Introduzione: "Beef, Iron & Wine"
Dietro quella chitarra, la folta barba e il nome d'arte Iron & Wine – rubato all'integratore alimentare "Beef, Iron & Wine" - c'è Samuel Ervin Beam, nato in South Carolina nel luglio del 1974. Poi il giro dell'America: college in Virginia, Florida (dove si laurea e insegna Cinema), fino all'approdo a Durham, North Carolina. Sam è un tipo tranquillo, sposato da una vita con Kim e padre di cinque figlie. Faccia da prete, uno di quei pastori americani saggi e vissuti che dispensano consigli e sermoni dall'alto di un pulpito isolato tra i boschi (cosa che più o meno farà nel videoclip di “
Thomas County Law"). Beam, però, ha lasciato la retta via: nato cristiano in una delle zone più devote d'America, ora si professa ateo, nonostante la sua musica e la sua poesia siano piene d'immagini e riferimenti biblici. Se andate sul sito ufficiale, nella voce About troverete una frase impossibile da smentire: “Iron & Wine has captured the emotion and imagination of listeners with distinctly cinematic songs”. Una produzione inizialmente casalinga e
lo-fi, dove prima s'intrecciano le melodie d'una scarna chitarra e in seguito vengono aggiunte le parole. Dopo anni di tale routine, sarà decisivo l'acquisto di un quattro tracce per imprimere i primi demo che grazie all'aiuto di Michael Bridwell – fratello del cantante dei
Band Of Horses – inizieranno a girare, fino a suscitare l'interesse della Sub Pop. La storia di Iron & Wine inizia qui.
Prima parte: “Little things you’re familiar with"
L'esordio di Iron & Wine è The Creek Drank The Cradle del 2002. La voce arriva come un sussurro e porta con sé immagini potenti, metafore e l'uso del mondo animale come pretesto per raccontare le più complesse dinamiche dell'animo umano. Dentro i brani registrati in solitaria sul quattro tracce, troverete amore e fede e qualche bozzetto di rara liricità: “You're a poem of mystery/ You're the prayer inside me” ("Faded From The Winter"). Ad aprire l'album, l'arpeggio di "Lion's Mane", dove si presentano gli altri compagni di battaglia del Nostro: banjo e slide guitar. Composta sulla spiaggia di Miami, "Bird Stealing Bread" mostra uno dei tratti più preziosi dalla musica di Beam: una fusione sincera e nobile di malinconia e felicità, perdita e conforto, tristezza e una bellezza screziata d'amore, raccontata con il tono della confidenza fatta all'orecchio: “I've been thinking lately/ of a night on the stoop/ and all that we wouldn't say”. Ricordi e confessioni dove c'è spazio per qualche passeggiata insieme al Diavolo e a Cristo ("The Rooster Moans"), "Southern Anthem", fotografie da portare sempre con sé ("Weary Memory") e sfoggi d'una maturità compositiva notevole:
Who left you so?
Grace is a gift for the fallen, dear
You're an angry blade & you're brave
But you're all alone
Turning a shade of an angel born
In a bramble ditch when the doors
Of heaven closed
("An Angry Blade")
I capolavori di The Creek Drank The Cradle sono "Upward Over The Mountain", da cui è estrapolato il titolo dell'opera (“Mother, forget me now that the creek drank the cradle you sang to”) e "Muddy Hymnal". Il primo è un intenso dialogo-racconto di formazione tra il protagonista e sua madre (considerando l'universo di Iron & Wine, potrebbe anche essere la Madonna), mentre il secondo presenta gli scorci della vita di un giovane vedovo dopo il lutto.
Nick Drake,
Simon & Grafunkel,
Smog,
Donovan: i paragoni eccelsi e le recensioni entusiastiche si sprecano dopo un esordio di tale caratura, a cui seguono poco dopo due Ep:
Iron & Wine Tour Ep e
The Sea And The Rhythm. Sarà abitudine del cantautore sfornare con regolarità non solo Lp ma anche numerosi live, Ep e Archive Series. I venti minuti di
The Sea And The Rhythm proseguono il tragitto nelle limpide lande dipinte dall'esordio. Nella canzone che dà il titolo alla raccolta – supportata dai soliti nitidi accordi – appaiono le prime esplicite connotazioni sessuali dell'universo uomo-donna tratteggiato Beam, impreziosite da un bellissimo assolo di banjo: “Tonight we're the sea and the salty breeze/ The milk from your breast is on my lips/ And lovelier words from your mouth to me/ When salty my sweat and fingertips.” Il brano "The Sea And The Rhythm" verrà inserito nell'episodio finale della prima stagione di "The O.C.", inaugurando una collaborazione tra Iron & Wine e l'universo televisivo-cinematografico (spesso di marcato taglio
teenager) capace di garantirgli visibilità e
viewer clamorose se rapportare alle sue coordinate musicali. Da segnalare anche l'incontro con “Jesus The Mexican Boy” e la chiusura di "Someday The Waves", pronta ad aprire la strada a un imminente grande secondo capitolo.
