Father John Misty

Father John Misty

Bored in the Usa

Lasciatosi alle spalle un percorso di intimo cantautorato e il ruolo di batterista nei Fleet Foxes, Josh Tillman raggiunge il successo e la maturità artistica calandosi nei panni di Father John Misty. Una voce ironica, esagerata e spietata in balia dei mali della società e dei demoni della mente

di Alessio Belli

Introduzione - Gli anni nel Regno

Joshua Michael Tillman nasce in America, a Rockville nel Maryland, il 3 maggio 1981. Il poco che sappiamo dei primi anni di vita è utile per capire alcuni tratti e vocazioni distintive del percorso artistico. Tramite interviste, sono trapelati scorci dell'infanzia e dell'adolescenza: i genitori missionari in Etiopia e i loro quattro figli, tra cui Joshua, il più grande. I rapporti con il mondo esterno sono pochi (ascolterà i Beatles per la prima volta a diciotto anni!) e filtrati dalla rigida educazione religiosa. Già tanto aver accaparrato il Bob Dylan convertito di “Slow Train Coming” e “The Joshua Tree” degli U2, camuffandoli da musica cristiana. Nel caso del capolavoro di Bono e soci, il titolo può aver aiutato la scelta. Joshua inizia a suonare prima la batteria e poi la chitarra a dodici anni, insieme al fratello più giovane di un anno. Non gli interessa diventare un virtuoso delle sei corde, la priorità è un sostegno, un tramite, per le cose da dire. Lo stacco definitivo con quel mondo, fatto di apocalissi e demoni da esorcizzare, avviene dopo un anno di frequentazione della Nyack College di New York, un'università privata cristiana, per andare a Seattle. Una location associata agli storici nomi del grunge (Tillman predilige gli Alice in Chains), la quale a poco a poco inizia farsi conoscere per la preziosa scena folk. Umili lavori per sopravvivere, ma con la possibilità di iniziare a registrare le prime canzoni.

Il prima: visioni di una mente tormentata

Una stanza, flebile luce che filtra dalle finestre, una chitarra sul letto e le lenzuola sfatte, un registratore vicino. Atmosfera intima, ideale per far uscire dalla testa più pensieri ed emozioni possibili. Ecco le prime immagini che evocano i lavori firmati da J. Tillman. Dopo Business Of The Heart, un demo registrato ai Bluebrick Recordings mai pubblicato ufficialmente e a tutt'oggi quasi impossibile da reperire o semplicemente ascoltare, nel 2003 esce Untitled No. 1 per Broken Factory.
Dominato dalla voce fragile e tragicamente dimessa, e la chitarra intrappolata nel fruscio di sottofondo, l'ascolto è senza compromessi. Salturiamente, le composizioni vengono impreziosite dal tocco di un pianoforte. Le brevi liriche oscillano tra scorci romantici (“Let Me Put You Under Both My Wings”) e l'amarezza di un rapporto finito (“Ties That Bind”). L'incedere è molto lento, le parole dilatate, quasi sospese. Nelle pause è possibile sentire Tillman schiarirsi la voce: buona la prima take.

In questi anni Tillman è impegnato con i Saxon Shore, collettivo post-rock fondato insieme al chitarrista Matthew Doty. E' nel progetto per i primi due dischi: Be A Bright Blue del 2002 e Four Months Of Darkness dell'anno dopo. La sua ritmica si fonde ai nitidi arpeggi di chitarra delle sette tracce dell'esordio e nelle successive cinque composizioni del capitolo successivo, per un gradevole ascolto di mezz'ora in entrambi i casi.

Il crepuscolare e struggente lo-fi, pregno di strazianti riflessioni e battaglie interiori, segnerà la prima fase cantautoriale di Tillman. I primi passi attirano l'attenzione di Damien Jurado, il quale chiama il giovane per aprire i suoi show. Altra autoproduzione è I Will Return del 2004, aperta dal greve suono degli archi di “Lilac Hem”. Seguono i foschi scenari familiari di “Your Mother's Ghost” e “This Jealous Blood”, mentre un banjo e ritorni biblici caratterizzano “An Occurrence At The River Jordan”. Passaggio da ricordare, imbevuto di peccato, amore e redenzione, è “Cecille, My Love”.

Spicca, in Long May You Run, J. Tillman, la lunga “Trail Of Red, Bride In White”, sostenuta da archi fantasma, e “Seven States Across”, impreziosita dalla citazione biblica dell'episodio di Sansone e il miele nella testa del leone: “There is honey in the lion/ I can't slay it”. Un passaggio che diverrà il titolo di un album di una delle più famose eccellenza sonore di Seattle, gli Earth. In un'intervista, il Nostro ha dichiarato di apprezzare la produzione di Dylan Carlson.

