Con cinque album all’attivo in quasi quindici anni di carriera, più una trasversale e ramificata genealogia di produzioni, partecipazioni e apparizioni, Erica Abi Wright, meglio nota come Erykah Badu, è una delle artiste black più rappresentative nella storia della musica d’autore contemporanea.
Una cantante in grado di sintetizzare efficacemente lo scat malinconico, ebbro e irregolare di una Billie Holiday, l’acerba, conturbante, capricciosa sensualità d’una Diana Ross o quella più sfrontata di Chaka Khan, i vocalismi ibridi (hip-hop, nu-soul, reggae) di una Aaliyah o d’una Lauryn Hill.
Un’autrice capace di amalgamare mezzo secolo di musica nera attraverso gli standard jazz-blues degli anni Quaranta, il soul impegnato di Marvin Gaye, quello romantico ed elegante di Stevie Wonder, il funk impetuoso della blackexploitation, il nu-soul di D’Angelo e il rap strumentale dei Roots, fino alle contaminazioni con la musica dub, con quella psichedelica o ambientale. Un’icona che, malgrado gli stereotipi della black fashion imperanti su Mtv, battezza un modello estetico inedito e spregiudicato, costruito sull’espressività di un look tanto eccentrico quanto ricercato e lo sfoggio di una femminilità impellente e genuina che è l’efficace controparte del proprio stile musicale. A cominciare dal design cangiante e citazionista del suo abbigliamento: enormi turbanti, tuniche regali, fiammanti ed esotiche che omaggiano le sacerdotesse africane e la maestà di Nefertiti, i buffi completini alla Eartha Kitt o le spinte mìse da foxy mama anni Settanta. Per finire con una vita pubblica e privata votata all’indipendenza coniugale e sentimentale e sottolineata da un costante elogio alla maternità (la Badu ha avuto tre figli da tre uomini diversi e senza essere mai stata sposata con nessuno dei tre).
Nata a Dallas nel 1971, cresce insieme a un fratello e a una sorella allevata dalla nonna materna. La madre è un’attrice teatrale che per mantenere la famiglia deve impegnarsi in continue tournée in giro per gli Stati Uniti e il padre l’ha conosciuto appena. È in questo mondo dominato da donne forti e indipendenti, in questo affettuoso e creativo matriarcato che Erykah abbraccia una morale ricorrente nella sua vita e nella sua musica: che gli uomini possono essere inaffidabili, che il distacco e il cambiamento, per quanto dolorosi, sono necessari e che, alla fine della fiera, si può solo contare su se stesse.
È una bambina precoce: a quattro anni è già sul palco del Dallas Theatre Centre a cantare e a ballare insieme alla madre, alla scuola elementare si cimenta con la pittura, la danza e il canto, a 14 esplode l’hip-hop e lei se ne innamora, diventando dj e free-styler per una radio locale (in un duo d’eccezione: i beat glieli forniva il futuro astro del jazz Roy A. Hargrove). Diplomatasi in arti visive, intenzionata a seguire le orme della madre, frequenta una scuola di teatro. Ancora non lo sa, ma sarà la musica il palcoscenico della sua vita. Quando irrompe sulla scena, verso la metà degli anni Novanta, l’ r’n’b sembra ormai appannaggio di dive “candeggiate” come Whitney Houston o Mariah Carey.
E l’impatto di questa ventenne - che qualche anno prima, come tutti i grandi ribelli del passato da Elijah Muhammad a Malcom X, da Kareem Abdul-Jabbar a Muhammed Alì, ha cambiato il suo nome da nome da schiava in quello che conosciamo - sul pantheon clintoniano della correttezza politica è di quelli da non sottovalutare.
Baduizm (1997)
Dopo un demo registrato a nome Funky Cousins (e firmandosi Erykah Free), seguito a breve da un duetto con D’Angelo, “Your Precious Love”, una cover di Marvin Gaye, ottima e abbondante per testarne il talento, è Baduizm (1997) la stella cometa che guida Erykah nell’empireo dell’emergente nu-soul.
