Composta sulla spiaggia di Miami, "Bird Stealing Bread" mostra uno dei tratti più preziosi dalla musica di Beam: una fusione sincera e nobile di malinconia e felicità, perdita e conforto, tristezza e una bellezza screziata d'amore, raccontata con il tono della confidenza fatta all'orecchio: “I've been thinking lately/ of a night on the stoop/ and all that we wouldn't say”. Ricordi e confessioni dove c'è spazio per qualche passeggiata insieme al Diavolo e a Cristo ("The Rooster Moans"), "Southern Anthem", fotografie da portare sempre con sé ("Weary Memory") e sfoggi d'una maturità compositiva notevole:
Who left you so?
Grace is a gift for the fallen, dear
You're an angry blade & you're brave
But you're all alone
Turning a shade of an angel born
In a bramble ditch when the doors
Of heaven closed
("An Angry Blade")
Da segnalare anche l'incontro con “Jesus The Mexican Boy” e la chiusura di "Someday The Waves", pronta ad aprire la strada a un imminente grande secondo capitolo.
"Sodom, South Georgia" è un country-pop scandito e in andamento di marcetta con echi Palace Brothers (ma dalla buona efficacia melodica), ma è più che altro il brano che sancisce la prevalenza degli umori sereni, anche se fragili, sull'intera opera. La struttura binaria del disco sembra lasciar posto finalmente a una certa qual risoluzione del piccolo conflitto in fieri.
Pietra miliare della raccolta e vetta assoluta della discografia di Iron & Wine è “Naked As We Came”, cantata in duetto con la sorella Sarah, la quale accompagnerà altri brani e molti tour. La scena: autunno, una coppia (con figli, scopriremo in seguito) distesa in pace sull'erba. Piuttosto che scambiarsi le solite frasi romantiche di circostanza, opta per un'altra dichiarazione:
Uno di noi due morirà stretto tra queste braccia,
con gli occhi spalancati, nudi come venimmo al mondo;
uno di noi spargerà le nostre ceneri intorno al cortile.
'Tesoro', mi dice, 'se dovessi andarmene prima di te,
non lasciare che io giaccia sprecata nella terra'.
Io mi sdraio sorridendo, come i nostri bambini quando dormono.
A tenere compagnia alla sfortunata sorte della “Woman King”, altre figure femminili collegabili al Vecchio e Nuovo Testamento: Maria nella coinvolgente “Freedom Hangs Like Heaven” e il clamoroso finale di “Evening On The Ground (Lilith's Song)”, in cui archi e colpi di chitarra chiudono nel migliore dei modi la piccola grande pubblicazione.
Nel 2006 esce In The Reins, frutto della collaborazione con alcuni amici e colleghi di vecchia data: niente meno che i Calexico. La partenza è subito su un buon livello: apre i giochi "He Lays In The Reins" e a regnare sono le spazzolate desertiche dei Calexico tra lap-steel, piano e percussioni tex-mex; un pezzo dalla melodia altamente evocativa, memore dei brani cantati di "The Black Light", affidata a Beam e a Salvador Duran, un tenore della scena flamenco di Tucson (dove il disco è stato registrato). Ruoli invertiti per "Prison On Route 41": se prima Beam fungeva da vocalist per i Calexico, ora è la band dell'Arizona a fare da accompagnatrice alle gesta di Iron & Wine. Il brano, piacevole, è frutto esemplare della tenera penna del barbuto cantastorie, pennellate di slide a profusione e incursioni di armonica e banjo nel corpo centrale.
La vera e propria cooperazione inizia dal terzo brano, quando le distinte personalità iniziano a fondersi e a esplorare territori un po' comuni e un po' alieni alla loro musica. "History Of Lovers" si regge su un retroterra di chitarre ritmate e onnipresente slide al contrappunto, prima di sfociare in un tripudio di fiati; "Red Dust" è un'acida jam blues-rock per chitarra, armonica e organetto; "16, Maybe Less" è invece il classico lentone d'atmosfera, tanto di classe quanto incline a tediare.