Questa porzione di discografia è stata spesso accostata a Mark Kozelek, più per l'impostazione vocale e l'estrema essenzialità: eppure, se proprio volessimo fare un paragone, il nome più adatto sarebbe Samuel Ervin Beam, ovvero Iron & Wine. Un cantautore dal forte vissuto religioso (anche se ora ateo), capace di tessere meravigliose melodie e testi, intrisi di emozioni e scorci tratti dalle sacre scritture. Medesimo approccio per i primi passi (voce, chitarra e un registratore) e il provvidenziale apporto di un collega, sempre dalla scena di Seattle. Nel caso di Iron & Wine, Michael Bridwell, fratello del cantante dei Band Of Horses.

Per il musicista del Maryland qualcosa inizia a muoversi nel 2006. Una prima etichetta, la Fargo, ristampa I Will Return e Long May You Run, J. Tillman (precedentemente uscito per Keep Recordings in edizione limitata di 150 copie) e pubblica il nuovo Minor Works: da quest'ultimo segnaliamo “Darling Night”.

Composto a Parigi sulle suggestioni di “Tropico del Cancro” di Henry Miller, il successivo Cancer And Delirium (Yer Bird, 2007), dal titolo alquanto eloquente e con il volto del cantante che campeggia sulla copertina in bianco e nero, pur rimanendo nel giro del cult, acquisisce ancora più visibilità. "Visions Of A Troubled Mind" è un canto appesantito e i testi sono quadretti minimali dalle leggere tinte pronte a sfumare i contorni. Ancora una volta, un lavoro dominato dalla voce e dalle sue parole, con la chitarra lontana e i pochi altri strumenti “sparsi” nella cornice: "When I Light Your Darkened Door", tra fruscii, batteria (una novità a livello compositivo) e piano; il banjo e i cori a supporto di "Ribbons Of Glass".

La verve di Tillman non accenna ad affievolirsi e tra 2009 e 2010 per Western Vinyl vengono rilasciate le ultime tre uscite a nome J. Tillman. Il tutto mentre il Nostro è diventato il batterista dei Fleet Foxes. Un ruolo che ricoprirà dal 2008 (quando le registrazioni dell'omonimo esordio erano appena finite) fino al tour a seguito di Helplessness Blues, pubblicato nel 2011. E' in quest'opera che possiamo apprezzare il contributo di Tillman. L'esperienza con la band di Robin Pecknold è importante (Tillman apriva anche “in solo” i live della formazione) ma non priva di contrasti. Dopo la data giapponese del 20 gennaio 2012, il batterista comunica la scelta di abbandonare il gruppo. I rapporti erano logori da un po' e le parole iniziali rilasciate alla stampa sono amare. Sul suo tumblr dichiara: “Farewell Fleet Fans and Friends. Back into the gaping maw of obscurity I go. Tokyo is my last show with the Foxes. Sorry if I was distant and obtuse if we ever met. Have fun”. Un tentativo di riconciliazione apparirà all'orizzonte nel 2017, quando l'ex-membro esprimerà giudizi positivi su Crack-Up.

Ma torniamo alle vicende discografiche di J. Tillman. Vacilando Territory Blues è il primo album pubblicato da batterista dei Fleet Foxes, ed è stato definito dall'autore “un disco sull'angoscia di fare un disco”. Ha elementi di continuità e scelte inedite. In “James Blues” la performance vocale è accompagnata da un handclapping, dal rumore delle bacchette e dal pianoforte. Segue la vera novità: “Steel On Steel”, sostenuta dal drumming e dai guizzi della sei corde. In questa scia di inedite sonorità per il percorso di Tillman solista, segnaliamo gli sprazzi di “Laborless Land” e “New Imperial Grand Blues”, forse il pezzo più commerciale (prendete il termine con le molle) mai scritto da Misty. A controbilanciarlo, i sette minuti polverosi e western di “Barter Blues”, aperti dall'affilato suono di un banjo e sormontati nel loro crescendo da un greve gioco di archi e una distorta e rumorosa coda finale. La conclusione è affidata a “Vacilando Territory”, incentrata sul racconto del trasferimento a Seattle.

Year In The Kingdom (Western Vinyl, 2009) è più cristallino. Gli accordi sono scintillanti (“Howling Light”), pronti a librarsi nell'aria (“Crosswinds”), senza dimenticare gli innesti del predecessore (“Earthly Bodies” e “There Is No Good In Me”). Eccolo però apparire scarno come non mai in “Age Of Man” e “Though I Have Wronged You”. Il torrenziale flusso creativo di Tillman non accenna a fermarsi, come dimostra il singolo “Wild Honey Never Stolen/ Borne Away On A Black Barge”, in cui spicca lo spunto gospel della seconda traccia.