Sotto l’ala dei Roots e con l’egida di James Poyser, l’uomo dal tocco d’oro che ha traghettato il “philly sound” nel nuovo millennio, la Badu può sfogare tutto il suo amore per jazz-blues degli anni 40 (Billie Holiday, Ella Fitzgerald), il soul degli anni 70, quello d’atmosfera della Stax e quello più funk-oriented di Philadelphia, coniugandoli nel “boom-klat” metronomico dell’hip-hop. L’opener “Rim Shot” è esemplare in questo senso. Ma è la sua voce - buffa, carezzevole, tenera, altezzosa, scapigliata, ruscellante - a fare la differenza. Come le grandi eroine black del passato, Erykah non si limita ad interpretare le canzoni che scrive, ma le innerva, le rivive, le reinventa ogni volta in modo diverso, trasformando ogni sua esibizione in un momento di assoluta e impudica nudità (e verità).
I brani si dividono, a grandi linee, in due tipologie: quelli più moderni, liberamente modellati sull’estetica hip-hop/nu-soul di fine Novanta, e quelli più lounge, jazzy, retrò, che assaporano la nostalgia senza disperderne la ricchezza armonica nel retrogusto della citazione.
Nella prima categoria rientrano: la fiaba vegetariana “Apple Tree”, tra soul e g-funk, tra ricami di theremin e aculei di batteria, il morbido idillio adulterino di “Next Lifetime”, groove caldo e accogliente modulato in una serie di gradazioni synth, il pop-soul più canonico di “4 Leaf Clover”, il senso di doleànce e di desolazione che solo la fede nell’amore può riscattare in “Drama” (campiture orchestrali, intarsi pianistici, deliquio di bassi).
L’altro versante è, se possibile, ancora più luminoso: “On & On” (il singolo di maggior riscontro commerciale: numero 12 di Billboard), spiritualità afro-centrica, wah di chitarra, ritmica spartana, piano jazz e lo scat-soul inimitabile della Badu; “Certainly”, con la sua rivendicazione d’indipendenza sentimentale e il suo orgoglio progressista, per contrabbasso (di Ron Carter, straordinario as usual), quarti hip-hop, fiati jazz, cornice lounge e virtuosismi vocali a tratti ancora più estasianti di quelli di cui sopra; il soul-jazz scuro e profondo di “Otherside Of The Game”, l’impegno sociale come richiamo inevitabile, la precarietà affettiva e sociale come metafora di una condizione ancestrale (“Now, me and baby got this situation/ See brotha got this complex occupation/ And it ain't that he don't have education/ Cause I was right there at his graduation”). “Baduizm” si laurea triplo disco di platino e la Badu vince due Grammy Award come Miglior Album R&B e Miglior performance vocale femminile r'n'b.
Mama’s Gun (2000)
Dopo il successo di Baduizm e l’album dal vivo Live (che contiene svariate cover più l’inedita “Tyrone”), la Badu si defila parzialmente dalle scene per dedicarsi alle cure del figlio Seven, nato nel 1997 dalla relazione con Andrè 3000 degli Outkast. Fa in tempo comunque a comporre, in duo con i Roots, un successo come “Got Me” e a unirsi ai Soulquarians, un collettivo di musicisti black di cui fanno parte, fra gli altri, D’Angelo, J Dilla, Q Tip, Common e Mos Def.
Più o meno lo stesso team che di lì a breve si metterà al lavoro per dare un seguito al folgorante debutto. Prodotto dalla stessa Badu in collaborazione con i soliti ?uestlove e Poyser (cui s’aggiungerà J Dilla) affidandosi a una rinnovata squadra di musicisti (che s’allarga fino a comprendere una vera e propria sezione d’archi), Mama’s Gun (2000) ha un retroterra creativo segnato da due eventi fondamentali: da un lato la fine della relazione di Erykah con Andrè, che convoglia il mood generale verso una più cupa, esplicita, disillusa autocoscienza della fragilità umana, dall’altro l’omicidio di Amadou Diallo, un emigrato della Guinea, incensurato e disarmato, massacrato con 41 colpi di pistola da quattro agenti del NYPD il 4 febbraio del 1999, che la spinge con più rabbia e convinzione sul sentiero dei diritti civili e dell’impegno sociale.
