Bright Eyes - Conor Oberst

Bright Eyes - Conor Oberst

Un sogno a occhi aperti

Bright Eyes è il nome dietro al quale si cela il talentuoso (ex) enfant prodige Conor Oberst, nuovo fenomeno dell'indie-rock americano. Partito dalla consueta gavetta underground, timido e sfrontato al contempo, l'efebico golden boy di Omaha ha scalato in fretta i gradini del successo. Fino ad arrivare persino a espugnare la vetta delle classifiche di Billboard. Ritratto di un'atipica folkstar dei nostri tempi

di Marco Delsoldato+AA.VV.

Omaha. Inizia tutto qui, nella città più popolosa del Nebraska. Attitudine delle persone, questioni climatiche o casualità. Importa poco. A Omaha nasce la Saddle Creek, cresce, si sviluppa, gira il mondo e crea un culto. Poi torna a casa e si moltiplica: Tim Kasher (Cursive, The Good Life) e Son, Ambulance. Diventano della partita anche Azure Ray, The Faint, Now It's Overhead e altri. Quella città non mostra più solo sé stessa. Illumina anche chi sa amarla. E Conor Oberst è il suo faro abbagliante: insolente e passionale, sfrenato e incredibilmente attraente. Talentuoso. Sapendo di esserlo.

E' tutta una questione di Dna, non può essere altrimenti. Tanti a quattordici anni sognano di formare un gruppo. Pochi ci riescono compiutamente. Lui sì. Formò i Commander Venus e scrisse il primo capitolo di un romanzo che l'anno prima aveva avuto il suo prologo: chi aveva tredici anni nel 1993, in Italia, stava terminando la scuola media, Conor registrava il suo primo demo tape sul quattro piste del padre. Non tutti i padri hanno un quattro piste. Mr.Oberst lo aveva. Poi dicono che la famiglia non è importante…
La storia è avviata e per qualche tempo resta doverosamente in disparte rispetto al vero circuito underground statunitense. Ma solo in parte. I Commander Venus incidono due album, in giro si sentono, qualcuno inizia a scommettere sul talento di quel ragazzino. Lui è uno di quelli che ci punta. Non può fare altrimenti, deve scrivere canzoni per sentirsi vivo: "Ho scritto centinaia di brani. E' qualcosa che devo fare per tutto il tempo. Come respirare, mangiare; ne ho bisogno per sentirmi a posto". E allora Conor scrive, mischiando il folk all'inclinazione indie che porta dentro, rischiando di apparire adolescenziale per un solo motivo: è un adolescente. Ama l'impostazione lo-fi, perché gli piace, certo, ma anche perché: "...usavo qualsiasi apparecchiatura fosse disponibile". E' un impeto raro, incontrollabile, ad alto rischio di eccessi. Per soddisfare i suoi bisogni suona la batteria in alcuni 7" coi Park Ave, poi decide di fare da solo.


Nel 1997, per Saddle Creek (sarà sempre così), esce A Collection Of Songs Written And Recorded 1995-1997. Inizialmente doveva essere a suo nome, ma la timidezza conduce alla sigla Bright Eyes. Per chi ancora non ne aveva sentito parlare è l'alba: si intravede un ragazzo che vuole, con la musica, ".. comprendere il mondo e sé stesso..". C'è tanta incertezza quanto immenso sentimentalismo in quei brani. La voce è sgraziata, intollerante nel passare dai sussurri soffusi alle grida disperate. La melodia è limpida, cristallina, eppure sporcata da una malinconia che vorrebbe appannarla. Non ci riesce. Le canzoni tendono a essere interrotte, poi ripartono. Diventerà un punto fermo del suo stile. All'incipit strumentale di "The Invisibile Gardener" seguono episodi già caratterizzanti per attitudine (il caracollare di "Patient Hope In New Snow" e "I Watched You Taking Off") e atteggiamento (il cantato ad alto tasso alcolico in "Saturday As Usual" e la tormentata apatia di "The Awful Sweetness Of Escaping Sweat"). Nell'insieme la qualità non è intaccata da quantità (20 canzoni) e inevitabile eterogeneità: si respira aria di K Records ("Failling Out Of Love"), ambiguo minimalismo ("Exaltation On A Cool, Kitchen Floor", "Puella Quam Amo Est Pulchra"), amorevole bassa fedeltà ("A Few Minute On Friday", "Supriya"), cantatutorato trattenuto ("How Many Lights Do You See?", "A Celebration Upon Completion") e schietto ("One Straw (Please)").