Con
Our Endless Numbered Days, Iron & Wine dimostra di volersi concentrare non solo sui microcosmi chitarristici, ma anche sui linguaggi complessivi, sulle strutture della lunga distanza. Si parte con una sorta di blues per pizzicati mercuriali e notturni e chitarra lamentosa, solo fugacemente innalzato attraverso zone dal respiro più ampio ("On Your Wings"), e si prosegue con un pezzo dalle atmosfere distese e sognanti, abbagliato dalla luce del sole più terso e benevolo, in cui al solo arpeggio di chitarra è affidato il compito di condurre il gioco. Le anime poetiche del cantautore si alternano, riprendendo un conflitto interiore e artistico che è stato appannaggio dell'ultimo
Nick Drake (ma qui è meno complesso e sofferto) e che ha le sembianze del
Syd Barrett più scanzonato (ma qui c'è meno inventiva). Quello che interessa è notare l'andamento di quest'ultima dimensione, quella delle canzoni distese in tonalità maggiore. A volte sembrano l'una la continuazione dell'altra (solo interrotta dalle parentesi pensose), a volte sembrano voler andare oltre rispetto al discorso poetico-musicale intavolato dalla precedente, vuoi per la sottile brezza di gaio divertimento che in parte le attraversa ("Love And Some Verses"), vuoi per le atmosfere sempre più fragili ("Fever Dream"), vuoi per la catarsi chitarristica, irresistibile come un canto di Musa ("Each Coming Night") e claustrofobica come una
trance passeggera ("Sunset Soon Forget"). "Sodom, South Georgia" è un country-pop scandito e in andamento di marcetta con echi Palace Brothers (ma dalla buona efficacia melodica), ma è più che altro il brano che sancisce la prevalenza degli umori sereni, anche se fragili, sull'intera opera. La struttura binaria del disco sembra lasciar posto finalmente a una certa qual risoluzione del piccolo conflitto
in fieri. Pietra miliare della raccolta e vetta assoluta della discografia di Iron & Wine è “Naked As We Came”, cantata in duetto con la sorella Sarah, la quale accompagnerà altri brani e molti tour. La scena: autunno, una coppia (con figli, scopriremo in seguito) distesa in pace sull'erba. Piuttosto che scambiarsi le solite frasi romantiche di circostanza, opta per un'altra dichiarazione:
Uno di noi due morirà stretto tra queste braccia,
con gli occhi spalancati, nudi come venimmo al mondo;
uno di noi spargerà le nostre ceneri intorno al cortile.
'Tesoro', mi dice, 'se dovessi andarmene prima di te,
non lasciare che io giaccia sprecata nella terra'.
Io mi sdraio sorridendo, come i nostri bambini quando dormono.
A chiudere Our Endless Numbered Days, ci pensa "Passing Afternoon", dolce filastrocca che rassicura pacatamente (ma a tratti anche in modo febbrile e appassionato) i cuori fragili in ascolto.
Parte Seconda: Songs of the Shepherd's Dog
Nella carriera di Iron & Wine, l'Ep
Woman King ha una particolare importanza: è il disco in cui scorgiamo i primi suoni elettrici. Mai l'artista americano si era palesato così ritmato e sostenuto da così tanti suoni, ma se pensate che ciò sia uno stratagemma per mistificare contenuti e qualità, fortunatamente non è così. La “piccola” uscita - prodotta e suonata con l'aiuto di Brian Deck – ha molta sostanza. Il cantautore non solo cambia l'abito sonoro, ma investe ancora di più i testi di significative reinterpretazioni. Chi sia la Donna Re anticipata nella movimentata traccia d'apertura, viene svelato nella seconda composizione: è “Jezebel”, la biblica principessa fenicia di Sidone, futura sposa del Re d'Israele Acab. Una figura dalla fama non felice, passata nei secoli come corrutrice di anime e popoli al pari della più infame delle prostitute, solo recentemente rivalorizzata nell'ottica della donna forte, capace di resistere in un mondo e un pensiero totalmente maschile e maschilista. Un personaggio tragico e intenso, perfetto per entrare nella galleria di storie e persone nobilitata dall'arte di Beam, ancora focalizzato nel cosmo biblico e nella narrazione di vicende tragiche e poetiche. Il testo accenna agli aspetti più brutali della sua fine (“Her blouse on the ground/ Where the dogs were hungry, roaming”) intrecciandoli a un banjo, ai sussurri della sorella Sarah e alla speranza di un amore, componendo un'opera di preziosa umanità e fascino. A tenere compagnia alla sfortunata sorte della “Woman King”, altre figure femminili collegabili al Vecchio e Nuovo Testamento: Maria nella coinvolgente “Freedom Hangs Like Heaven” e il clamoroso finale di “Evening On The Ground (Lilith's Song)”, in cui archi e colpi di chitarra chiudono nel migliore dei modi la piccola grande pubblicazione.