L’affresco sonoro è, nelle intenzioni, ancora più ambizioso del precedente: Erykah dilata la forma-canzone fino al limite della jam session, inglobando nella sua fusion elementi etno-progressivi, svisate rock, cimature reggae, raccordi dub, soundscape da blackexploitation, prolusioni psichedeliche.
L’album è in larga misura incentrato su quattro pezzi, i più estesi e significativi, da cui si irradiano poi, in direzioni diverse, le composizioni “minori”: “Penitentiary Philosophy”, innanzitutto, movenze foxy-funk, scatti hard-rock e interruzioni oniriche, per una rabbiosa dichiarazione d’impotenza, sospesa fra disperazione e ansia di rivalsa, e “Green Eyes”, infine, sorta di suite cinematica divisa in tre movimenti (la prima suona come un grammofono degli anni 30, la seconda un delicatissimo lounge-jazz, la terza in crescendo soul accompagnata dai fiati) su una donna che cerca di reagire ai fallimenti della propria vita amorosa; in mezzo il soul-jazz espanso di “A.D. 2000”, elegia in morte di Diallo, e la corposa “Orange Moon”, languido blues alla Billie Holiday per piano, flauto traverso, contrabbasso sottotraccia e l’inconfondibile tocco di ?uestlove alla batteria.
Sofisticati anche i singoli: lo stax-soul di “Bag Lady” (con quelle rullate quasi trip-hop), le percussioni afro e l’incedere dub-soul della sofferta “Didn’t Cha Know”, l’elegantissima “Cleva”, con la parziale demistificazione del suo status di “black diva”. Più movimentate la ripresa hip-hop di “…& On”, incensante quel tanto, con i suoi chioccianti vocalizzi e gli improvvisi break jazzati, il funky anni 70 di “Booty” (tutta stop’n’go), in cui ironizza sulla sua fama di mangia uomini, e “Kiss Me On My Neck (Hesi)” (tamburi afroidi, ipnotici ghirigori di flauto e riverberi di wah).
Nonostante i rischi evidenti in un’operazione di questo tipo, Mama’s Gun bissa il successo del suo predecessore arrampicandosi fino al numero 11 di Billboard (con “Bag Lady” al terzo posto fra i singoli) e ottenendo tre nomination ai Grammy Awards (ma nessun premio, stavolta).
World Wide Underground (2003)
Appagata dal buon esito complessivo di Mama’s Gun, Erykah si concede un altro triennio sabbatico, interrotto solo nel febbraio del 2002 dalla partecipazione alla colonna sonora di “Brown Sugar”, una commedia sentimentale “all black” ambientata nel mondo dell’hip-hop, con il tormentone “Love Of My Life (An Ode To Hip-Hop)”, riuscito idillio in cui duetta con l’astro nascente Common, commistione di smooth soul (basso, organo, flauto), r&b e fraseggi melodici retrò su un taglio decisamente rap (scratch, loop, batteria elettronica). La canzone è un successo: rimane per quattro settimane in cima alla classifica r&b/hip-hop di Billboard e frutta alla sua autrice un altro Grammy Award. Un pezzo sospeso, com’è tipico della Badu, fra il passato e il presente della black music e che, in qualche modo, prelude alla (parziale) sterzata elettronica di World Wide Underground.
Nato come Ep e poi gonfiato fino a includere ben 10 pezzi (cui s’aggiungeranno, a beneficio dei mercati esteri, anche i bonus “Love Of My Life” e “Hollywood”), World Wide Underground è un album di transizione, ibrido più che eclettico, disomogeneo sia nella scrittura che nello stile, sebbene supportato da composizioni di buon livello, che fotografa un’autrice sul punto di voltare pagina ma ancora un po’ indecisa sulla direzione da prendere.