Conor si svergina dinnanzi al mondo. In media capita una sola volta, eppure per lui non sarà l'ultima. Nel 1998 esce il primo vero album, Letting Off The Happiness, ed è la premessa al clamore successivo. Negli ambienti indipendenti americani diventa un caso, il nome, grazie a Wichita Rec., gira anche in Europa. E' un disco compiuto, in cui l'autoindulgenza (in conclusione ci sono quasi venti minuti di chitarra in distorsione) diventa un marchio di fabbrica che non scandalizza chi lo ama, perché parte integrante di un personaggio atipico. Chi invece non lo sopporta si trova in mano, casualmente, la sola carta giocabile. Questo è il vero album in bassa fedeltà di Oberst, vicino a certo cantautorato statunitense, ma personale e difficilmente etichettabile. Chitarre elettriche, acustiche, rumori urticanti e tastiere per dieci episodi oltre il concetto di intimismo e mai tediosi in una patetica rassegnazione. Un indie folk di fine millennio ("June On The West Coast" e "A Poetic Retelling Of An Unfortunate Seduction" diventano immediatamente dei classici), esaltato da un ragazzo impulsivo e drammaticamente passionale. La poetica urgenza comunicativa di "If Winter Ends", la stritolante "Padraic My Prince", la dolcezza fanciullesca in "Contrast And Compare" (duetto con la splendida Neely Jenkins): tripletta iniziale da brividi, destinati a proseguire con l'indiavolata "The City Has Sex" (punk-folk?) che sfocia nella pacatezza di "The Difference In The Shades", a sua volta inglobata dalla surreale "Touch". Non viene dimenticata una leggera patina di sporcizia pop ("Pull My Hair"), mentre la conclusione di "Tereza And Tomas" mostra un'assurda consapevolezza nella scrittura. I sussurri superano le grida, ma è il sottile filo di disperazione, sempre sul punto di spezzarsi, a rendere l'impulsività un'arte da mostrare al mondo.

La conferma è data dall'Ep Every Day And Every Night (1999), in cui i testi di chi non si vergogna di avere quasi vent'anni si accompagnano a trame strumentali tanto semplici quanto affascinanti ( l'acustica "A Perfect Sonnet" e i battiti emotivi di "A New Arrangement").


E' l'incipit del capolavoro, quel Fevers And Mirrors (2000) che, in copertina, ha uno specchio in cui è riflesso un vuoto malessere esistenziale. L'angoscia diventa consolazione, transitando per una disperazione ribelle. Sono storie d'amore, tradimenti e anime spezzate. Sono racconti per cuori persi, delicati nell'approccio e grezzi nell'urlare addio. Sono lacrime cantate. Collaborano, come accadrà spesso, amici del circuito di Omaha (nell'occasione, tra gli altri, Kasher e Knapp), per un lavoro che caratterizza, inevitabilmente, un periodo. Oberst è un Oldham vicino a noi, coraggioso nel mostrarsi nudo a chi abbia la pazienza di ascoltarlo. L'impatto dell'iniziale "A Spindle, A Darkness, A Fever And A Necklace", gemella sonora della conclusiva "A Song To Pass The Time", è un brivido straniante che percorrerà tutto l'album, a volte con un'andatura fanciullesca, "The Movement Of A Hand", in altre occasioni caracollando sui lati della strada, "When The Curious Girl Realizes She Is Under Glass". "Something Vague" è il manifesto di un album privo di difetti, "A Scale, A Mirror, And Those Indifferent Clocks" ne è la carezza, "The Calendar Hung Itself" lo schiaffo, "Arienette" la condizione emotiva. L'assidua intensità può essere desolata ("The Center Of The World"), impetuosa ("Sunrise, Sunset") o frenetica ("Haligh, Haligh, A Lie, Haligh"), tuttavia è sempre consapevole e sicura dei propri mezzi (a conclusione di "An Attempt To Tip The Scales" per soddisfare chi lo accusa di arroganza, è inserita un'intervista). La bellezza di Fevers And Mirrors è accecante. E sincera.