Nel 2006 esce
In The Reins, frutto della collaborazione con alcuni amici e colleghi di vecchia data: niente meno che i
Calexico. La partenza è subito su un buon livello: apre i giochi "He Lays In The Reins" e a regnare sono le spazzolate desertiche dei Calexico tra
lap-steel, piano e percussioni
tex-mex; un pezzo dalla melodia altamente evocativa, memore dei brani cantati di "
The Black Light", affidata a Beam e a Salvador Duran, un tenore della scena flamenco di Tucson (dove il disco è stato registrato). Ruoli invertiti per "Prison On Route 41": se prima Beam fungeva da
vocalist per i Calexico, ora è la band dell'Arizona a fare da accompagnatrice alle gesta di Iron & Wine. Il brano, piacevole, è frutto esemplare della tenera penna del barbuto cantastorie, pennellate di
slide a profusione e incursioni di armonica e banjo nel corpo centrale. La vera e propria cooperazione inizia dal terzo brano, quando le distinte personalità iniziano a fondersi e a esplorare territori un po' comuni e un po' alieni alla loro musica. "History Of Lovers" si regge su un retroterra di chitarre ritmate e onnipresente
slide al contrappunto, prima di sfociare in un tripudio di fiati; "Red Dust" è un'acida jam blues-rock per chitarra, armonica e organetto; "16, Maybe Less" è invece il classico lentone d'atmosfera, tanto di classe quanto incline a tediare. Purtroppo si tratta di brani palesemente di maniera, incapaci di apportatore emozioni e sussulti di sorta. A parziale riscatto, giungono i contentini finali, dove nuovamente le strade tendono a separarsi. Il fumoso noir intessuto da "Burn That Broken Bed" porta il marchio dei Calexico, pronti a immergersi in un fosco blues dal quale esce, prezioso, un bel solo di tromba che porta il pezzo a morire. Meglio ancora e al livello del primo, riuscito, brano dell'Ep è il corale e accorato finale acustico prettamente Iron & Wine di "Dead Man's Will". Non resta che tirare le somme di questo
In The Reins, che, se non manca di qualche momento gustoso, viene a deludere proprio laddove ci si aspettava un salto di qualità.
The Shepherd's Dog dell'anno successivo conferma Iron & Wine come uno dei più grandi cantautori in circolazione. Se già
Our Endless Numbered Days aveva marcato passi di maturazione e svolta, cercando di dare un suono più colorato alle spartane delicatezze dell'esordio, oggi si arriva alla concretizzazione, l'attenzione si sposta sulla musica, sugli arrangiamenti stratificati e articolati, sulle tantissime varietà di tamburi, pelli, bicchieri, bacchette e ammenicoli vari utilizzati. I brani scorrono tesi, tra linee melodiche reiterate e strumenti in primo piano. E' il caso della spasmodica "White Tooth Man", dura e affilata, con tanto di suggestioni orientali; di "House By The Sea", paesaggio acquoso aperto da corni e armonica; di "Wolves (Song Of The Shepherd's Dog)", con la sua chitarrina funky e jam finale. Nonostante l'impegno profuso sui suddetti aspetti, Beam non dimentica le sue qualità emozionali. L'introversa "Carousel" e l'anticheria country "Resurrection Fern” scaldano i cuori. Passato dall'essere un melodista all'essere un musicista (le due anime si rendono complementari nelle ottime "Boy With A Coin" e "Lovesong Of The Buzzard"), Beam cuce un disco coeso, maturo, senza passaggi a vuoto, accolto dal solito plauso della critica. Come successo in passato, un brano del lotto finirà in un film di grande successo consegnando al Nostro numeri da capogiro: è "Flightless Bird, American Mouth" brano finale dell'album, inserito nella colonna sonora della famosa saga cinematografica di "Twilight". Un accostamento che farà storcere il naso a più di un fedelissimo seguace di Iron & Wine, ma che non toglie nulla alla cristallina bellezza del brano – ancora una delle sue
hit intoccabili – e che magari condurrà qualche giovane particolarmente sensibile verso ascolti più maturi.