Cambia anche la produzione che, defilandosi momentaneamente dal giro dei Soulquarians, viene così ripartita fra il duo hip-hop progressive Dead Prez e l’ex-enfant prodige e demiurgo del nu-soul Raphael Saadiq. Scelte agli antipodi come quelle musicali: da una parte l’esplorazione dell’afro-centrismo (sia musicale che culturale, con il contributo dei succitati Dead Prez, delle Zap Mama e delle straordinarie percussioni a mano del virtuoso Leonard Gibbs) dall’altro il ricongiungimento con una matrice hip-hop e neo-soul più canonica, da un lato le aperture estensive e sperimentali di “Bump It” e “I Want You”, forse i due brani più significativi per il modo in cui sfocano quel misto di onirismo dub orienteed, lounge, psichedelia e hot buttered soul che si rivelerà più compiutamente nel successivo New Amerykah, dall’altro una certa limatura mainstream calibrata sul modello di “Love Of My Life” (l’r&b 2.0 di “Danger”, l’hip-hop basico di “Woo” e “Love Of My Life Worldwide” col featuring di Queen Latifah).
Da segnalare anche l’agit rap di “The Grind” (trascinata dall’arringa di Stic Man dei Dead Prez), il soul rilassato, soffuso di dub, fregiato di glitch di “Back In The Day (Puff)” (il giro di chitarra è di Lenny Kravitz).
New Amerykah Part One (Fourth World War) (2008)
Dopo quasi quattro anni di silenzio (nel 2006 fa una comparsata in “Timeless” di Sergio Mendes), nel 2007 la Badu rivela di essere al lavoro su tre album completi che saranno licenziati a partire dall’anno successivo.
Com’è evidente anche dal titolo e dai riuscitissimi trailer musicali disposti a mo' di intro e outro, New Amerykah Part One (Fourth World War) è il primo capitolo di questa trilogia. Il disco in cui si completa idealmente la propensione electro-dub già in nuce nel suo predecessore, coniugando il modernismo soul di Baduizm con la sua vena più sincretica e cinematica.
La voce, calda e sensuale, non sembra essere stata intaccata dalla lunga pausa, anzi suona piena, eclettica e maledettamente soul. In contrasto con la melodia vocale, troviamo i beat e le basi che non sono mai state così hip-hop oriented e fisse. Pezzi come “The Healer” (Otis Jackson Jr. al mixer: sì, anche qui ci mette mano e anche qui è Re Mida) o “Master Teacher” (scritta assieme a Georgia Anne Muldrow, sempre in casa Stones Throw) sono ottimi esempi di hip-hop moderno e intelligente, venato dal soul e sostenuto da ritmiche efficaci e sciolte.
Ma il vanto maggiore di questo disco è la struttura delle canzoni: anche se parlando in questi termini si appiattisce il sentimento e la passione che trasuda l'intero lavoro, è doveroso far notare come la Badu abbia sfornato, con eccellenti aiuti, certo, canzoni lunghe ma snelle, che scorrono con facilità e divertono, quando non emozionano profondamente.
La prima traccia, “Amerykahn Promise”, è proprio un rinnovamento del funky settantino al femminile, che mette subito in luce la sua splendida voce. Gli altri punti forti del lavoro sono “Soldier”, caratterizzata da un beat diretto, secco ed efficace che si abbatte su una linea di synth lontana, tra pause melodiche e riprese trascinanti. Con “Me”, soul-jazz onirico e atmosferico, ci svela il retroscena dei suoi cinque anni di inattività, un travaglio di sconforto, stanchezza e speranza (“This year i turned 36/ Damn it seems I came so quick/ My ass and legs have gotten thick/ It’s all me”, tanto per ribadire che mettersi a competere con le Rihanna di turno è tempo perso e chi vuole può tranquillamente abbeverarsi ad altra più facile fonte), prima di stemperare il pezzo in uno scherzo scat per voce e tromba.
“My People”, forse la traccia migliore dell’intero disco, è un mantra estatico di classe, una bassline assassina e scurissima che muove i fili di un beat carico di contenuti mefistofelici; qui la voce è reiterata, stratificata su vari livelli che creano una sensazione di claustrofobico calore vagamente trip-hop. “Master Teacher” cala il soul in un bagno dub con archi in sottofondo e call and response tra fraseggi rap e cori gospel, poi, dopo una breve dissolvenza, riprende in puro Tamla Sound anni 70 per organo e ricami glitch in filigrana; “That Hump” ne mutua la struttura: impianto dub-soul, echi di synth, atmosfera sospesa fra romanticismo e psichedelia, poi nuova dissolvenza e ripresa vintage come un classico black orchestrale di più di trent’anni fa. L’estesa “Telephone” è un brano lounge-soul che diluisce il suo portamento confidenziale in un rarefatto arrangiamento d’ambiente.