Passa poco meno di anno e il Nostro torna in circolazione. Oh Holy Fools è un lavoro a metà con Son, Ambulance (il fido Joe Knapp). Una scontata conferma sviluppata in quattro canzoni. La solita voce spezzata, sempre vicina all'autodistruzione, immersa in una semplicità disarmante: "No Lies, Just Love" raggiunge vette di commozione che altri cantautori non riescono nemmeno a sfiorare. Nel 2002 Conor, pur non trascurando l'attività principale (esce l'Ep There Is No Beginning To The Story), si mette con Denver Dalley (Statistics) e forma i Desaparecidos. Forse una stravaganza, comunque un progetto che mette in riga svariate formazioni similari. Read Music Speak Spanish è indie-rock tirato, a stretto confine con l'emo-core schietto, dove il nostro canta come sempre, solo urlando di più. Le trame vagano fra Dinosaur Jr., Pixies e At The Drive In (si ascoltino con attenzione "Man And Wife The Latter (Damaged Goods)" e "Manana"), con passaggi quiete/tempesta ricchi di deliri schizofrenici. Il gruppo alle spalle picchia il giusto, i testi attaccano una certa America legata al consumismo, la mente abbandona, per un attimo, la sensibilità assoluta e si sfoga senza ritegno. Riuscendoci.


A pochi mesi di distanza arriva il nuovo album griffato Bright Eyes. Lifted Or The Story Is In The Soil, Keep Your Ear To The Ground è il connubio fra giovinezza e maturità. L'attitudine melodica è maggiormente espressa ( "You Will. You? Will. You? Will. You? Will"), mentre quella folk (classica in "Make Me War") si mischia a un approccio quasi barocco (la coda strumentale di "Don't Know When But A day Is Gonna Come"). Gli archi assumono un valore fondamentale, abbracciandosi a un country trasportato nella contemporaneità ("Laura Laurent"). La tipica indolenza affascina ("Lover, I Don't Have To Love"), come la consueta e secca rassegnazione ("Waste Of Paint"), ma schizzano fra epicità trattenuta ("False Advertising", arrangiata sino all'eccesso, ma interrotta con ironia a metà), impressioni cupe ("Lover I Don't Have To Love") ed emozioni allo stato brado ("Don't Know When But A Day Is Gonna Come"). In Lifted… sembra esserci più lucidità e meno istinto (il doppio volto di "Nothing Get's Crossed Out", minimale e pomposo), quantunque le fondamenta restino le stesse (l'immediatezza esplosiva di "Method Acting", la filastrocca da bambini cresciuti "Bowl Of Oranges"). Petulante per alcuni, meraviglioso senza condizioni per altri. Le certezze sono la superba capacità di scrittura e il fenomenale gusto melodico.


Nel 2004 arriva il duetto con i Neva Dinova, One Jug Of Wine, Two Vessels (Crank!), ma soprattutto il "Vote For Change Tour" con Bruce Springsteen e i REM, in previsione della sfida elettorale fra Bush e Kerry. I concerti non porteranno alla vittoria democratica, tuttavia Oberst sfrutta l'occasione, e i singoli "Lua" e "Take It Easy", che anticipano il doppio album del gennaio successivo (uno acustico, l'altro elettronico), arrivano in vetta alle classifiche di Billboard.