Passati gli sforzi creativi dei pregevoli predecessori, Iron & Wine si rilassa con
Around The Well, classica collezione di rarità, inediti, scarti, cover e quant’altro. La raccolta è di fatto una retrospettiva
sui generis dell’evoluzione del cantautore, partito dal torbido
lo-fi da cameretta (in cui si stagliano le
ballad Neil Young-iane di “Hickory” e “Peng!”), dedito al blues acustico, al country e ai solfeggi Drake-iani del suo baritono melodioso, e approdato a un primo tentativo di arrangiare le sue canzoni con tocchi arcani ma essenzialissimi (“Sinning Hands”, “No Moon”). Terzo e ultimo stadio della sua ancora breve carriera è quello relativo agli arrangiamenti più stratificati di
The Shepherd’s Dog, in cui si fanno largo alcuni esperimenti (il blues aereo di “Carried Home”, il raga di “Serpent Charmer”) e licenze varie (l’elettronica di “Kingdom Of The Animals” e “Arms Of A Thief”). Gustose cover, "Peng!" (
Stereolab), “Waitin’ For A Superman” (
Flaming Lips) e “Love Vigilantes” (
New Order), e soprattutto “Such Great Heights” dei colleghi di etichetta The Postal Service. Qualche musica per il cinema composta per “In a Good Company” di Paul Weitz, tra cui una canzone su cui non possiamo non soffermarci, anche per non far torto ai tantissimi fan che l'adorano come poche: “The Trapeze Swinger”. Quasi dieci minuti in cui Beam scatena tutto il suo talento, componendo un mini-poema incentrato su amore, Dio e morte venato però di ambiguità e mistero. Non ci è ben chiara la sorte di questa trapezista, ogni strofa inizia con un sentito “Please, remember me” e continua presentando figure affettive (la fidanzata, la madre) e altre più enigmatiche e ultraterrene (la scimmia, Dio, Lucifero, l'Angelo che bacia il Peccatore): sappiamo solo che il brano è uno dei risultati più magici ed “estremi” mai composti, il cui misterioso fascino continua ancora a stregare gli ascoltatori.
Parte Terza: Kiss & Ghosts
Giunto alla sua quarta prova con
Kiss Each Other Clean (2011), il cantautore statunitense si ritrova dunque investito di una grande responsabilità, dovendo confrontarsi con una passata produzione discografica di grande spessore e con aspettative certamente altissime. Ma Sam Beam è un uomo tutto d'un pezzo, che va dritto per la sua strada vivendo la musica per come la "sente", lasciando briglia sciolta alla sua creatività di artista senza farsi condizionare dai riverberi del successo, neanche quando quest'ultimo assume le sembianze di un fantasma "ingombrante" come
The Shepherd's Dog. È così che con
Kiss Each Other Clean il
songwriter risponde alle attese, discostandosi in larga misura dall'intimismo bucolico dell'illustre predecessore e virando su colorate atmosfere pop.
Anticipato a fine 2010 dall'eloquente singolo "Walking Far From Home", il nuovo lavoro si caratterizza per una produzione ricchissima, che tra distorsioni ad effetto e incursioni elettroniche, tra
backing vocals da hit radiofoniche e un variegato ventaglio strumentale, si stratifica sui brani, donando loro connotazioni tra le più disparate (si spazia dall'ancestralità tribale di "Monkeys Uptown" alle visioni futuribili di "Rabbit Will Run", dal pop
seventies di "Tree By The River" al modernariato jazz di "Big Burned Hand").
L'eccelsa capacità di scrittura emerge nel corso di
Kiss Each Other Clean con straordinaria forza espressiva, elevandosi nell'eleganza senza tempo di "Godless Brother In Love" (forse il brano più suggestivo dell'album), nel piglio deciso di "Your Fake Name Is Good Enough For Me", nella vellutata morbidezza di "Me And Lazarus" o di "Glad Man Singing", nella stravaganza di "Big Burned Hand". Ed è proprio una controllata stravaganza a costituire il fulcro tanto musicale quanto narrativo del disco, spostando in maniera ancora più decisa che in passato la barra di navigazione artistica di Iron & Wine dall'intimismo folk
lo-fi delle origini a un caleidoscopio che comprende jazz, country-blues, incursioni etniche e derive vagamente acide.
Il rinnovato estro di Sam Beam ricorre fedelmente nei testi, attraverso apparenti
nonsense ("I saw flowers on the hillside and a millionaire pissing on the lawn", "judgement is just a cup we share") e simbologie bibliche, ma si manifesta soprattutto in una ricchezza di soluzioni sonore connotate da una sensibilità pop mai così spiccata e supportate da una vera e propria band, nella quale musicisti di valore (tra i quali meritano una citazione Thomas Bartlett
aka Doveman e i due
Califone Joe Adamik e Jim Becker) si avvicendano a fiati e ritmiche, chitarre ed elettronica, sotto l'abile guida del produttore Brian Deck.