Imbevuto di tormento e Dio, Singing Ax è un ritorno alla massima essenzialità e viene registrato in pochi giorni. Alla produzione c'è Steve Albini. Nell'ultimo lavoro con questo moniker, praticamente rinnegato dall'autore, i testi assumono connotati molto suggestivi e affascinanti, tra ispirazioni bibliche e scene criptiche (“Three Sisters”). La voce inizia a rivelare maggior vigore e raggiunge tonalità inedite, come in “Our Beloved Tyrant”, dove il tiranno può essere tranquillamente un dio, come un padre.
La critica lo recensisce positivamente, il suo nome ormai è noto nell'attiva scena folk di Seattle, ma forse nella testa di Tillman una strana idea inizia a prendere forma. Forse è tempo per un cambiamento importante.

Siamo arrivati al 2010 e la scena vede: il Big Sur, i funghi allucinogeni e un albero. Tillman vagabonda per la costa alla ricerca di se stesso e si ritrova “lievemente” alterato dalle sostanze, seduto su un ramo, nudo. Per quanto l'episodio oscilli tra il comico e il tragico, il seguito dalla folgorazione getta la basi per Father John Misty. Un nuovo nome, una maschera, un'identità con cui portare avanti gli spunti della precedente vita musicale e aggiungere la possibilità di dar sfogo ad alcuni aspetti prima tenuti a bada. Riguardo il cambio di nome e personaggio, citiamo un passaggio dell'intervista rilasciata qualche anno fa, proprio dal diretto interessato a OndaRock:
Ho visto e sentito molte volte farti la domanda sul perché hai pubblicato quello che viene definito il tuo disco più “sincero” usando un moniker, e mi è venuta in mente una citazione di Oscar Wilde: “Un uomo è meno se stesso quando parla in prima persona, dategli una maschera, e vi dirà la verità”. È anche il tuo caso?
"Sì, cioè, in realtà non avevo bisogno di una maschera... è un’ottima citazione, ma per me è stato molto più pragmatico di così. Semplicemente, ho pubblicato tutti quei dischi con il mio vero nome, ma se tu prendessi tutto il loro contenuto cercando ciò che vi ha messo Josh Tillman, avresti zero, solo un’accurata fotografia emozionale del tempo. Con la musica, il cantautorato, il canto, non sono tanto i testi ma come li canti; non è se ciò che raccontano sia verità o finzione, ma come parlano. In ‘Fear Fun’ è come parlano i testi, mi assomigliano, e credo che la cosa più onesta che si possa fare, come scrittore, sia scrivere come si parla. Se non ci fossero stati tutti i dischi precedenti, questo sarebbe stato l’album di Josh Tillman, ma purtroppo ci sono. Non avevo paura di svelare nessuna di quelle cose".


Coperto da una folta barba e annessa lunga chioma, in bilico tra John Lennon e Jim Morrison, Tillman da schivo e introverso cantautore sfodera una caustica vis polemica, con annesse conseguenze: si sprecano gli articoli non proprio favorevoli nei suoi confronti e spesso i social network ironizzano sulle sue uscite. Il grande giornalista Greil Marcus esprime le sue perplessità in un articolo su Pitchfork chiamato “What Do You Call Father John Misty?” e il meno delicato Ryan Adams lo definisce su Twitter “the most self-important asshole on earth”. Per nostra fortuna, oltre agli aspetti controversi del personaggio pubblico, artisticamente parlando ciò che svela definitivamente Father John Misty è la bellezza della sua voce, libera dal gravoso peso emotivo dei precedenti lavori. Pur non perdendo un grammo di intensità, la performance vocale si slancia verso nuove vette. Sostenuti da arrangiamenti ben più corposi, i testi – come anticipato dalle psichedeliche copertine – diventano un quadro dove i mali del mondo e della società (ma a volte basta solo raccontare i brutti vizi di Los Angeles) camminano di pari passo con i demoni dell'anima. Tillman non ha mai fatto segreto dei suoi problemi con la depressione e l'ansia, a cui si è aggiunta la diagnosi di un disturbo da stress post-traumatico. Problematiche – curate a volte con metodi alternativi (come Lsd) che spesso hanno influito negativamente sui suoi rapporti con la stampa e con il pubblico durante alcuni live, macchiati da dichiarazioni non proprio lucide tra un brano e l'altro.
Chi invece sembra dare sostegno e forza al cantautore americano è la moglie, Emma Elizabeth Tillman, sposata nel settembre 2013. Nata a Santa Barbara, in California, si laurea alla UCLA e si specializza subito in fotografia e regia. Appare in alcuni video di Misty, assecondando le simpatiche stramberie del soggetto (alcune mostrate nel videoclip “I'm Writing A Novel”) e dirigerà il video di "God's Favorite Customer". L'incontro tra i due è raccontato in “I Went To The Store One Day”.

