Intervistare Jonathan Wilson è sempre un grande piacere. È una persona mite, riflessiva, ma anche energica e spassosa. Competente e genuina come pochi. Non ha perso l’attitudine vagamente hippie di sempre, ma con la maturità il suo sguardo sul mondo è diventato più concreto, quasi che idealismo e disincanto, sobrietà e ambizioni siano sottoposti a un impegno di continua mediazione. A un equilibrio così composto e appagato ha ultimamente corrisposto il suo disco in assoluto più viscerale, vivace ed esoterico. Un Jonathan entusiasta e sorridente ce lo racconta in collegamento dalla sua residenza d’arte e vita di Topanga.
Questa è la seconda volta che ho il piacere di parlare con te. La prima fu più di dieci anni fa, subito dopo l’uscita di “Gentle Spirit”. Avevo visto un tuo concerto acustico per due chitarre e ci fermammo a parlare di musica, di Laurel Canyon, delle canzoni del disco. Mi viene naturale chiederti in che cosa ti senti diverso dal Jonathan di allora. Cambieresti qualcosa del tuo percorso?
Mi fa davvero piacere incontrare una persona che mi segue da tempo. Sembrano trascorse ere geologiche da “Gentle Spirit”. Nonostante le esperienze che avevo maturato negli anni precedenti, considero quel disco praticamente un esordio, o almeno l’inizio di tutto ciò che è stato dopo a livello di carriera solista. Credo che il viaggio nella musica che ho fatto fin qui sia stata la cosa più bella che la vita potesse darmi. Non cambierei nulla. Le mie canzoni sono sempre state profondamente legate a me come persona. Questo sono io, questi sono i miei pezzi e non c’è nulla che potrei veramente cambiare di ciò che è stato, posso solo guardare avanti, come musicista e come uomo.
Nonostante questa coerenza di fondo i tuoi dischi fanno registrare delle variazioni anche sostanziali.
In realtà, credo che le somiglianze siano molto più sostanziali delle differenze. C’è chi può amare la mia musica per questo, chi invece mi troverà magari prevedibile, ma per me è una questione di identità. Possono cambiare il mood, o il gusto da un disco all’altro, ma il mio rapporto con il piacere, anzi con il bisogno, di imbracciare una chitarra e scrivere una canzone è lo stesso di quando ero ragazzino. Lo sguardo sul mondo esterno e interiore è il mio.
Tre anni fa mi colpì molto la scelta di un disco asciutto e live in studio come “Dixie Blur”. Anzi, guardando a ritroso mi sembra che la ricchezza di questo disco sia una esplosione di energia dopo il raccoglimento e l’intimità di quello. Sei d’accordo?
Sì, assolutamente. È quella la dinamica. E se vuoi era stato il moto contrario quello che mi aveva portato a quel disco venendo da “Fanfare” e “Rare Birds”. Intorno a “Dixie Blur” avevo voluto creare una sorta di ecosistema. La vita di un musicista si sviluppa anche attraverso le risposte che si ritrova a dare alle situazioni che ha scelto di vivere e agli obblighi che ne derivano. Per le registrazioni di “Dixie Blur” per la prima volta non mi trovavo nel mio home studio, con la direzione completa della produzione, ma a Nashville, insieme a Pat Sansone, in uno studio che aveva i suoi costi, i suoi tempi, le sue scomodità anche di orario. Tutto questo allora diventò una sorta di impulso creativo. Le altre aspirazioni e tante idee che avrebbero portato fuori strada il lavoro fatto in quella situazione però non sono andate perse. E le puoi ritrovare in questo disco.
“Eat The Worm”, a dispetto della sua complessità, suona diverso da “Fanfare” e soprattutto da “Rare Birds”. Il suono mi sembra più emotivo, più leggero e anche più imprevedibile. Da cosa si è originata questa particolare atmosfera?
Sono canzoni nate in solitudine e in uno stato creativo senza limiti di tempo. Qui a Topanga posso disporre di uno studio mio, il Five Star. Lontano da Los Angeles e dai ritmi obbligati della città posso fruire di un silenzio non ricavato, ma reale. Non c’era nemmeno il rumore dei pensieri a ricordarmi un impegno o un orario da mantenere. Ci siamo io, gli strumenti e il mio microfono. Con tutto il tempo che ci vuole. Ho prodotto tutti i pezzi e mi sono fatto da ingegnere del suono. Perché queste canzoni prendessero il volo era necessaria esattamente questa libertà.
Nonostante tu abbia suonato gran parte degli strumenti, con te ci sono Jake Blanton al basso e Drew Erickson alle tastiere. Drew è noto più per il suo lavoro dietro la consolle che come musicista. Ha prodotto, ad esempio, un disco importante come “Blue Banisters” per Lana Del Rey. Il suono di Jake Blanton in questo album mi ricorda quello usato per “Man & Myth”, l’album capolavoro di Roy Harper che tu stesso hai co-prodotto. Come hai lavorato con loro?