Tirando le somme, il ritorno di Erykah Badu è decisamente positivo, coinvolgente dalla prima all’ultima nota, mai scontato e fresco, pur muovendosi in territori (quelli dell’hip-hop più classico e dell’r’n’b) ad alto rischio di banalità.
New Amerykah Part Two (Return Of The Ankh) (2010)
L'Ankh, altrimenti detta chiave della vita e croce ansata, è un antico simbolo sacro egizio. Esso simboleggia il concetto di vita in tutte le sue sfumature: l'unione dell'organo genitale femminile (l'ansa) e di quello maschile (il braccio verticale della croce), di Iside e Osiride, il tragitto del sole che anima la natura e l'uomo con essa e il delta del Nilo che la feconda e rende florida la sua prole. Una dualità che si adatta alla perfezione alla vita e alla musica di Erykah Badu. In particolare alla sua ultima opera New Amerykah di cui questa "Part Two", ribattezzata Return Of The Ankh, è per l'appunto l'ideale continuazione. Il lato destro del suo cervello, quello più istintivo, caotico, emozionale.
New Amerykah Part Two ha molto in comune col predecessore a cominciare dallo stesso team di firme prestigiose che affiancano la Badu alla scrittura e alla produzione: James Poyser, l'immortale J Dilla, Questlove (dei Roots), Madlib, 9th Wonder e Georgia Anne Muldrow, fra gli altri. I due capitoli, inoltre, condividono la stessa struttura da concept, con brani che, pur conservando forme e sonorità ben definite, tendono a confluire in un insieme ad alto potenziale cinematico, onirico, ambientale. La differenza più significativa rispetto all'album gemello consiste in un uso più esteso e diffuso delle parti strumentali rispetto al sampling e all'elettronica. Anche se c'è l'impressione che canzoni così scentrate ed ellittiche scadrebbero nell'esercizio di stile se cantate da qualcun altro/a. Come la morbida rarefatta elegia di "20 Feet Fall" che apre l'opera, o il soul più ritmato e sincopato di "Window Seat", pezzo forte che la Badu cosparge di vocalizzi sensuali, impudici, insistiti e di avvolgenti strie elettroniche. Passando per estremi opposti come l'alato p-funk dalla chimica progressiva e poliritmica di "Agitation", da una parte, e la quadratura metronomica e hip-hop di "Turn Me Away (Get The Munny)", pop-soul spumoso e sbarazzino ai limiti della disco, "Fall In Love (Your Funeral) e "Love", saturo groove elettronico e finiture quasi glitch, dall'altra.
Congedo in perfetto stile Badu con i suoni preziosi e certosini di "Incense", arpa celtica su boom-klat (di Madlib) e vocalizzi eterei, e il "black to the future" di "Out My Mind, Just In Time": una suite di dieci minuti e rotti, un viaggio musico-temporale in tre movimenti sullo stile di "Green Eyes" o "Orange Moon" (da "Mama's Gun"). Qui la Badu dapprima rinnova il suo amore per Nina Simone e Billie Holiday, quindi, con un salto di quasi mezzo secolo, ci riporta in pieno, brumoso nu-soul, per naufragare infine nel gorgo di un jazz-lounge spaziale e psichedelico.
Affascinante, sofisticato, inafferrabile, incorreggibile questo è l'art-soul di Erykah Badu. Una musica paragonabile ormai solo a se stessa. E, ancora una volta, all'altezza di questo paragone.
But You Caint Use My Phone (2015)
Ci voleva il rapper canadese Drake e la sua hit "Hotline Bling" per scuotere la diva nu-soul da un silenzio durato ben cinque anni e convincerla a tornare sulle scene, con But You Caint Use My Phone, breve mixtape registrato in soli undici giorni e incentrato, oltre al brano di cui poco sopra (del quale il sample tratto dal successo di Timmy Thomas viene manipolato e rimasticato in mille maniere differenti), sul concept della telefonia e della sua influenza nelle nostre vite. Tematica non particolarmente originale, ne convengo, che la Badu affronta però con la giusta prospettiva, senza spingere troppo sulla retorica e facendo a meno di antipatiche ovvietà: certo, è pur sempre un ritratto disincantato e distaccato quello che l'artista dipinge, ma ci sono sufficienti varietà e carattere all'interno degli undici brani del lavoro (pubblicato all'insaputa della Universal per l'etichetta personale della stessa musicista) per giustificarne la tenuta.
