L'hip-hop ha due problemi: uno purtroppo insanabile e uno che diventerà una spinta propulsiva. Il primo e ben più drammatico è che J Dilla aka Jay Dee, geniale beatmaker , produttore, arrangiatore nonché uno dei pilastri del catalogo Stones Throw è venuto meno il 10 febbraio di questo anno, poco tempo prima della pubblicazione di "Donuts". Ed è proprio "Donuts" il secondo problema dell'hip-hop da ora in avanti, perché questo disco è visionario e apre, o forse conclude, definitivamente un percorso stilistico nato da qualche anno.
Jay vola altissimo, si infarcisce di medicinali non certo per seguire qualche stronzaggine da rocker à-la Pete "sniff" Doherty, ma perché colpito da una grave malattia del sistema immunitario che lo costringe in ospedale, e qui nasce "Donuts", un disco tutto meno che triste o rassegnato.
Trentuno canzoni incompiute, trentuno canzoni che potrebbero diventare tutte hit più o meno di culto, e invece rimangono spezzate in gola, non si completano ma entrano a fondo nel cervello, si fanno spazio grazie a una forza propulsiva che è quella tanto nominata e mai identificata urgenza espressiva, un'urgenza di lasciare fluire ogni singolo motivetto da cantare e addobbarlo, abbellirlo, renderlo perfetto e lasciarlo fermo, fine a se stesso, ma al servizio di chiunque e dell'opera stessa.
J Dilla parte dal fondo provocatoriamente, parte con l'"Outro", come se volesse salutare tutti da principio perché forse lui non ci sarà già più quando arriverà l'"Intro", e in mezzo è un viaggio solitario nella fantasia nera, nera come Gil Scott-Heron, come Marvin Gaye, come i Public Enemy o il suo amico Madlib; vengono sparati uno dietro l'altro ritornelli prima funk, poi soul, poi hip-hop duro e puro, sempre imbattibili e curati, in un turbinio di bozzetti incompiuti ma completissimi nella loro estemporaneità.
Bisogna fregarsene di trovare un filo conduttore tra tutte le tracce del disco, l'unico immaginario è quello che Jay Dee ha nella sua fantasia, che apre a noi e che ci mostra come sia possibile far arrivare alla forma pop il nervosismo di Madlib e nello stesso tempo accentuarne la frenesia.
Scorrere le canzoni di "Donuts" è come attraversare la Hall Of Fame della black music, non viene risparmiato nulla, tutto è riletto in chiave patchwork , che non è poi un vero patchwork , ma si avvicina più a una tempesta creativa, una serie di lampi che inanellano i passaggi giusti per colpire direttamente al cuore e al cervello, tra beat spezzati o appena accennati e voci femminili che si rincorrono.
Raccontare episodi singoli avrebbe davvero poco senso, può essere la solita sega mentale da l'opera va considerata nel suo totale, non mi importa per un solo e semplice motivo: "Donuts" è bellissimo così, con nessun episodio che spicca davvero e con tutte le canzoni che riescono a entrare nella memoria e a essere canticchiate per strada.
L'unico difetto è che non avrà seguito.
12/09/2006