La tavolozza di Beam si arricchisce di un certo gusto orchestrale e di arrangiamenti sempre nuovi e colorati, senza perdere tuttavia di vista quel candore e quella vena intimista che da sempre accompagnano la musica del cantautore americano: si alternano così la vivacità
black di "Half Moon", il rock da highway di "Tree By The River" e il trascinante mantra che chiude il disco, con la scarna leggerezza di compunti frammenti pianistici e ballate di folk acustico, in fondo non poi così distanti da quelle di
Our Endless Numbered Days (in particolare, "Godless Brother In Love").
Il soul, a pensarci bene, sembra l’ambientazione d’elezione per un cantautore come Iron & Wine, per le sue composizioni, così fluide ed emotive. Molto più delle contaminazioni world e latine che avevano caratterizzato la musica di Beam da
The Shepherd’s Dog in poi. Con il nuovo
Ghost on Ghost del 2013, il contorno – la batteria jazz, le seconde voci, il pianoforte – pare misurato con estrema precisione, a creare un omaggio agli anni 70 del soul, appunto, e alle prime contaminazioni tra jazz e cantautorato. “It all came down to you and I”: come dichiarato dallo stesso Beam, è la coppia il tema centrale del disco, dalle ombrose, teatrali “Singers And The Endless Song” e “Low Light Buddy Of Mine”, che sembrano ambientate nella “Hadestown” di Anais Mitchell, al
Marvin Gaye di “The Desert Babbler”, nella quale viene fuori sicuramente il meglio che la musica di Iron & Wine possa offrire. Quando la voce di Beam si invola sui suoi falsetti di velluto (“New Mexico’s No Breeze”), o scivola nei suoi gorgheggi di usignolo (“Joy”), si capisce subito che la magia di Iron & Wine è più limpida che mai. L’universalità è un tratto fondamentale e dichiarato della musica di Beam, e anche in
Ghost On Ghost l’empatia con canzoni d’innamoramento giovanile, come la stupenda “Baby Center’s Stage”, è acuita dal contorno di archi,
slide, pianoforte, in un brano che definisce il genere “soft Americana”. L’acustica diventa definitivamente uno strumento ausiliario (un frinire sommesso in “Grace For Saints And Ramblers”), dimenticato anche quando sarebbe stato sufficiente un arpeggio come accompagnamento - e invece si trasforma in un “a cappella” in “Sundown (Back In The Briars)”). Ma il passaggio è indolore, qui, per la grande attenzione all’unitarietà del disco e alla complementarietà degli arrangiamenti, che, anzi, danno grande respiro alle composizioni più verbose di Beam, come nella gentilmente montante “Lovers' Revolution”, che sfocia in una jam tra percussioni e sax.
Due anni dopo, esce
Sing Into My Mouth, con Ben Bridwell dei
Band Of Horses. Album di cover che fin dal titolo rende omaggio alla canzone dei
Talking Heads ad inizio raccolta: la celebre “This Must Be The Place (Naive Melody)”. Raccolta in cui ogni brano viene – come da copione – rivisto in chiave folk senza infamia e senza lode.
Nello stesso anno, parte anche la raccolta delle Archive Series. Il
Volume No.1 è registrazione
homemade dei brani composti tra l'esordio e il successivo ep del 2003, a testimonianza dell'irrefrenabile vena creativa.
Seguiranno il
No. 2 tutto dedicato a Sua Maestà
Neil Young e per il Record Store Day l'
Archive Series Volume No. 3: 7” contenente gli inediti dalla stagione 1999-2000 “Stranger Lay Beside Me” e “Miss Bottom Of The Hill”.
Il quarto capitolo esce invece per festeggiare i 10 anni di
The Shepherd’s Dog.
Ma è già tempo di nuove collaborazioni, così nel 2016, arriva
Love Letter For Fire, a firma Sam Beam e
Jesca Hoop. Il progetto ha avuto origine da Beam, che aveva già qualche canzone pensata negli anni appositamente per un disco come questo. Il canovaccio, quindi, è più o meno tangibilmente riconoscibile come quello di un disco di Iron & Wine. Ma le sfumature in musica spesso sono tutto, per cui a volte anche brani marchiati I&W, come la melodia carezzevole di "Valley Clouds", prendono direzioni e spunti che forse non avrebbero preso, se non fossero passati tra le mani della Hoop. Così emergono le sfumature pop della scrittura di quest'ultima, più vicina a
Kate Bush e a
Bjork che ai nomi più tradizionali del cantautorato femminile statunitense, come nelle suggestioni cameristiche di "We Two Are A Moon", o negli svolazzi amorosi di "Every Songbird Says". Più generale l'estetica della Hoop - la cui musica è stata appunto descritta da
Tom Waits come "una nuotata in un lago di notte" - influenza l'ambientazione generale del disco, una suggestione che dà profondità e carattere ai brani. I musicisti coinvolti sono da
all star game, per citarne uno: Glenn Kotche alla batteria. Si attenua così, anche con qualche accorgimento negli arrangiamenti, più sobri e minimalisti che nelle ultime uscite I&W, la sensazione vagamente stucchevole che può lasciare l'ascolto prolungato delle canzoni di Beam. Il pericolo era ancora maggiore con la scelta di un disco a due, ma il risultato è molto ben bilanciato tra numeri più classici, radiofonici ("One Way To Pray") e intermezzi più spigolosi ("Midas Tongue", "Chalk It Up To Chi" è farina del sacco della Hoop), e uno stato di grazia generale che porta a pensare al disco come a uno degli apici artistici dell'anno in corso, nonostante l'inevitabile prurito manieristico di sottofondo.