Non si è trattato tanto di scrivere delle parti, quanto piuttosto di lasciare loro uno spazio all’interno dei brani. Praticamente ho dato loro un margine per interagire con le strutture e l’anima delle canzoni. Drew ha anche collaborato con gli arrangiamenti degli archi e dei fiati. Le registrazioni sono avvenute nel giro di una settimana, mentre è stato lungo il lavoro propedeutico che potesse farli sentire integrati, in linea e in scioltezza al contempo.
La scrittura dei brani invece a quale lasso di tempo risale?
A cavallo fra il 2021 e il 2022.
Si respirava ancora aria di pandemia...
Sì, soprattutto per quel concerne la scansione delle giornate. Sono pezzi nati di notte, in particolare le sequenze più anticonvenzionali. Mi sono divertito a sperimentare.
A proposito di sperimentazione, volevo chiederti di una canzone straordinaria come “Charlie Parker”, che è anche la mia preferita del lotto. Come mai questo titolo?
Si riferisce all’atmosfera da flusso di coscienza che caratterizza il pezzo. Il mio Charlie Parker è lo stesso di “Lullaby Of Birdland”, simboleggia un volo, uno stato d’animo, un paesaggio sonoro in parte fantastico, in parte inconscio. In un certo senso le dinamiche sonore raccontano anche di me, degli alti e bassi della mia vita in questi anni. Tutti quegli archi, fiati, campane tubolari, chitarre fuzzy, lo stesso bebop sono altrettante metafore delle mie emozioni. Mi racconto di più attraverso la musica che attraverso le parole.
E quali sono le emozioni predominanti?
Potrei dire che nel pezzo si parla di fedeltà, ma anche di avventura e divertimento. Sono questi i poli tra i quali oscilla il disco.
Del pezzo esiste anche un video, come gli altri firmato da tua moglie Andrea Nakhla, che è artista figurativa. È molto interessante il fatto che abbiate usato l’Intelligenza Artificiale per animare i disegni. Come ci siete arrivati?
In modo casuale, per avere assistito a uno spettacolo di animazione tutto basato sull’uso dell’AI. Poi si è trattato di studiare, di capire come fare interagire disegno, animazione e musica. L’AI ti consente di fare cose impensabili un tempo e è una tecnologia in continua evoluzione. Abbiamo creato video per “Marzipan”, “Ol’ Father Time”, “The Village Is Dead”. Quello di “Charlie Parker” è il più pazzo, ma credo che catturi bene il senso musicale della canzone.
Ancora a proposito di immagini, ma passando dall’animazione alla visione, in “East LA” hai creato un finale che sembra una colonna sonora…
È una canzone alla quale ho lavorato per circa sette anni, prima di riuscire a coglierne il senso complessivo. Non è facile ritrarre Los Angeles, tutte le sue contraddizioni, lo scintillio di Hollywood e il senso di delusione, preclusione, frustrazione che può coglierti quando la abiti, quando la sua “brezza gentrificata”, che non è sempre una brezza inclusiva, ti soffia sul viso. Avevo questo verso “I am sitting in East Los Angeles/ I am watching a fat kid run”, e da lì la canzone si è nel tempo sviluppata. È stato difficile anche trovare l’arrangiamento che rendesse il contrasto fra la sospensione quasi irreale dell’atmosfera di Los Angeles e la frenesia delle persone che la abitano.
Quando visiterò Los Angeles per la prima volta, vorrò avere questo pezzo come colonna sonora nelle cuffie…
Allora fai in modo che sia al tramonto e in macchina.
Terrò a mente. “The Village Is Dead” al contrario è uno dei pezzi più uptempo del tuo repertorio. Sbaglio o gli arrangiamenti d’archi fanno riferimento alla Electric Light Orchestra?
Il mood iniziale girava intorno a “Hurricane” di Bob Dylan, poi insieme a Drew Erickson, lavorando sull’impasto fra le parti di chitarra e la ritmica, siamo arrivati a questi archi quasi disco, molto vicini al modo di arrangiare di Jeff Lynne, che poi è uno dei miei musicisti preferiti da sempre.
“Ol’ Father Time” è oscura e psichedelica. Cosa volevi esprimere?
In questo caso non si tratta di una canzone emotiva o atmosferica, ma di una riflessione sul tempo, una sorta di canzone filosofica. Anche l’arrangiamento va nella direzione della inesorabilità che il volgere delle stagioni suggerisce.
Tra i pezzi dell’album è quello che mi fa pensare maggiormente al tuo ruolo di chitarrista nella backing band di Roger Waters. Com’è lavorare con lui?
Sì, credo che quel pezzo possa essere vicino nello spirito al modo che ha Roger di rapportarsi con uno spunto compositivo. Lavorare con lui ovviamente è una cosa emozionante. Anche oggi, che sono trascorsi più di sette anni dal primo tour, quando ci si ritrova nel backstage e magari lo assecondo alla chitarra mentre sta lavorando a un nuovo testo, succede una magia che considero un tesoro da cogliere e custodire con cura.
