Jonathan Wilson ha una di quelle sane vecchie storie americane che tanto piacciono a noi ferventi cultori della bassa e alta mitologia folk-rock, ridotti a popolare queste malandate e periferiche lande dell'Impero. Trentasette anni, nato in uno sputo di North Carolina chiamato Forest City, cresciuto con la musica in testa e con una chitarra in mano, arriva al suo disco d'esordio solo oggi, con la lunga barba e i lunghi capelli che cominciano a screziarsi di bianco. Nel frattempo ha già avuto modo di lavorare, come produttore o semplicemente come occasionale compagno di banda, con gente che bene o male ha fatto la storia, remota e recente, del folk a stelle e strisce:
Robbie Robertson,
Will Oldham,
Gary Louris, pure il batterista dei
Fleet Foxes Josh Tillman. E poi, per dire,
Elvis Costello,
Jackson Browne,
Erykah Badu.
Uno di quelli che stanno dietro le quinte, di solito, uno che quando entri nel suo studio di registrazione californiano, dicono, sai che troverà il modo di farti suonare esattamente cosa e come avevi in testa, uno di quelli a cui tutti, ogni volta che lo vedono, chiedono quando mai si deciderà a fare un disco per conto suo. A dire il vero qualcosa coi suoi Muscadine aveva già combinato, a metà anni Novanta. E poi c'era stato "Frankie Ray", l'album fantasma, il vero e proprio debutto da solista che Wilson aveva portato a termine quattro anni fa, nel 2007. Ma che, per un motivo o per l'altro, non fu mai pubblicato.
Insomma, l'attesa per questo "Gentle Spirit" montava da parecchio. E, beh, il ragazzo non ha deluso. Né stupito. Questa raccolta di canzoni - tredici - è una sorta di compendio di tutto ciò con cui Wilson deve aver avuto a che fare almeno negli ultimi vent'anni della sua vita. Il suo è altissimo artigianato folk, nel quale tutto occupa il posto che dovrebbe; nessuna asperità, nessuna impurità. Un omaggio pregiato a un tempo mai del tutto esaurito, figuriamoci oggi, un formidabile esercizio di stile che qualcuno ha voluto scambiare per parodia e che invece è nient'altro che questo: un omaggio, appunto, e una dichiarazione più d'appartenenza che d'intenti.
La musica di Wilson è quella di Laurel Canyon, l'aura profondamente
seventies, smaccatamente
roots. "Gentle Spirit" è una specie di romanzo storico del folk-rock, nel quale ogni cosa è ricostruita alla perfezione, con perizia e con una certa dose di maestria. E poi è inutile girarci troppo intorno: dall'inizio alla fine avvertirete una presenza forte, fortissima, e capirete subito che si tratta dello spettro inquieto di
Neil Young, del Neil Young che quarant'anni fa forgiava i suoi capolavori da country-man baciato dalla grazia degli dei del rock and roll. Gli arrangiamenti, il
songwriting, la voce, tutto rimanda al vecchio campione canadese. D'altronde, cosa ci saremmo potuti aspettare da uno che nel suo studio di Los Angeles ha l'abitudine di mettere su
jam session con tipi come John Stirratt e Pat Sansone degli
Wilco, Gary Louris e Mark Olson dei Jayhawks, Mr.
Black Crowes Chris Robinson o
Jakob Dylan?
E poi - come se quando si parla di un disco fossero sempre l'ultima delle cose - le canzoni. Tutte belle. Il registro più o meno è sempre lo stesso, bucolico e lirico, i canoni non saltano mai, il discorso iniziato con la lieve e melodiosa
title track non si interrompe fino alla fine. Ascoltatelo con gusto, senza domandarvi troppe cose: ascoltate gli echi vagamente
elliottsmithiani di "Can We Really Party Today", il
fingerpicking di "Ballad Of The Pines", l'onda psichedelica di "The Way I Feel" e quella di "Woe Is Me".
Se vi piace giocare, semmai, stupitevi un po' a riconoscere in "Natural History" certe trame sottili della "Subterranean Homesick Alien" dei
Radiohead: è curioso, ma ci sono. La chiusura, poi, è davvero sontuosa. Prima "Magic Everywhere",
younghiana e romantica, il pezzo con le possibilità più alte di rimanervi in testa per qualche buon tempo. Poi la lisergica "Valley Of The Silver Moon", lunghissima e lenta cavalcata finale nel cuore del West, sussurrata come e più di tutte le altre, un'esperienza tra veglia e sogno che porta su un terreno disseminato di memorie rarefatte e magiche ombre da sfiorare e lasciarsi dietro con rimpianto o quieta rassegnazione.
27/07/2011