Purtroppo si tratta di brani palesemente di maniera, incapaci di apportatore emozioni e sussulti di sorta. A parziale riscatto, giungono i contentini finali, dove nuovamente le strade tendono a separarsi. Il fumoso noir intessuto da "Burn That Broken Bed" porta il marchio dei Calexico, pronti a immergersi in un fosco blues dal quale esce, prezioso, un bel solo di tromba che porta il pezzo a morire. Meglio ancora e al livello del primo, riuscito, brano dell'Ep è il corale e accorato finale acustico prettamente Iron & Wine di "Dead Man's Will".
Non resta che tirare le somme di questo In The Reins, che, se non manca di qualche momento gustoso, viene a deludere proprio laddove ci si aspettava un salto di qualità.
Nonostante l'impegno profuso sui suddetti aspetti, Beam non dimentica le sue qualità emozionali. L'introversa "Carousel" e l'anticheria country "Resurrection Fern” scaldano i cuori. Passato dall'essere un melodista all'essere un musicista (le due anime si rendono complementari nelle ottime "Boy With A Coin" e "Lovesong Of The Buzzard"), Beam cuce un disco coeso, maturo, senza passaggi a vuoto, accolto dal solito plauso della critica. Come successo in passato, un brano del lotto finirà in un film di grande successo consegnando al Nostro numeri da capogiro: è "Flightless Bird, American Mouth" brano finale dell'album, inserito nella colonna sonora della famosa saga cinematografica di "Twilight". Un accostamento che farà storcere il naso a più di un fedelissimo seguace di Iron & Wine, ma che non toglie nulla alla cristallina bellezza del brano – ancora una delle sue hit intoccabili – e che magari condurrà qualche giovane particolarmente sensibile verso ascolti più maturi.
Passati gli sforzi creativi dei pregevoli predecessori, Iron & Wine si rilassa con Around The Well, classica collezione di rarità, inediti, scarti, cover e quant’altro. La raccolta è di fatto una retrospettiva sui generis dell’evoluzione del cantautore, partito dal torbido lo-fi da cameretta (in cui si stagliano le ballad Neil Young-iane di “Hickory” e “Peng!”), dedito al blues acustico, al country e ai solfeggi Drake-iani del suo baritono melodioso, e approdato a un primo tentativo di arrangiare le sue canzoni con tocchi arcani ma essenzialissimi (“Sinning Hands”, “No Moon”).
Terzo e ultimo stadio della sua ancora breve carriera è quello relativo agli arrangiamenti più stratificati di The Shepherd’s Dog, in cui si fanno largo alcuni esperimenti (il blues aereo di “Carried Home”, il raga di “Serpent Charmer”) e licenze varie (l’elettronica di “Kingdom Of The Animals” e “Arms Of A Thief”).
Gustose cover, "Peng!" (Stereolab), “Waitin’ For A Superman” (Flaming Lips) e “Love Vigilantes” (New Order), e soprattutto “Such Great Heights” dei colleghi di etichetta The Postal Service. Qualche musica per il cinema composta per “In a Good Company” di Paul Weitz, tra cui una canzone su cui non possiamo non soffermarci, anche per non far torto ai tantissimi fan che l'adorano come poche: “The Trapeze Swinger”. Quasi dieci minuti in cui Beam scatena tutto il suo talento, componendo un mini-poema incentrato su amore, Dio e morte venato però di ambiguità e mistero. Non ci è ben chiara la sorte di questa trapezista, ogni strofa inizia con un sentito “Please, remember me” e continua presentando figure affettive (la fidanzata, la madre) e altre più enigmatiche e ultraterrene (la scimmia, Dio, Lucifero, l'Angelo che bacia il Peccatore): sappiamo solo che il brano è uno dei risultati più magici ed “estremi” mai composti, il cui misterioso fascino continua ancora a stregare gli ascoltatori.