Il dopo: la commedia umana

In un momento critico, singolare, di alterazione mentale, mi sono reso conto di questa gigante, palesemente fraudolenta contraddizione tra la mia narrazione e conversazione interiore, il mio senso dell'umorismo - e il cantare del mio dolore come un cazzo di stregone decrepito.
(Josh Tillman)

Che il paziente sia in grado di autodiagnosticare il proprio male è senz'altro uno dei primi segni di guarigione, soprattutto quando si tratta di una sorta di blocco psicologico, o di un generico problema mentale. Sarebbe interessante, poi, sapere con certezza se il momento di cui parla Tillman sia precedente o meno alla telefonata con cui il batterista annunciava a Robin Pecknold della sua dipartita dai Fleet Foxes, ma certo l'affettazione di cui parla l'omone sensibile si è sempre sentita, inutile negarlo; forse una contrizione verso un ascetismo "costrittivo" del proprio spirito generata anche dalla reazione del Nostro alle straripanti orge musicali del gruppo.
Vanno un plauso e un grosso sospiro di sollievo, quindi, a questo cambio di rotta chiamato Fear Fun, che ci risparmia dall'ennesima bordata di sospirate, "esalate" contrazioni, spasmi di un'anima in gabbia. Tillman marca questo passo non solo col chiacchierato abbandono della formazione delle "volpi in fuga", ma anche tramutandosi, in modo carnevalesco e irridente, nella favolosa figura barbuta del sacerdote hippie a nome Father John Misty.
Per sancire il suo ingresso ufficiale nel mondo dei grandi (con la "g" minuscola, s'intende), il cantautore con le bacchette si è fatto accompagnare da due mostri come Phil Ek e, soprattutto, Jonathan Wilson, suo dichiarato nume tutelare. Non tanto per le scelte stilistiche, né sonore (rintracciabili semmai in "This Is For Sally Hatchet"), ma per l'attitudine: riesumazioni rituali, escavazioni archeologiche nel bel mezzo del Laurel Canyon, tese a riportare in vita il "classico", se pure esiste una tale definizione. Tenendosi naturalmente a distanza di sicurezza dall'ombra di Pecknold (ma fare revival seventies "a squarciagola" senza tenerne conto è ormai quasi impossibile, si veda "Only Son Of The Ladiesman"), Tillman si esibisce in forbite e ariose composizioni, che spaziano dal folk-rock dalle tinte springsteeniane della tonante "Hollywood Forever Cemetery Sings" al divertito alt-country alla Phosphorescent di "I'm Writing A Novel" (ed è già annunciata l'uscita di una collaborazione con Houck).
Da notare anche le soffuse sincopi dell'andamento soul di "Nancy From Now On", che Josh trasporta con un'altra interpretazione azzeccata (finalmente intenso e mai affettato) in una distrattamente struggente cartolina invernale d'amore. "I never liked the name Joshua/ I got tired of J": adesso che l'identità pare finalmente rintracciata (e il Nostro si prende la briga di dircelo esplicitamente), il filo del discorso interiore annodato a quello esteriore, rimane da chiedersi se Tillman abbia il talento di scrittore di canzoni adeguato all'architettura "promozionale"-iconografica che lo accompagna e lo precede e ai mezzi tecnici e artistici di chi lo assiste. È qui che il progetto scricchiola: mai - o quasi, "Fun Times In Babylon" va concessa - le canzoni di Fear Fun sono in grado di scalfire la superficie di gradevolezza delle educate armonie del cantautore e degli eleganti e canonici arrangiamenti, e aspirare a qualcosa di più di un piacevole e distratto accompagnamento.