I nuovi lavori discografici non sono che l'ennesima conferma di tutte le caratteristiche sin qui espresse. Pochi avrebbero giocato in contemporanea le due carte, Conor sì. Sia perché poco gli importa di certi giudizi sia, presumibilmente, perché sin dalla partenza era convinto del valore delle proposte. Non sbagliava. I'm Wide Awake, It's Morning rappresenta la sua anima, quella fatta di canzoni realizzate con straordinaria naturalezza e puntuali nel completarsi a vicenda. Prevalentemente acustico, è un ritorno a un folk più puro, che abbandona alcuni eccessi del disco precedente. Una forma tradizionale, a tratti country, che esalta tenerezza e passione, fra bevute e pensieri tormentati. "Lua" colpisce in questo modo, con una semplicità tremolante nei suoi chiaroscuri e inesorabile nell'intrufolarsi fra le pieghe di cuori vogliosi di pulsare. E' il canovaccio di un album che elimina i dubbi in quanti, con peccaminosa ingenuità, ritenevano impossibile un livello cantautorale qualitativo come nel passato. Il ragazzo li irride, passando con impressionante tranquillità da momenti più canonici ("We Are Nowhere And It's Now" accompagnato da Emmylou Harris come in "Landlocked Blues" e "Old Soul Song (For The New World Order)") ad altri in cui l'incidere si movimenta su un modello Gordon Gano ("At The Bottom Of Everything") oppure con slanci irruenti (la conclusiva "Road To Joy").

Una genuinità invidiabile che si tramuta in fasullo sperimentalismo in Digital Ash In A Digital Urn, dove, a differenza del gemello, risaltano più i singoli brani rispetto alla globalità. Solo sotto questo punto di vista risulta inferiore, ma entrando nel dettaglio il livello è ugualmente superlativo. Il limite di legare la tipica vena a scelte strumentali tendenziosamente attuali viene annebbiato da arrangiamenti convincenti (collaborano Jimmy Tamburello, Postal Service, e Nick Zimmer, Yeah Yeah Yeahs) abbinati alla scontata capacità di scrittura. Elettricità ed elettronica assumono il ruolo di protagoniste, ma nulla si perde in grazia espositiva. Se alcuni episodi non passeranno alla storia, la bellezza di "Gold Mine Gutted" (sorta di tributo ai Cure, di cui Oberst si è sempre professato fan), i panorami sconfinati di "Hit The Switch", il pop indietronico d'autore di "Take It Easy (Love Nothing)" e, in modo diverso, quello di "Arc Of Time (Time Code)" diventano punti fermi di quella che, per molti, è la contemporaneità di certa musica. Senza alcun limite, con alta dose di menefreghismo, il ventiquattrenne di Omaha continua a inondare il mondo di un talento oggi non riscontrabile in altri personaggi. Un fiume in piena, che difficilmente si arresterà nei prossimi anni.

Il successivo Cassadaga (2007) è trapiantato nella sfera autorale americana più pura e studiato a tavolino con perfezione certosina. Prosegue l’evoluzione verso lidi sempre meno di nicchia e presumibilmente meno emozionali, eppure ancora ricchi di ispirazione. Solo più formale.
La certezza è una scrittura ormai consapevole, senza necessità di appigliarsi ad alcun paragone per essere caratterizzata. Il resto è folk costruito per essere ascoltato solo nella sua interezza, privandolo di eventuali clamori da facile immediatezza.
Tanti ospiti (M.Ward, John McEntire, Janet Weiss, oltre la solita cricca di casa Saddle Creek) per 13 episodi in cui la melodia non vuole subire troppi scossoni: pallide aperture surreali in salsa country (“Middleman”), aperture rock a dir poco classicheggianti (“Classic Cars”), la doverosa epica (“Clauradients”) e ballate trattenute per potenziali colonne sonore (la conclusiva “Lime Tree”). Un tuffo nel passato, ma appena accennato, nel caracollare di “I Must Belong Somewhere” e nella conosciuta “Four Winds”, eppure proprio in questi momenti si comprende come, per convincere e convincersi pienamente, a Oberst manchi oggi un pizzico di senso della misura.
Cassadaga è un buon disco, ma la mancanza delle folgorazioni nevrotiche di ieri non può che far auspicare una nuova miscela, in cui tutto si mischia per esaltare quelle qualità talmente palesi da poter cancellare ogni impressione negativa.