D'altronde, sarebbe stata una sorpresa che una come la Wright rimanesse imbrigliata nelle strette maglie della prevedibilità. Tirando fuori la formula quantomeno singolare di “trap'n'b” per descrivere il proprio operato, e muovendosi con estrema libertà fuori e dentro la contemporaneità (come da prassi sin dai tempi di “Baduizm”), la Nostra concepisce una sequenza di brani dall'allucinata allure psichedelica, in cui r&b, soul, richiami hip-hop ed elettronica fluttuano sospesi senza soluzione di continuità, in una sorta di free-jam che in più punti pare il seguito ideale di Worldwide Underground. Per chi insomma poteva aspettarsi qualche anticipazione di quello che sarà il capitolo finale della trilogia New Amerykah, probabilmente resterà a bocca asciutta.
Colpisce insomma la maniera con cui la Badu ha seguito l'evoluzione dei linguaggi “black” e dintorni, per riappropriarsene successivamente come se in fondo questi ultimi cinque anni non fossero mai passati, testimoniando di saper competere ad armi pari con tanti agguerriti “nipotini”. Il trattamento riservato a “Hotline Bling”, qui espansa in un frastornante caleidoscopio psych-soul sul quale Erykah innesta tenui melodismi, divagazioni spoken e cambi di ritmo, diventa quindi il contrassegno caratteristico dell'intero lavoro, parimenti rivolto ai vari rimaneggiamenti e ai brani autografi. Vi è tanta nuova linfa creativa in definitiva, che viene adoperata tanto in appaganti innesti con i tratti più classici del sound dell'artista (l'accoppiata finale “I'll Call U Back” - “Hello”, downtempo liquido e onirico in compagnia dell'ex compagno André 3000), quanto in cimenti del tutto nuovi, con i quali far fruttare il prezzo del biglietto.
Al costo di un eccesso di cerebralismo, è pur sempre un piacere constatare con quanta scafatezza la regina del nu-soul sappia manovrare i costrutti ritmici trap, sfruttandoli ora come cornice con cui riesumare la sua vena di estrosa MC (“Phone Down”), ora come pretesto per rivoltare dall'interno, in un perfetto gioco d'incastro, le vaporose atmosfere del cloud-rap (il medley con lo stralunato remix di “Telephone”). A costo di qualche piccolo smacco nella freschezza espressiva, ritrovare Erykah Badu così rilevante e battagliera ripaga da ogni eventuale defaillance.
A questo punto, non resta che pazientare in attesa di questa fatidica terza installazione. Con la classe che ancora una volta ha sfoggiato in un esperimento una tantum nella sua quasi ventennale carriera, la speranza è che non ci lasci privi di nuovo materiale per altri cinque anni.
Contributi di Mattia Braida ("New Amerykah Part One - 4th World War)", Vassilios Karagiannis ("But You Caint Use My Phone")
Baduizm (Kedar/Universal Motown, 1997) | 8 | |
Live (Kedar/Universal, 1997, disco dal vivo con inediti) | 6,5 | |
Mama's Gun (Motown/Puppy Love, 2000) | 7,5 | |
World Wide Underground (Motown, 2003) | 6,5 | |
New Amerykah Part One (4th World War) (Universal Motown/ PuppyLove/ Control Freaq, 2008) | 7,5 | |
New Amerykah Part Two (Return Of The Ankh) (Universal Motown/ PuppyLove/ Control Freaq, 2010) | 7 | |
But You Caint Use My Phone (Control Freaq) | 6,5 |
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VIDEO | |
Otherside Of The Game (da "Baduizm") | |
Bag Lady (da "Mama's Gun") | |
Love Of My Life (An Ode To Hip Hop (singolo tratto dalla colonna sonora di "Brown Sugar") | |
Honey (da "New Amerykah Part One") |