Josh Tillman prende una pausa dagli eccessi del suo alter ego Father John Misty e torna alle atmosfere intime e raccolte della sua produzione iniziale per firmare la colonna sonora di The History Of Caves, debutto alla regia di Emma Tillman. Dieci brevissimi brani strumentali, per poco più di 15 minuti di durata complessiva, registrati ai Five Star Studios di Jonathan Wilson – senza l'egida del proprietario ma con Bryce Gonzales a prendersene cura – in cui il cantautore, ormai losangelino, dimostra di aver fatto grandi passi avanti nelle capacità di scrittura e composizione. Stavolta non c'è la voce calda e potente di Tillman, infatti, a riempire i vuoti compositivi dei lavori pre-FJM; ma è una mancanza che non si avverte: pur nella loro durata estremamente breve, i pezzi sono complessi, strutturati e bilanciati, uniti organicamente da temi ricorrenti.
Non è, però, un disco di facile approccio, questo. A un primo impatto, si avverte fortissima la sua dipendenza dalle immagini del film a cui è legato, anzi, slegato, soprattutto per il timing dei brani, che si trasformano più in schizzi, in appunti per future composizioni, con grandissime potenzialità ancora da sviluppare. Una sensazione che a poco a poco si spegne, procedendo con gli ascolti e scoprendo le stratificazione e il concetto compositivo unitario della colonna sonora.
Le storie di una famiglia disfunzionale sono accompagnate da un folk emozionale, tanto caldo quanto cupo, discendente diretto del sound di Singing Ax, ultimo disco a firma J.Tillman, a cui si unisce la reminiscenza fleetfoxesiana dell'impasto vocale scelto per la tracca di chiusura, "Title Themes For Boy Voices" – sono i titoli, in quest'occasione, a godere della spinta creativa meno pacata del cantautore, da "Finish Those Cigarettes And Go To Bed" a "Tender Is The Night In Paperback", che gioca con F. S. Fitzgerald.

Dopo la pubblicazione dell'inedito "Real Love Baby", Mr. Misty non disdegna visite nel mondo dei pesi massimi del pop. E' tra gli autori di “Hold Up” di Beyoncè (nell'album “Lemonade”) e di “Sinner Prayer” e “Come To Mama” in “Joanne” di Lady Gaga, senza dimenticare le cover dei brani di Taylor Swift (“Blank Space”). Inoltre, appare nel video di “Freak” di Lana Del Rey. Contribuirà anche alla traccia “Myself” di Post Malone, presente nell'album “Hollywood's Bleeding” del 2019.

Nel bene e nel male, il sermone definitivo di Father John Misty si palesa con il terzo disco, Pure Comedy. E' l'opera dove getta tutto se stesso e i suoi pensieri, le sue ossessioni. Il sound è classico, un piano-pop orchestrale à-la Elton John, e non disdegna acute sferzate pop quali “Total Entertainment Forever”, dove si palesa ancora una volta il debole per Taylor Swift. Ma soprattutto si denuncia la nostra schiavitù dalla tecnologia: “And now the future's definition is so much higher than it was last year/ It's like the images have all become real/ And someone's living my life for me out in the mirror”. La Commedia Umana non è un bello spettacolo per Misty e il pessimismo arriva a vette leopardiane nel verso finale della title track:

Just random matter suspended in the dark
I hate to say it, but each other's all we've got

Unica speranza di sollievo e vittoria è nell'amore. La Commedia è un intricato disegno – come quello in copertina – dove Trump e social media convivono con fake news e falsi valori. Al love each other si aggiunge l'idea di crearsi un proprio universo felice lontano da tutti, rifiutando la situazione attuale. Un pensiero che domina i due brani monstre dell'opera: “Leaving LA” e “So I'm Growing Old On Magic Mountain”. La prima potrebbe essere vista come la versione “maxi” delle prime composizioni di J. Tillman: strofe ripetute senza un ritornello per tredici minuti di voce, chitarra e un sottofondo di archi per una lunga autoanalisi sia personale sia sul ruolo di musicista, nata dalla critica nei confronti della città californiana (“These L.A. phonies and their bullshit bands/ That sound like dollar signs and Amy Grant”).
Nel viaggio dove si abbandona la Città Degli Angeli insieme alla moglie per andare a New Orleans, si arriva all'ultima scena, a un vecchio ricordo d'infanzia legato alla musica. Il piccolo Josh sta per soffocare in negozio a causa di una caramella e dagli altoparlanti esce "Little Lies" dei Fleetwood Mac. “So I'm Growing Old On Magic Mountain” - ispirata dal romanzo "La montagna magica" di Thomas Mann – di “soli” dieci minuti è anch'essa l'ennesima ottima performance vocale di Misty e raggiunge il suo apice con lo splendido tocco di un sintetizzatore greve e solenne.
Nel resto della Commedia si rivengono critiche alla religione, lo scenario post – apocalittico dovuto al cambiamento climatico di “Things It Would Have Been Helpful To Know Before The Revolution” e “Smoochie”, dedicato alla moglie. Un lavoro lungo, spesso prolisso (chiara risposta a chi lo voleva meno petulante), ma con all'interno spunti molto personali e ispirati.