Avvertendo forse il peso del moniker Bright Eyes, Oberst se ne spoglia è dà alle stampe nel 2008 un nuovo disco, intitolato semplicemente Conor Oberst e siglato insieme alla Mystic Valley Band.
Due le novità principali: maggiore spazio al lato elettrico e un occhio di riguardo alla band, che conferisce, soprattutto in fase di arrangiamento, una maggiore coralità. Insomma, non sembra essere un disco solista di Conor Oberst ma appare davvero come una collaborazione con il gruppo.
“Cape Canaveral” è la solita ballata voce-chitarra ascoltata fino alla morte, ma gli arrangiamenti e soprattutto l’atmosfera lo rendono un bell’espediente per passare il tempo. Altrettanto buona è la chiusura con “Milk Thistle”: nonostante la melodia sia riciclata in maniera quasi imbarazzante, quel basso e soprattutto la voce di Conor riescono a comunicare un senso di appagamento, di caldo avvolgimento. L'omaggio a Dylan si palesa invece in pezzi come “Moab” e, soprattutto, “Get-Well-Cards”.
Conor Oberst è un disco per affezionati, ma mostra anche una crescita complessiva del suo autore, che si riflette sia sul lato tecnico (gli arrangiamenti curati, i particolari sempre più affilati), sia sul lato emozionale.

Se Conor Oberst voleva essere una sorta di rinascita, Outer South (2009) dovrebbe rappresentare la conferma. Il fatto è che il territorio in cui si muove è ostico: le vie del folk-rock non sono infinite, anzi. Allora questa nuova versione di Conor finisce per essere una copia sbiadita di decine di gruppi che, nell'ultimo decennio, hanno vissuto sulle spalle del Bob Dylan elettrico. Eppure, Conor Oberst sa ancora scrivere canzoni. Si prenda "Nikorette", con la linea melodica potente sostenuta dall'elettrica. O la solitaria e introspettiva "White Shoes". Le melodie di Oberst sono pulite, efficaci, catchy. Poi ci sono gli arrangiamenti: elaborati, intricati eppure semplici e per nulla asfissianti, lasciano liberi i membri della Mystic Valley Band di fare i loro comodi. Per esempio, l'elettrica di Nik Freitas in "Slowly (Oh So Slowly)". Oppure ancora, l'organo di Nathaniel Walcott in "Air Mattress". La complicità che regna tra gli strumenti e la voce, poi, ricordano veramente i fasti di "Blood On The Tracks".
Sono proprio questi dejà-vu, però, a rappresentare anche il difetto più ingombrante del disco: Oberst e la sua band guidano con il pilota automatico su strade il cui paesaggio conosciamo già molto bene. Inevitabile citare Dylan, ma anche il nome Wilco quando ascoltiamo "Nikorette", "I Got The Reason #2", "Difference Is Time". Un disco energico, ben scritto e arrangiato. Peccato, però, che contenga materiale riciclato, masticato e riscaldato da tutte le band folk-rock del millennio.

Dopo la partecipazione al supergruppo Monsters Of Folk nel 2009, il ritorno di Oberst al moniker Bright Eyes, attesissimo da fan e critica, ha il sapore dolceamaro dell'addio a quella che per anni è stata la sua creatura artistica prediletta. L'ultima testimonianza a nome Bright Eyes è The People's Key (2011), album indica un cambio di rotta e un arricchimento nella musica di Oberst, che però sembra accoglierci come all'ingresso dell'appartamento di un vecchio amico che non vedevamo da anni.
L'autore del Nebraska prende le distanze dal folk caldo e ruvido degli ultimi lavori per tornare ad abbracciare il pop contaminato di elettronica che aveva sfiorato in Digital Ash In A Digital Urn. Una metamorfosi che sa di reazione ad anni di imbrigliamento in un ambito, quello folk, che forse stava stretto al genio di Oberst.

Tutto è nuovo e contemporaneamente già sentito nei Bright Eyes degli anni 10, a partire dalla intro recitata dall'amico Denny Brewer. Ma basta sentire la voce dolente di Oberst per tornare a emozionarsi come sempre è successo negli anni. E di pezzi irresistibili, amche se forse non come in passato, ce ne sono anche in questo disco. Se "Jejune Stars" sembra fatta apposta per invadere le radio americane, i momenti migliori si trovano nella pancia del disco: dalla tweedyana "Haile Selassie" al country-folk etereo di "A Machine Spiritual (In The People's Key)", fino all'irresistibile uno-due di briosità pop "Triple Spiral"-"Beginner's Mind", fino alla ballata al piano "Ladder Song".
Ma sembra mancare qualcosa. Non nella poesia dei testi, in particolare nell'eccesso di orpelli dei quali viene caricata la musica, a volte leziosa e poco incisiva. Se di addio si deve trattare (pare che questo sia l'ultimo lavoro a firma Bright Eyes per Oberst), non è certo il migliore nel quale si poteva sperare.

