il disco che dai francesi dovevi aspettarti. E non ci riferiamo al suono, quanto al fatto che il concetto di "svoltare" l'abbiano applicato a ogni loro singolo disco. Mai uguali a sé stessi, anche a costo d'apparire forzati, costruiti. Ed è questo che forse appare con più forza da questo "Random Access Memories", cioè un carattere quasi autoreferenziale e romantico. I Daft Punk, proprio loro, han tirato fuori lo spleen.
L' hype/isterismo di massa che ha accompagnato "Ram" coglie bene un nodo centrale di tutta la faccenda. E cioè quanto i Daft abbiano rappresentato per una generazione cresciuta a pane, blog, soulseek, cassettine di RadioDeejay e bitrate di bassa qualità. Generazione che ha fatto di tutto questo la sua colonna vertebrale e la sua ragion d'essere. Ecco i Daft Punk, questa moltitudine di ascoltatori voraci, prima isolati tra loro, l'hanno resa e fatta massa. Hanno unificato tutti, globalizzato l'elettronica del qui e ora. Hanno avuto la capacità di traghettare ed estendere alle masse una musica odiata da alcuni, adorata da altri. E l'hanno fatto giocandola su un terreno di difficoltà elevatissima: quello di suonare giovani, freschi, forse adolescenziali.
Ora però, dopo aver cavalcato la techno in "Human After All" (disco che, a ben vedere, ha anticipato e sdoganato tutta l'ondata di popolarità techno post-2005) rendendola "ascoltabile" per i nuovi fruitori, ecco che ora un'operazione non così differente viene fatta con questo "Ram". Con la differenza che qui si scruta verso un suono non più all'acqua di rose e giovanile, quanto adulto. Ecco pare proprio che i due, nell'impegnarsi nel descrivere le loro radici attualizzandole, abbiano tentato di dare un respiro di maturità all'album.
Hanno voluto fare un qualcosa per loro, un album che apparisse il più possibile come il loro disco da isola deserta. Lì dentro ci sono loro, forse più che in "Discovery" o "Homework". E' l'album dell'infanzia, dei ricordi, dei Seventies. "Random Access Memories" è l'album romantico dei Daft, quello meno tirato, meno ballabile. Però quello che i fan occasionali rimprovereranno loro (sculettate quasi azzerate), ecco che forse è il suo punto di maggior forza: mai come a questo giro il duo parigino ha saputo dosare magnificamente gli elementi nei lentoni. "Random Access Memories" è un vero e proprio svolgimento di "Veridis Quo" o di "Digital Love". Immaginatela dilungata, tocchi funky, citazionismo a palla e avrete questo nuovo album.
Scherzano col fuoco, si scottano spesso, però sanno di potersela giocare su questo piano. Prendete un cannocchiale, voltatelo, e avrete la perfetta fotografia di come hanno lavorato. Non, come si usa dire, "per sottrazione". Ma, al contrario, infarcendo l'album di tutto quel che appartiene a loro. Herbie Hankcok e compagnia bella, gli immaginari da cinema di serie B anni 70, sci-fi a palla. Cosa emerge allora? Una sorta di patina disco-lounge, inserti funky e prog sullo sfondo (ma nemmeno troppo).
"Random Access Memories" sembra proprio fatto per essere ascoltato nel suo svolgersi e ballato molto poco. Come se avessero voluto lanciare una sfida ai loro fan (quali, poi, ci sarebbe da chiedersi), un "noi non siamo solo come voi ci credete": il loop è abolito dalle scene, tutto è suonato analogicamente. Il mood del disco e lo spirito con il quale è stato concepito lavorano in perfetta simbiosi. E deve aver pesato parecchio anche la strizzatina d’occhi tra Guy-Manuel e Sebastien Tellier nella bollente esperienza “Sexuality”, visto che da quel contatto il parigino sembra aver tirato fuori la parte più erotica di sé e della sua musica. Le pulsazioni di “Whitin” emanano così calore e una fottuta carnalità. Ci si perde dentro ad occhi chiusi e labbra danzanti. Mentre in “Beyond” salta fuori l’orchestrona soul da preambolo a un giretto funky leggerissimo, con l’immancabile voce-vocoder in salsa lounge sullo sfondo.
L’assetto disco-funky dell’introduttiva "Give Life Back To Music" con Nile Rodgers ci suggerisce invece di spalmarci la crema solare. Si marca il territorio calpestando la sabbia e bevendo Martini. E’ la vita che scorre tra le onde negli aperitivi estivi. Nelle notti d’agosto.
Sulla medesima scia magnetica si destreggia il battito di “Instant Crush” con Julian Casablancas che palleggia alla grandissima e tanto di space-groove (alla Kavinsky, per intenderci) a far impennare allegramente anima e culo. Cosa che riesce ancora meglio nel tiro immensamente browniano di “Loose Yourself To Dance”. Dove abbiano poi pescato il compositore Paul Williams (vincitore tra l’altro di un premio Oscar nel film del 1976 di Frank Pierson “È nata una stella”) resta un mistero. “Touch” si presenta dunque come il pezzo più “elaborato” e cinematografico del lotto. Parte con uno svolazzo alla Gong (!) versione “Flute Salad”, muta nella fase centrale in un’emozionante e broadwayana soft-ballad, tra bollori analogici, l'ambient, la disco baldelliana in un pastiche che fotografa l'album più di mille parole, un leggiadro cambio di ritmo fino a calare in un vortice spaziale con tanto di cori e violini in bella mostra. "The Game Of Love" è al contrario un’istantanea dalle consuete sfumature lounge, porno all’occorrenza, graziosa e ben armonizzata quanto basta per cullare i fianchi e ben altro.
Ma il fatto che Thomas e Guy-Manuel possano permettersi qualsiasi cosa lo dimostra soprattutto "Giorgio By Moroder", una sorta di audio-documentario con la voce dello stesso Moroder, con bordate sci-fi e chitarroni in climax. In coda, “Motherboard" gioca di sospensioni e svolazzi pindarici quasi canterburiani, laddove invece Panda Bear in "Doin' It Right" riporta le lancette all'indie del 2013. La conclusiva "Contact" la butta definitivamente in una grandeur space-caciara in dissolvenza. Decollo e atterraggio.
"Random Access Memories" è il disco integralista, passatista e autoreferenziale dei Daft Punk. Ed è ortodosso e assolutamente fedele alla linea, tenta di giocare spesso su un equilibrio che a volte si spezza. Un disco che intorpidisce, adatto alla fase Rem o per i daysleepers. Obietteranno molti che "Random Access Memories" è il disco che, in fatto a suoni e concept, nessuno si sarebbe filato se non l'avessero fatto i Daft Punk. Così in effetti è, e così è giusto che sia.
E' la rivendicazione di quel che sono e di quel che sono stati. Sono tornati al Re Sole, i barocchismi traboccano. Da qualsiasi parte ti giri, vedi le parrucche a Versailles. A suo modo, anche questa è rivoluzione.
16/05/2013