A un anno da Pure Comedy, Josh Tillman torna con un nuovo disco sotto l'ormai celebre alter ego Father John Misty: God's Favorite Customer. Scarti ben riciclati delle lunghe session del predecessore, un modo per cavalcare la cresta dell'onda? Fortunatamente - e com'è ormai consuetudine - il musicista americano ha in serbo qualcosa di molto meglio. La chiave di lettura di God's Favorite Customer è nel brano - e annesso videoclip ufficiale - che fa da primo singolo: "Mr. Tillman". "Mr. Tillman, are you ready?", si sente pronunciare prima del ciak, anticipando l'angosciosa e simbolica sequenza di autodistruzione. Simbolica ma soprattutto autobiografica, come la scelta di titolo palesa: la maggior parte delle canzoni è nata in un isolamento volontario di un paio di mesi, imposto da Misty per fare i conti con demoni e ossessioni.
Per quanto l'autore abbia esplicitamente dichiarato che a differenza di I Love You, Honeybear e Pure Comedy questo non è un concept, alcune delle tematiche nate durante la prigionia volontaria tornano ricorrenti, creando un'ossatura tematica fatta di autoanalisi, riflessioni sull'amore, su vita e morte. La scelta dello scatto di copertina, con un Father John Misty immortalato sotto neon in primo piano, a differenza delle composizioni artistiche del passato, ci conferma che i riflettori sono puntati principalmente su di lui e non sulla società e sui suoi annessi mali, come in "Pure Comedy".
"Mr. Tillman" è un pregevole brano pop immediatamente "fischiettabile", in cui ancora una volta il musicista di Rockville conferma il raro talento nella scrittura di testi importanti. La canzone è narrata dal punto di vista del concierge che quotidianamente combatte con questo problematico cliente dalle manie bizzarre: spese da saldare, passaporti nel frigorifero, materassi lasciati sotto la pioggia. Tra questi atteggiamenti fuori dalle righe si sentono gli scricchiolii: inviti a non bere da solo, chiamate di persone preoccupate e un ritornello in cui si ripete - più a se stesso, che all'interlocutore-ascoltatore - che va tutto bene, questa è la soluzione migliore.
Rispetto a Pure Comedy, i brani sono più brevi e leggeri: non c'è la corposa struttura orchestrale che abbraccia la procedente produzione e non ci sono canzoni dal minutaggio esteso come "Leaving LA" e "I Growing Old On That Magic Mountain". Un disco più "light" ma non per questo arrangiato superficialmente. Prodotto per la prima volta quasi esclusivamente solo da Tillman (con l'aiuto di Jonathan Rado dei Foxygen e lo spirito-guida Jonathan Wilson) l'album ha un suono limpido e corposo, in cui è possibile apprezzare tutti gli strumenti presenti: pianoforte, organi, synth, lap steel, chitarre classiche ed elettriche, ben miscelate nell'esaltare la solita performance vocale impeccabile di Misty.
"Hangout At The Gallows" è un opening di alto livello, esplicito nel mostrare la situazione personale dell'artista e il sopracitato lavoro di produzione. Fortunatamente sarà così per tutto il disco, composto da sentite e intense ballate, come la splendida "Just Dumb Enough To Try" e "Plase Don't Die". Se "Date Night" (molto "True Affection" nell'intro) e "Disappointing Diamonds Are The Rarest Of Them All" sono importanti aggiornamenti dal versante I Love You, Honeybear, il cuore di God's Favorite Customer è "The Palace". La cronaca interno/esterno di questo momento della vita di Father John Misty:

Last night I wrote a poem
Man, I must have been in the poem zone
I'm in over my head
But I don't wanna leave the palace
Let's pay someone to move in and fix this
Last night I texted your iPhone
And said I think I'm ready to come home
I'm in over my head

Curioso come il tema dell'hotel torni poco dopo l'uscita del discusso "Tranquility Base Hotel & Casino". Alex Turner ha definito il suo album "una casa di riposo per rockstar sulla Luna", per Tillman - nonostante i testi spesso simbolici e la sempre potente dose di autoironia - è un luogo ben più concreto, una sorta di limbo metropolitano in cui fare i conti con se stesso e uscirne a ogni costo. Almeno con dieci belle canzoni.
Privo del pessimismo cosmico di Pure Comedy, Father John Misty combatte i mostri interiori con una lavoro "di cura" (sue stesse parole) ispirato e intimo, capace anche di toccare gli altri. L'entrata dell'hotel sembra essere alle spalle.