A dieci anni di distanza da quando i Bright Eyes scalavano le classifiche di Billboard con la memorabile accoppiata di singoli del 2004, Oberst sembra ritrovarsi con un grande avvenire dietro le spalle. Così, ormai convolato a nozze e dismessi i panni ingombranti dell’iperprolifico enfant prodige, decide di affrontare con il suo terzo album solista, Upside Down Mountain, la sfida più difficile: quella di misurarsi con il passato.
È la veste musicale a segnare la differenza, declinando l’impeto folk di un tempo secondo un canone westcoastiano che suona più affine alla moda neo-hippie. Una direzione su cui pesa in maniera decisiva la mano di Jonathan Wilson in veste di co-produttore, ma anche l’influenza delle allieve First Aid Kit, da sempre fan dichiarate di Oberst e presenti con le loro armonie vocali nella maggior parte dei brani di Upside Down Mountain.

Non c’è da sorprendersi, allora, della vena Seventies che percorre un po’ tutto il disco. Eppure, più la cornice si arricchisce più l’enfasi sembra prevalere sulla misura. Il lato migliore, Upside Down Mountain lo mostra allora nei momenti più asciutti. Quando poi la nudità acustica torna a fare capolino in “You Are Your Mother’s Child”, Oberst sembra voler scrivere la “First Day Of My Life” della maturità, raccontando il compiersi dell’amore nel momento del distacco attraverso gli occhi di un genitore che guarda crescere il figlio, e sa di doverlo un giorno lasciare andare per la sua strada.
“Sono come uno che vorrebbe essere un camaleonte ma non ci riesce”, riflette Oberst. “Sono sempre piuttosto riconoscibile, anche quando penso di avere indossato qualche costume. Ma mi piace lo stesso mettermi dei costumi”. Ancora una volta, è proprio la riconoscibilità la forza di Oberst. Se non riesce nell’intento di ritrovare l’ispirazione di un paio di lustri prima, di certo Upside Down Mountain riscatta quantomeno i deludenti esiti del precedente Outher South. Ma prima o poi Conor dovrebbe provare a lasciar perdere i costumi. Essere sé stessi, a volte, è la via più facile per ritrovarsi.

La seconda metà degli anni Dieci è particolarmente produttiva. Nel 2015, sia assiste alla rinascita dei Desaparecidos con Payola, un onesto disco punk ricco di rumore, invettive sconclusionate e belle melodie. Seguono a stretto giro due album solisiti, l'acustico Ruminations (2016) e il suo remake elettrico Salutations, ma è sopratutto il primo dei due a lasciare il segno: un disco ruvido e viscerale in cui Conor, accompagnato solo da un'acustica, un pianoforte e un'armonica, è lasciato solo davanti alle sue stesse confessioni. Ormai adulto, il cantautore rilegge e affronta le paure, le emozioni e le cicatrici della sua vita (tra cui la morte fratello Matthew, dipendente dall'alcol, a fine 2015), riversandole in alcune delle canzoni migliori che abbia mai scritto ("Tachycardia", "Mamah Borthwick"). È il suo album più bello dai tempi dell'omonimo del 2008, ed è anche il più sofferto e sincero in carriera. 
A inzio 2019, a sopresa, esce Better Oblivion Community Center, un nuovo disco per una band nuova di zecca, capitanata da Conor e dalla cantautrice Phoebe Bridgers. È un album asciutto e veloce, di canzoni semplici e spontanee, convincente nelle sua naturalezza, per alcuni anche fin troppo "tradizionale". Da non perdere sono "Didn't Know What I Was In For", "Service Road" e la splendida e sconosciuta "Dominos", cover di Taylor Hollingsworth, amico di Oberst ed ex-turnista della Mystic Valley Band . 