Parte Terza: Kiss & Ghosts
Anticipato a fine 2010 dall'eloquente singolo "Walking Far From Home", il nuovo lavoro si caratterizza per una produzione ricchissima, che tra distorsioni ad effetto e incursioni elettroniche, tra backing vocals da hit radiofoniche e un variegato ventaglio strumentale, si stratifica sui brani, donando loro connotazioni tra le più disparate (si spazia dall'ancestralità tribale di "Monkeys Uptown" alle visioni futuribili di "Rabbit Will Run", dal pop seventies di "Tree By The River" al modernariato jazz di "Big Burned Hand").
L'eccelsa capacità di scrittura emerge nel corso di Kiss Each Other Clean con straordinaria forza espressiva, elevandosi nell'eleganza senza tempo di "Godless Brother In Love" (forse il brano più suggestivo dell'album), nel piglio deciso di "Your Fake Name Is Good Enough For Me", nella vellutata morbidezza di "Me And Lazarus" o di "Glad Man Singing", nella stravaganza di "Big Burned Hand". Ed è proprio una controllata stravaganza a costituire il fulcro tanto musicale quanto narrativo del disco, spostando in maniera ancora più decisa che in passato la barra di navigazione artistica di Iron & Wine dall'intimismo folk lo-fi delle origini a un caleidoscopio che comprende jazz, country-blues, incursioni etniche e derive vagamente acide.
Il rinnovato estro di Sam Beam ricorre fedelmente nei testi, attraverso apparenti nonsense ("I saw flowers on the hillside and a millionaire pissing on the lawn", "judgement is just a cup we share") e simbologie bibliche, ma si manifesta soprattutto in una ricchezza di soluzioni sonore connotate da una sensibilità pop mai così spiccata e supportate da una vera e propria band, nella quale musicisti di valore (tra i quali meritano una citazione Thomas Bartlett aka Doveman e i due Califone Joe Adamik e Jim Becker) si avvicendano a fiati e ritmiche, chitarre ed elettronica, sotto l'abile guida del produttore Brian Deck.
La tavolozza di Beam si arricchisce di un certo gusto orchestrale e di arrangiamenti sempre nuovi e colorati, senza perdere tuttavia di vista quel candore e quella vena intimista che da sempre accompagnano la musica del cantautore americano: si alternano così la vivacità black di "Half Moon", il rock da highway di "Tree By The River" e il trascinante mantra che chiude il disco, con la scarna leggerezza di compunti frammenti pianistici e ballate di folk acustico, in fondo non poi così distanti da quelle di Our Endless Numbered Days (in particolare, "Godless Brother In Love").
Quando la voce di Beam si invola sui suoi falsetti di velluto (“New Mexico’s No Breeze”), o scivola nei suoi gorgheggi di usignolo (“Joy”), si capisce subito che la magia di Iron & Wine è più limpida che mai. L’universalità è un tratto fondamentale e dichiarato della musica di Beam, e anche in Ghost On Ghost l’empatia con canzoni d’innamoramento giovanile, come la stupenda “Baby Center’s Stage”, è acuita dal contorno di archi, slide, pianoforte, in un brano che definisce il genere “soft Americana”.
L’acustica diventa definitivamente uno strumento ausiliario (un frinire sommesso in “Grace For Saints And Ramblers”), dimenticato anche quando sarebbe stato sufficiente un arpeggio come accompagnamento - e invece si trasforma in un “a cappella” in “Sundown (Back In The Briars)”). Ma il passaggio è indolore, qui, per la grande attenzione all’unitarietà del disco e alla complementarietà degli arrangiamenti, che, anzi, danno grande respiro alle composizioni più verbose di Beam, come nella gentilmente montante “Lovers' Revolution”, che sfocia in una jam tra percussioni e sax.
Nello stesso anno, parte anche la raccolta delle Archive Series. Il Volume No.1 è registrazione homemade dei brani composti tra l'esordio e il successivo ep del 2003, a testimonianza dell'irrefrenabile vena creativa.
Seguiranno il No. 2 tutto dedicato a Sua Maestà Neil Young e per il Record Store Day l'Archive Series Volume No. 3: 7” contenente gli inediti dalla stagione 1999-2000 “Stranger Lay Beside Me” e “Miss Bottom Of The Hill”.