Nel pieno dell'emergenza Covid-19, Father John Misty rilascia sul proprio Bandcamp Off-Key In Hamburg i cui ricavati vengono destinati all'associazione Recording Academy’s MusiCares COVID-19 Relief Fund, realtà che cerca di provvedere ai danni causati dal virus all'industria musicale, agli artisti che hanno dovuto cancellare i concerti, senza dimenticare le realtà connesse come hotel e location
Off-Key In Hamburg è un live speciale perché Tillman immortala la data dell'8 agosto 2019 all'Elbphilharmonie di Amburgo dove si è fatto accompagnare dalla Neue Philharmonie Frankfurt. Una location teatrale meravigliosa, con le prime file del pubblico a pochi respiri del cantante e il resto dei presenti attorno all'artista, intento a declamare i suoi brani al microfono, alla chitarra, al pianoforte. Un best of dal vivo in cui c'è spazio solo per la musica, i cori e gli applausi tra un pezzo e l'altro e nessun inframezzo parlato. L'uscita ideale sia per chi desidera approfondire il mondo musicale del barbuto cantautore, sia per chi lo conosce abbastanza bene da voler ascoltare su disco la resa dal vivo di parte del repertorio (e ovviamente contribuire alla causa).
Per quanto siano inattaccabili la bravura della band che lo accompagna dal vivo negli ultimi tour e lo spessore dell'arrangiamento orchestrale che sottilinea e amplia le precedenti soluzioni orchestrali incise su disco, l'aspetto che più ci sta a cuore è qui intatto: ovvero la performance vocale di Father John Misty. Bellissimi i fiati e gli archi in "Pure Comedy", prezioso l'inedito passaggio di violino che screzia la sempre trascinante “Hollywood Forever Cemetery Sings”, idem la pregevole esecuzione di "I Went To The Store One Day", ma lo strumento che fa sempre la differenza è la voce di Misty, ancora più ricca di sfaccettature e ispirata, come palesa la sontuosa versione di “Holy Shit”, a cui segue l'altrettanto amata "I Love You, Honeybear", eseguita trionfalmente davanti a un pubblico più che soddisfatto.
La tracklist dà priorità agli ultimi lavori, Pure Comedy e God's Favorite Customer, intervallati  da i pezzi più amati (e belli) dei primi due lavori, eccezion fatta per la magnifica e sempre attuale “Bored In The Usa”, qui lasciata fuori. Aperto da “Hangout At The Gallows”, l'elegante show si chiude con la lunga “Leaving LA”, sfumando direttamente negli applausi finali, chiudendo un'uscita buona e giusta in questi tempi complicati in cui magari un gradevole ascolto e contribuire a una giusta causa può dare un minimo di sollievo.

Qualche mese dopo la pubblicazione di Off-Key In Hamburg, arrivano le quattro cover disponibili solo in formato digitale contenute in Anthem +3, sempre a scopo benefico, per il CARE Action & Ground Game LA. Spicca il tributo soffuso e delicato a Leonard Cohen con la scelta del brano che dà il titolo alla pubblicazione presente nel  capolavoro degli anni 90 "The Future" e la perla finale di "Songs Of Leonard Cohen", "One Of Us Cannot Be Wrong". E' questa la traccia più interessante dell'uscita, impreziosita da un bel arrangiamento di fiati e dalla solita sentita performance di Mr. Misty, supervisionata come sempre dal fidato Wilson.
Tra i due brani del cantautore canadese, le altre rivisitazioni sono "Trouble" di Cat Stevens e "Fallin' Rain" di Link Wray.

Altra “mini” uscita è il singolo contenente gli inediti To S./ To R. per la raccolta “Sub Pop Singles Club Vol. 5”. Spontaneo chiedersi chi siano i nomi dietro i brani. Se musicalmente siamo in classic-Misty style (delicato atmosfera acustica, con precise aggiunte di pianoforte e archi) nel testo di “To R.” il nostro potrebbe dialogare con se stesso ancora prigioniero nell'albergo dell'ultimo album. Altrettanto sentito anche l'altro lato, dove cerca di confrontarsi con una persona che sta affrontando un periodo molto difficile.