Ma nel 2020, inaspettatamente, è di nuovo il turno dei Bright Eyes. L'ex one-man-band è ormai un nucleo solido di tre musicisti - Conor, Mike Mogis, Nate Walcott - che compongono musica in piena sinergia. Considerando che finora la scrittura era sempre stata esclusiva del solo Oberst, non è un dettaglio da poco. Il loro primo album dopo anni di pausa, Down In The Weeds, Where The World Once Was, suona come una rinascita. 
Piuttosto che puntare su una svolta radicale, i Bright Eyes optano per una summa degli stili adoperati nella loro lunga carriera. Già dai quattro singoli che precedono il disco, salta all'orecchio la forza del nuovo lavoro corale, evidenziato da partiture strumentali e ritmiche molto più ricche che in precedenza. E l'impronta autoriale di Oberst è incofondibile, orientata al solito su melodie circolari e su una perenne angoscia pre-apocalittica, ma che in controluce rivela molta più vitalità di quanto mostri di primo acchito. Svettano qua e là dei cori soul che rafforzano l’impatto della voce del cantautore, oltre ai frequenti interventi orchestrali che ricamano le armonie delle canzoni.

Alcuni brani hanno un gusto sinfonico (“Mariana Trench”, “Dance And Sing”, “Comet Song”, addobbata di fiati decadenti), mentre altri, come “To Death's Heart” e “Pan And Broom” (che usa lo stesso sample da cui Drake tirò fuori “Hotline Bling"), si rivestono di una patina brizzolata di vecchia elettronica e beat analogici. Sembra di tornare in aria di Cassadaga con “Calais To Dover”, mentre si raggiungono inediti livelli di appeal radiofonico (in senso positivo) con “Just Once in the World”. I colpi di scena si trovano poi in un’autunnale “One And Done”, con i suoi intermezzi strumentali conditi da un'uggia mitteleuropea (che ritorna, sotto forma di glockenspiel, anche nella dolcissima e struggente “Tilt-A-Whirl”, dedicata al fratello deceduto), e in “Persona Non Grata”, con i suoi colpi al cuore di cornamusa che irradiano un calore abbagliante, mentre il brano si arricchisce gradualmente di accordi e di sfumature emotive. Palpitanti in maniera diversa sono “Mariana Trench”, arricchita da orchestrina e ottoni, e “Forced Convalescence”, prima ciondolante poi ariosa e sinfonica, due canzoni indie-rock rotonde ed efficaci in cui risaltano la tensione e gli slanci peculiari del songwriting del cantautore di Omaha. 
 
I traumi, le insicurezze, la ricerca di conforto di Conor Oberst si tingono quindi di nuovi e romantici colori. È impossibile, tra le mille parole rovesciate in ciascuno dei brani, non scovare un'immagine che non sia passata per la testa in una giornata particolarmente emozionante, o non ritrovare qualche sentimento che portiamo dentro di noi, aggrappato al cuore o alla gola. I Bright Eyes sono tornati con quello che probabilmente era il miglior album che potessero scrivere: quattordici canzoni pop disilluse e sincere, perfette per questi tempi incerti, pronte ad accompagnarci chissà dove. 