Parte quarta: L'epopea della Bestia
Un lungo componimento in versi di carattere allegorico nel quale i protagonisti sono animali con sentimenti e comportamenti umani.
Dopo una serie di pubblicazioni più esuberanti, sia dal punto di vista espressivo (il respiro quasi
groovy del precedente
Ghost On Ghost e il vago flirt avanguardistico della collaborazione con Jesca Hoop) che della scrittura,
Beast Epic rischia spesso di orientarsi al "carino", al gradevole, appoggiandosi un po' troppo all'inconfondibile timbrica carezzevole di Beam e un po' meno alle intuizioni melodiche della sua scrittura, qui spesso ingranata sul cambio automatico ("Bitter Truth"), senza mai scadere nell'auto-tributo
tout court, regalando però contentini piuttosto che nuovi classici dell'epopea del suo folk romanticamente melodico ("Song In Stone") dove spicca di più il country-rock acustico alla Steve Gunn di "Call It Dreaming". L'impressione generale è quella di un disco di transizione, pieno di canzoni tranquillamente dimenticabili, ma che presentano tutte gli elementi fondamentali della musica di Iron & Wine, che ha buon gioco soprattutto nell'accennare alla prima parte di carriera, pur con uno spirito meno
singer-songwriter ("Right For Sky"). Un disco insospettabilmente "sicuro", per un artista che ci aveva abituato a cercare nuovi orizzonti, più che alla propria espressione sonora, alla propria scrittura.
Non si definisca questo
Weed Garden come un Ep di scarti, di
outtake accantonate per qualsivoglia motivo, poiché la realtà porta a considerazioni leggermente diverse. Se non fosse che queste canzoni non sono state completate in tempo per la pubblicazione di
Beast Epic, l'ennesimo cambio d'abito per Sam Beam e la sua creatura Iron & Wine, probabilmente le stesse avrebbero goduto di una sorte diversa. La storia non si fa però con i se, è quindi solo a un anno dall'uscita del progetto madre che vede la luce il nuovo pacchetto di sei brani, in ovvia continuità con il lavoro principale. Con un impianto stilistico che elabora ulteriormente il fascinoso corredo
chamber-americana dell'album, sviluppato però su una scrittura decisamente più docile ed emotiva, il progetto funge da complemento ottimale a quest'era discografica, evidenziando aspetti rimasti in sordina, nel rispetto di una grande compattezza di intenti. Con l'omogeneità, oltre al consolidato fascino realizzativo di Beam si accompagnano anche aspetti meno convincenti, già riscontrati nella prova principale, che qui semplicemente si ripropongono con una veste leggermente diversa. Affiorano, quindi, con prepotenza le straordinarie abilità arrangiative dell'autore, capace di muoversi tra più esplicite aperture cameristiche (lo sfavillante tappeto d'archi di “Waves Of Galveston”, gli scherzi di pianoforte e i bordoni vocali di una più peculiare “Milkweed”), pregevoli confezioni alt-country (la ruspante “Last Of Your Rock'n'Roll Heroes”) e ballate
soulful, in linea con le aperture romantiche di “Ghost On Ghost” (“Talking To Fog”, con tanto di ampio climax finale). Il tutto però avviene a scapito di una scrittura che continua a essere seduta su moduli abbondantemente utilizzati dal musicista, su un carrello di melodie che mette in risalto la commovente grana emozionale della sua penna (“What Hurts Worse” l'esempio-principe, sin dal titolo), ma non aggiunge molto di più a una calligrafia piuttosto statica, per quanto di classe.
Weed Garden è un dignitoso corollario a una stagione di grande fervore creativo, un piccolo cofanetto di brani che attrarrà gli inossidabili fan di una delle maggiori menti folk degli ultimi venti anni, che non schiude però nuove porte. Resta un piccolo contentino, per saziare gli appetiti in attesa di una nuova ridefinizione.