The Next 20th Century

Con Chloë and The Next 20th Century (2022) la dimensione orchestrale di Father John Misty prende il sopravvento. Tali arrangiamenti non sono mai mancati nella discografia del cantautore di Rockville (a differenza dell'intima sobrietà dei dischi firmati a proprio nome), e in alcune occasioni live Misty ha proposto le composizioni accompagnato da ochestra, come testimonia Off-Key in Hamburg e come si appresta a fare nell'appena annunciato tour mondiale. L'alter ego artistico di Tillman si è sempre presentato come un personaggio fuori dal tempo e dalle mode, un po' guru psichedelico, un po' cult leader, con un pizzico di hippie style, il cui songwriting è supervisionato da uno che di 70's e di Laurel Canyon sa qualcosa: Jonathan Wilson.
Ulteriore aspetto importante del nuovo disco, l'inedita dimensione umorale di Father John Misty: calmo, distaccato nello storytelling ma non per questo meno appassionato: almeno nelle canzoni, appaiono lontane le nevrosi, le manie, e i tanti vizi e le poche virtù della società attuale da lui narrate. Nonostante i sopracitati aspetti siano stati assecondati da indizi spiazzanti (il nuovo look e l'inedito artwork monocromatico a discapito delle sgargianti composizioni del passato) i punti di contatto superano quelli di strappo. 
Chloë and The Next 20th Century si pone in continuità con la parabola dell'autore americano. Ciò viene confermato dalla presenza dei fedeli compagni di battaglia, dal sopracitato Wilson (il lavoro, pronto già a fine 2020, è stato registrato presso i suoi Five Star Studios), a Dave Cerminara dietro la console del mixer. I germi delle tracce orchestrali possiamo trovarli nei precedenti dischi – le aperture di I Love You, Honeybear e Pure Comedy, giusto per fare due esempi – ma la tromba in apertura di “Chloë” ci immerge subito nel mood sonoro retrò dominante, anticipato altrettanto chiaramente dal primo singolo “Funny Girl”. Una colonna sonora di un classico della vecchia Hollywood dove Misty è il nostro crooner, con gli arrangiamenti capaci di far convivere sinuosi passaggi di archi ad affilati assoli di chitarra elettrica, come nel lungo finale “The Next 20th Century”. La voce è sempre un faro, il solito acuto lavoro testuale a volte – ma ci siamo abituati– tende al prolisso e allo sdolcinato (“ Kiss Me (I Loved You)”). Nella splendida “Goodbye Mr. Blue” riusciamo quasi a vederlo seduto su un portico colpito dal sole in pieno stile country, mentre tra le sue composizioni più belle possiamo inserire “Q4”. “Chloë” non è la protagonista principale, quanto la figura incaricata di inaugurare le danze e spianare la strada agli altri protagonisti. Insieme alle trame dell'orchestra, a rendere coeso il disco è l'amore, spesso tragico e doloroso: da "(Everything But) Her Love" fino a "We Could Be Strangers", passando per la dolente quanto bella "Buddy’s Rendezvous". Non è un caso che nella versione deluxe del disco, di quest'ultima sia presente la cover composta da Lana Del Rey.

Così, alla fine dell'appassionato film in bianco e nero dai bordi un po' sgranati, Chloë and The Next 20th Century non è altro che un nuovo capitolo della Commedia Umana da cui Father John Misty non riesce proprio a staccarsi. Citando l'amato Leonardnew skin for the old ceremony.

Contributi di Guia Cortassa per l'intervista e "I Love You, Honeybear",  Lorenzo Righetto ("Fear Fun"), Federico Piccioni ("Pure Comedy"), Alessio Belli ("Chloë and The Next 20th Century")

Father John Misty

Discografia

FATHER JOHN MISTY

Fear Fun(Sub Pop/Bella Union, 2012)
The Demos (Sub Pop/Bella Union, 2012)
I Love You, Honeybear(Sub Pop/Bella Union, 2015)
I Luv You HB Demos (Sub Pop/Bella Union, 2015)
Pure Comedy(Sub Pop/Bella Union, 2017)
God's Favorite Customer(Sub Pop/Bella Union, 2018)
Off-Key in Hamburg(Live, Self Release Bandcamp, 2020)
Anthem +3 (Ep, Sub Pop/Bella Union, 2020)
Chloë and the Next 20th Century (Sub Pop/Bella Union, 2022)
J. TILLMAN
Business Of The heart (demo, 2002)
Untitled No. 1 (Broken Factory, 2003)

I Will Return (autoprodotto, 2004)

Long May You Run, J. Tillman (Keep Recordings, 2006)

Minor Works (Fargo, 2006)

Cancer And Delirium (Yer Bird, 2007)

Vacilando Territory Blues (Western Vinyl, 2009)
Year In The Kingdom (Western Vinyl, 2009)
Singing Ax (Western Vinyl, 2010)
SAXON SHORE
Be A Bright Blue (Broken Factory Records, 2002)
Four Months Of Darkness (Burnt Toast Vinyl, 2003)
FLEET FOXES
Helplessness Blues (Sub Pop, 2011)
JOSH TILLMAN
The History Of Caves (Sub Pop, 2013)

Pietra miliare
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