Per Five Dices, All Threes (2024), Conor Oberst e i suoi Bright Eyes non si sono fatti attendere tanto, come accadde con il precedente Down In The Weed, Where Once The World Was – arrivato dopo uno iato lungo ben 9 anni. Ne sono trascorsi infatti solo 4, segno di una ritrovata urgenza, comunque senza troppa fretta, certo.
La direzione intrapresa questa volta è quella di un ulteriore avvicinamento alla tradizione, mediante una avvincente rivisitazione in chiave indie del folk-rock americano. Five Dices, All Threes vede i Bright Eyes allontanarsi sempre di più dalle cacofonie dei loro primordi, quando erano vicini a progetti come Microphones e Mount Eerie, e addivenire sempre più limpidi e attigui, invece, ai Wilco come agli ultimi Fleet Foxes. Al netto di qualche piccola increspatura rumorista, l’undicesimo disco della band di Omaha vede regnare il pianoforte, inserti d’archi e dolenti chitarre blues (davvero struggenti in “Tiny Suicides” e la confessionale “Hate”).
Il pianoforte, romantico e incalzante, domina le varie “Bells & Whistles”, “El Capitan”, con uno splendido finale allietato da caldissimi ottoni, e soprattutto la sorprendente “Real Feel 105” – che culmina con il piano che si lancia in un crescendo senza gravità in compagnia del mandolino. Immagini commoventi, attimi di vita che scorrono nel cinematografo della memoria, permeano, dense di una ritrovata positività, anche le pregevoli collaborazioni. Cat Power spalleggia Conor Oberst in “All Threes” e le due voci sembrano nate per risuonare insieme; mentre “Rainbow Overpass” con Alex Orange Drink è il frammento più caotico e straniante dell’opera. Arrivata “The Time We Have Left” è tempo di indossare l’impermeabile e cantare shalalala sotto la pioggia con Matt Berninger, impensabilmente leggero e dinoccolato.
Un insospettabile ottimismo echeggia anche nel motivetto lieto e insistente il giusto di “Trains Still Run On Time”, ennesima, riuscitissima canzone della collezione. Non poteva mancare però qualche bislaccheria, e così ecco “Spuns Out” decostruire alla maniera di Beck quanto assemblato fino al suo avvento, deformando la materia folk attraverso scratch ai piatti e disturbi elettronici.
Siamo lontanissimi dai tormenti e dalle invenzioni di dischi come Fevers And Mirrors o I’m Wide Awake, It’s Morning, ma Five Dices, All Threes indica come Oberst abbia scelto la strada giusta per una maturità canonica e misurata, ma capace di sorprendere quanto basta ed emozionare come sempre.

Contributi di Mattia Braida ("Conor Oberst", "Outer South"), Marco Pagliariccio ("The People's Key"), Gabriele Benzing ("Upside Down Mountain"), Tommaso Benelli ("Payola", "Ruminations", "Salutations", "Better Oblivion Community Center", "Down In The Weeds...") e Michele Corrado ("Down In The Weeds...", "Five Dices, All Threes")

Bright Eyes - Conor Oberst

Discografia

BRIGHT EYES
A Collection Of Songs Written And Recorded 1995-1997 (Saddle Creek, 1997)

6,5

Letting Off The Happiness (Saddle Creek, 1998)

8

Every Day And Every Night (Ep, 1999)

7

Fevers & Mirrors (Saddle Creek, 2000)

9

Oh Holy Fools (The Music of Son, Ambulance and Bright Eyes) (Saddle Creek, 2001)

7

There Is No Beginning To The Story (2002)

6,5

Lifted or the Story Is in the Soil, Keep Your Ear to the Ground (Saddle Creek, 2002)

8

One Jug Of Wine, Two Vessels (with Neva Dinova) (Saddle Creek 2002)

6,5

I'm Wide Awake, It's Morning (Saddle Creek, 2004)

8

Digital Ash In A Digital Urn (Saddle Creek, 2004)

7

Cassadaga (Saddle Creek, 2007)

6,5

The People's Key (Saddle Creek, 2011)6,5
Down In The Weeds, Where The World Once Was(Dead Oceans, 2020)7,5

Five Dices, All Threes (Dead Oceans, 2024)7,5
CONOR OBERST
Conor Oberst (Saddle Creek, 2008)

7

Outer South (Wichita, 2009)

5

Upside Down Mountain (Nonesuch, 2014)

6,5

Ruminations (Nonesuch, 2016)7,5
Salutations (Nonesuch, 2017)6
DESAPARECIDOS
Read Music Speak Spanish (Saddke Creek, 2002)

7,5

Payola(Epitaph, 2015)

7

BETTER OBLIVION COMMUNITY CENTER
Better Oblivion Community Center (2019)7
Pietra miliare
Consigliato da OR

Bright Eyes - Conor Oberst su OndaRock

Bright Eyes - Conor Oberst sul web

Sito ufficiale
Testi
Sito Saddle Creek