Nelle memorie di Sam Beam della prima collaborazione coi Calexico, che data quasi quindici anni, c’è questa immagine: “Nella mia mente, io ero il tizio che sapeva tre accordi e registrava in un armadio, loro suonavano sui palchi più grandi ed erano musicisti superbi”. Già in questa dichiarazione c’è qualcosa che può spiegare la diffidenza verso questo nuova collaborazione, il progetto
Years To Burn (2019). Ciò che danno i Calexico a Iron & Wine, forse, non è quello che gli estimatori di quest’ultimo cercano nella sua musica (e anche il contrario, probabilmente). Già l’acclamato
In The Reins, del resto, soffriva di questo dualismo solo apparentemente ben congegnato, in cui Sam Beam è alternativamente
vocalist di canzoni non sue e i Calexico arrangiatori di canzoni non loro. In certi frangenti, l’autore di “Trapeze Swinger” e di tantissime altre melodie memorabili deve dimenticarsi di essere prima di tutto grande scrittore di musica, per limitarsi a fare il corista in lunghe suite “da grande palco”, fatte per sovrapposizione ma senza un briciolo di tema unificante (“The Bitter Suite”). In altri episodi, come nell’iniziale “What Heaven’s Left”, l’accompagnamento (con gli insistiti controcanti country, come in altri brani) non aggiunge freschezza a un brano che, per dirla tutta, è quasi un gesto automatico per uno come Sam Beam.
Years To Burn è un prodotto che si fonda sulla presentabilità dei suoi autori, ma che paradossalmente riesce nell’impresa di offrire meno della loro somma.
Il quinto appuntamento degli “Archive Series” di Iron & Wine è un tassello basilare dei primi passi di carriera. Se Archive Series Volume No. 1 raccoglieva tracce casalinghe inedite composte a ridosso dell'esordio The Creek Drank The Cradle (2002), Tallahassee Recordings si sposta ancora più indietro nel tempo. Siamo tra il 1998 e il 1999 e Beam imprime su nastro ventiquattro tracce. Tra queste, ne vengono selezionate undici, a voler comporre un album “perso nel tempo”, come scritto sul sito ufficiale. Nella storia di Iron & Wine un ruolo importante lo ricoprono gli amici, le persone vicine, capaci di dare una piccola svolta al percorso artistico. Michael Bridwell (fratello di Ben, cantante dei Band Of Horses) portò le registrazioni su quattro piste alla futura etichetta, e altrettanto importante fu il coinquilino EJ Holowicki, che prestò il provvidenziale registratore per le session casalinghe. E su quei nastri dove Holowicki suona il basso, troviamo le Tallahassee Recordings. Il titolo proviene dal College of Motion Picture Arts della Florida State University, università dove il futuro cantautore studiava cinema. Rimanendo nel mondo della settima arte, quest'uscita potrebbe essere la sua biophic “begins”: la storia intenta a ricostruirne la vita antecedente il grande passo, la notorietà. Aperto dall'incedere lento di “Why Hate the Winter” e attraversato dalle storie di sangue di “John's Glass Eye”, è difficile credere che Tallahassee rappresenti l'inedito approccio “serio” al mondo della musica da parte di Beam: siamo in perfetta continuità con The Creek Drank The Cradle e gli scarni capitoli iniziali della sua opera, almeno fino a Our Endless Numbered Days. Nonostante Holowicki ha abbia rimesso le mani sui nastri (da queste incisioni è rimasto poi un collaboratore di Iron & Wine), il risultato è più grezzo a causa delle circostanze di registrazione, ma la voce e la mano sulla chitarra sono chiaramente riconoscibili. Anzi, “This Solemn Day ” con i battiti di batteria e i tagli dell'armonica o “Elizabeth” e gli annessi intrecci di chitarra, potrebbero uscire adesso come inedito. A livello testuale, si stagliano le coordinate dell'universo di Iron & Wine. I tratti non sono definiti e i colori sono meno incisi rispetto alle opere ufficiali, ma nei versi di troviamo il suo sguardo puntato verso gli argomenti da cui non si staccherà più. Le presenza del mondo animale, gli strazi (spesso amorosi, “Valentine”, “Ex-Lover Lucy Jones” ) dell'animo umano e la predilezione per vicende dal sapore amaro. E se al momento, l'ultima produzione con i Calexico si chiama Years to Burn, dei primi anni di Iron & Wine non c'è nulla da bruciare.
La potenza evocativa delle composizioni di Sam Beam è sempre stata uno dei suoi marchi di fabbrica, anche per questo il suo canzoniere è stato saccheggiato da serie tv e film (“The L Word”, “Dr. House”, “Twilight”) che hanno trovato nelle sue trame leggere e romantiche la perfetta colonna sonora. In Who Can See Forever (2023), invece, il protagonista del “film” diventa proprio il cantautore della Carolina del Sud, catturato sia nella dimensione live in due serate presso la storica Haw River Ballroom di Saxapahaw, nella Carolina del Nord, che nei momenti più intimi nella sua casa di legno immersa nel verde di Durham, insieme con la moglie e le sue cinque figlie. Il regista Josh Sliffe aveva il compito di realizzare un documentario dal vivo, ma man mano che trascorreva il tempo con Beam ha capito che la famiglia, gli amici, i momenti creativi nel suo studio di registrazione o i lavori di pittura nel retro della casa erano tutti pezzi di una storia che meritava d’essere raccontata nella sua interezza.