E veniamo a un brano-manifesto. La canzone d’apertura, “Marzipan”, è tutto un gioco surreale di riferimenti. L’ironia ha un posto in questo disco?
Assolutamente si. Tipo “B.F.F”, in cui scherzo su John Mayer, o sui cloni di Jerry Garcia, a cominciare da me. Altre volte l’ironia è più parziale o indiretta, prendi ad esempio “Hey Love”. In “Marzipan” la cosa è più ruffiana. È una specie di occhiolino fatto all’ascoltatore, per predisporlo ad assaporare una forma di bellezza. Il fraseggio d’archi che si sente a un certo punto ha una funzione di richiamo, dichiaratamente complice e, certamente, ironico e autoironico.
Nel testo della canzone fai una serie di nomi, che aprono altrettanti mondi. Ci sono Hank Williams, Roy Acuff e Chet Atkins e direi che da te ce lo si può anche aspettare, soprattutto dopo un disco come “Dixie Blur”. Però quando ti ho sentito citare un musicista di culto come Jim Pembroke e individuarlo come maestro di anti-convenzionalità, ti confesso che ho fatto un salto sulla sedia. Mi spieghi bene?
L’interesse per lui è nato quando ho ricevuto un link riguardante una esibizione live con la sua band, i Wigwam, un progetto di jazz-rock e progressive finlandese degli anni 70. Jim era un ragazzo inglese che si era trasferito a Helsinki alla fine del decennio prima e aveva fondato il gruppo insieme a Pekka Pohjola e ad altri musicisti di quel giro. L’esibizione era pazzesca, sembrava un misto fra John Lennon, Captain Beefheart e Frank Zappa. Me ne innamorai immediatamente e cominciai a fare ricerche su di lui. Oltre ai dischi con la band c’erano quelli solisti, il primo dei quali, “Wicked Ivory”, era del ’72, era stato pubblicato sotto lo pseudonimo di Hot Thumbs O’Riley, e sembrava uno stranissimo concept, simile a una sorta di talent show immaginario. Una follia, ma bellissima. Jim è morto durante la pandemia. L’ascolto di quel disco è stato di grande impulso creativo per me. L’incontro giusto al momento giusto.
La canzone più pazza dell’album però a me sembra “Bonamossa”. Di che si tratta?
Noi abbiamo questo chitarrista blues in America, che si chiama Joe Bonamassa. Nel pezzo lui figura come personaggio inventato, di nome Bonamossa, con la “a” del cognome cambiata in “o”. È una canzone sul blues, una fantasia alla Chuck Berry, ma molto sospesa e rallentata. Le percussioni elettroniche all’inizio e l’arrangiamento orchestrale fanno parte di quelle idee notturne pazze di cui ti dicevo prima, cose che quando le prendi in mano il giorno dopo ti dici: “ma che ho combinato? Cosa faccio adesso, ci lavoro oppure no?”.
Con “Dixie Blur” hai iniziato a impostare una collaborazione con la Bmg e adesso sei totalmente accasato con loro. Come ti trovi?
Alla grande. Sono seguito da un ottimo gruppo di lavoro, sono lasciato molto libero e le cose stanno funzionando bene.
Ci sarà anche un tour a supportare l’album?
Sicuramente, ma più avanti, credo nella primavera del 2024. Nell’immediato sarò con Roger Waters in Sud America per il tour di “The Dark Side Of The Moon Redux”.
Al ritorno quindi ti aspettiamo anche in Italia?
Certamente, è una promessa.
(04/11/2023)
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Le fanfare del deserto *** Il suono del canyon di Lorenzo Righetto Chi avrebbe mai detto che Laurel Canyon, uno di quei posti in cui il fascino bohemiènne è stato soppiantato da piani di investimento immobiliare, potesse tornare a essere un punto di riferimento per la musica americana indipendente? Certo è presto per dirlo, ma se c'è un artista che può rinverdire i fasti di Love, Buffalo Springfield e che ha consumato i dischi di Joni Mitchell (tra i quali l'emblematico "Ladies Of The Canyon") e di Graham Nash, questi è Jonathan Wilson. Produttore e musicista prima ancora che cantautore, Wilson può essere considerato uno degli ultimi (?) grandi appassionati del suono, fortemente radicato nella grande tradizione americana. Si è lanciato da poco, con "Gentle Spirit", nell'avventura solista, ma già la scena non pare più la stessa.
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Frankie Ray (Pretty And Black, 2007) | ||
Gentle Spirit (Bella Union, 2011) | ||
Fanfare (Bella Union, 2013) | ||
Rare Birds (Bella Union, 2018) | ||
Dixie Blur (Bella Union, 2020) | ||
Eat The Worm (Mbg, 2023) |
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