Sì, lo sappiamo, lo sappiamo sin troppo bene, e forse non serve neanche ripeterlo per l’ennesima volta. Gli Strokes sono durati una mezz’oretta scarsa (quella del primo album, tanto per intenderci subito) e poi si sono letteralmente volatilizzati, autocancellando con sublime noncuranza il proprio nome dai quadernetti strappacuore di milioni di indie-cuccioli scondinzolanti svezzati dalle loro chitarre, troppo presto inghiottite nella banalità farfugliante di un secondo e terzo disco che molti hanno quasi fatto finta di non (ri)conoscere. Si direbbe quasi che nel galateo condiviso dal clan elitario degli “esperti di musica” d'oggigiorno uno dei pre-requisiti richiesti sia propriamente quello di derubricare gli Strokes come l’unico e autentico inizio della fine (anzi: di ogni fine), la più classica delle rivoluzioni rock fittizie da cui hanno tratto la loro origine innumerevoli strade che sembravano poter indicare una svolta a suo modo definitiva e che invece, col tragico senno di poi, non hanno portato da nessuna parte (dove non fossimo già stati).
Sebbene la veridicità di siffatte tesi sia più o meno da dimostrare (e non tutti sarebbero comunque dello stesso avviso), rimane fatto innegabile che la somma dei dischi solisti dati alle stampe dai singoli membri del gruppo abbia già superato di misura la discografia completa (tre smilzi episodi, come già detto) della sigla maggiore che ha regalato loro fama e invidiabile ricchezza. Dischi (quelli dei vari Albert Hammond Jr, Fab Moretti e Nikolai Fraiture, questi ultimi due a nome rispettivamente Little Joy e Nichel Eye) dalle alterne fortune, e forse più idonei ad alimentare rimpianti che non a risollevare uno sguardo fiducioso puntato dritto verso il futuro, ai quali si somma ora quello del leader maximo, sua eminenza grigia Julian Casablancas.
Prodotto da Jason Lader (con qualche amichevole intervento di Mike Mogis, del giro Bright Eyes e dintorni) e registrato tra New York, Los Angeles e il Nebraska (tre Americhe radicalmente diverse compresse in una sola, come dire), “Phrases For The Young” parte da una citazione di Oscar Wilde per andare a schiantarsi sin da subito contro una parete luminosa di pop in quintessenza. Con queste sue otto composizioni autografe il Casablancas si dimostra infatti un Casanova della melodia istantanea, logorroico seduttore del ritornello facile, sottile manomorta del motivetto malizioso e traditore. Squadernando il suo poker d’assi che dagli A-Ah si allunga sino ai Blondie, passando per Cars, Yazoo, Hall & Oates, Madonna e Frankie Goes To Hollywood, anche Casabalncas ha redatto con grafia smangiucchiata la propria enciclopedia tascabile delle meraviglie del basso intrattenimento canzonettaro, passando in rivista e accatastando tonnellate di (spassosissimo) ciarpame pop da radio FM inceppata e rintronante.
Dal singolo “11th Dimension” a "River Of Brakelights" (notevole), intersecando la gommapane pop vischiosa virata funk di “Left & Right In The Dark”, il synth-country con apertura dreamy di “Out Of Blue” o le pause contemplative di “Glass”, il disco è tutto un laborioso e ultrapatinato infiocchettarsi di tastierine puerili e chitarre fluo in perfetto stile vetero-strokes, sposate a ritmi ballerini che chiamano il dancefloor, ma sempre con voce pacifica e rilassata.
Non stiamo parlando di un lavoro nel complesso clamoroso, anzi, ma l’impressione che il capobranco della band newyorchese più chiacchierata del decennio provi ancora un sincero divertimento a stare davanti a un microfono, inventando le sue fandonie di poco conto con stile piacevolmente cialtronesco e trucchetti d’infima lega, ci rincuora alquanto e ci lascia ben sperare per un futuro che potrebbe del tutto a sorpresa rivelarsi meno amaro del previsto.
18/11/2009