Le canzoni che compongono l’album sono rivisitazioni live di alcuni dei brani più amati degli Iron & Wine: “Passing Afternoon” è struggente come un pomeriggio di novembre passato sotto il portico a guardare le foglie piegate dalla pioggia mentre nella mente passano scelte, rimpianti, ricordi, affastellati come solo la memoria sa fare; “The Trapeze Swinger”, incisa nel 2005 per il film “In Good Company”, è il testamento di un uomo schivo cresciuto a folk e Bibbia in un piccolo centro rurale, ora alla ricerca di un qualcosa che spieghi gioie e fallimenti, cicatrici e sorrisi, lacrime versate e provocate, non trovando in un Dio monoteista la risposta all’inquietudine della propria anima.
Da quest’ultima proviene il verso che dà il titolo all’album, Who Can See Forever, un flusso di 19 brani illuminati dalla grazia compositiva di Beam, dalla sua voce dolce e leggermente rotta, dalla batteria e percussioni di Elizabeth Goodfellow, dalle tastiere e mandolino di Eliza Hardy Jones, dal violoncello di Teddy Rankin-Parker e dal basso di Sebastian Steinberg. “Grace For Saints And Ramblers” ha il passo dylaniano con uno spoken word che sovrasta gli origami di nuvole disegnati dal violoncello, mentre “Thomas County Law” – scelta come primo video promozionale del film – è intima, calda, accogliente, impreziosita da cori impalpabili e da un’andatura dolcemente ribelle.
Ogni composizione è un ritratto interiore suggestivo, un pezzetto di storia privata che parla al cuore di tutti, perché la forza dello storyteller è proprio quella di calarsi nel mondo con i nervi a fior di pelle, pronti a catturare debolezze, paure e speranze: “Uno di noi morirà tra queste braccia/ Occhi spalancati/ Nudi come siamo arrivati”, canta con un filo di voce Sam in “Naked As We Came”, mentre con la chitarra tratteggia arpeggi delicati.
Un anno dopo, con Light Verse (2024), torna nell'universo di Beam l’ispirazione immobilizzata negli anni della pandemia. Contraddistinto sempre da toni sereni e pacati, l'album pubblicato ancora da Sub Pop, è caratterizzato da momenti "leggeri", anticipati fin dal titolo. E che tutto sia tornato alla normalità, lo capiamo con "You Never Know", la traccia iniziale. Superati i rumori e le distorsioni dei primissimi secondi, ecco - come se niente fosse - il ritorno di Iron & Wine accompagnato dalla chitarra acustica, l'inconfondibile voce e quei suoni "scricchiolanti" che ci danno l'impressione di vederlo suonare sul portico in legno della sua abitazione. Meno fragile e romantico rispetto ai lavori passati, sostenuto da suoni corposi e arrangiamenti strumentali con cui spesso "duetta" (basti ascoltare il finale di "Tears That Don’t Matter"), Beam compone ancora grandi canzoni: da quelle sorprendentemente più trascinanti - “Sweet Talk” o la pregevole manifattura pop di “Anyone’s Game” - ai momenti più struggenti che lo hanno reso celebre in tutto il mondo (“Taken By Surprise”, la conclusiva "Angels Go Home"). Se poi nel gioco ci si mette anche Fiona Apple, l’asticella della qualità si solleva. Il timbro vocale del cantautore si incastra perfettamente ai graffi rochi della collega e il suo pianoforte in “All in Good Time”. Il resto è cantautorato americano di qualità garantito 100 % dalla ditta Iron & Wine.
Iron & Wine è un raro caso di talento del sottobosco che emerge nel mainstream (ha raccolto anche quattro candidature ai Grammy) senza perdere un grammo di onestà e ispirazione, perché in fondo sa fare solo una cosa… raccontare la materia di cui siamo fatti, tra stelle e cenere, e lo fa come pochi.
Contributi di Lorenzo Righetto ("Beast Epic", "Love Letter For Fire", "Ghost On Ghost"), Vassilios Karagiannis ("Weed Garden"), Alessandra Reale, Raffaello Russo ("Kiss Each Other Clean"), Michele Saran ("Around The Well","Our Endless Numbered Days"), Ciro Frattini ("The Shepherd's Dog"), Barbara Tomasino ("Who Can See Forever")