Il quarto capitolo esce invece per festeggiare i 10 anni di The Shepherd’s Dog.
Così emergono le sfumature pop della scrittura di quest'ultima, più vicina a Kate Bush e a Bjork che ai nomi più tradizionali del cantautorato femminile statunitense, come nelle suggestioni cameristiche di "We Two Are A Moon", o negli svolazzi amorosi di "Every Songbird Says".
Più generale l'estetica della Hoop - la cui musica è stata appunto descritta da Tom Waits come "una nuotata in un lago di notte" - influenza l'ambientazione generale del disco, una suggestione che dà profondità e carattere ai brani. I musicisti coinvolti sono da all star game, per citarne uno: Glenn Kotche alla batteria. Si attenua così, anche con qualche accorgimento negli arrangiamenti, più sobri e minimalisti che nelle ultime uscite I&W, la sensazione vagamente stucchevole che può lasciare l'ascolto prolungato delle canzoni di Beam.
Il pericolo era ancora maggiore con la scelta di un disco a due, ma il risultato è molto ben bilanciato tra numeri più classici, radiofonici ("One Way To Pray") e intermezzi più spigolosi ("Midas Tongue", "Chalk It Up To Chi" è farina del sacco della Hoop), e uno stato di grazia generale che porta a pensare al disco come a uno degli apici artistici dell'anno in corso, nonostante l'inevitabile prurito manieristico di sottofondo.
Un lungo componimento in versi di carattere allegorico nel quale i protagonisti sono animali con sentimenti e comportamenti umani.
L'impressione generale è quella di un disco di transizione, pieno di canzoni tranquillamente dimenticabili, ma che presentano tutte gli elementi fondamentali della musica di Iron & Wine, che ha buon gioco soprattutto nell'accennare alla prima parte di carriera, pur con uno spirito meno singer-songwriter ("Right For Sky"). Un disco insospettabilmente "sicuro", per un artista che ci aveva abituato a cercare nuovi orizzonti, più che alla propria espressione sonora, alla propria scrittura.
Affiorano, quindi, con prepotenza le straordinarie abilità arrangiative dell'autore, capace di muoversi tra più esplicite aperture cameristiche (lo sfavillante tappeto d'archi di “Waves Of Galveston”, gli scherzi di pianoforte e i bordoni vocali di una più peculiare “Milkweed”), pregevoli confezioni alt-country (la ruspante “Last Of Your Rock'n'Roll Heroes”) e ballate soulful, in linea con le aperture romantiche di “Ghost On Ghost” (“Talking To Fog”, con tanto di ampio climax finale). Il tutto però avviene a scapito di una scrittura che continua a essere seduta su moduli abbondantemente utilizzati dal musicista, su un carrello di melodie che mette in risalto la commovente grana emozionale della sua penna (“What Hurts Worse” l'esempio-principe, sin dal titolo), ma non aggiunge molto di più a una calligrafia piuttosto statica, per quanto di classe.
Weed Garden è un dignitoso corollario a una stagione di grande fervore creativo, un piccolo cofanetto di brani che attrarrà gli inossidabili fan di una delle maggiori menti folk degli ultimi venti anni, che non schiude però nuove porte. Resta un piccolo contentino, per saziare gli appetiti in attesa di una nuova ridefinizione.
Ciò che danno i Calexico a Iron & Wine, forse, non è quello che gli estimatori di quest’ultimo cercano nella sua musica (e anche il contrario, probabilmente). Già l’acclamato In The Reins, del resto, soffriva di questo dualismo solo apparentemente ben congegnato, in cui Sam Beam è alternativamente vocalist di canzoni non sue e i Calexico arrangiatori di canzoni non loro. In certi frangenti, l’autore di “Trapeze Swinger” e di tantissime altre melodie memorabili deve dimenticarsi di essere prima di tutto grande scrittore di musica, per limitarsi a fare il corista in lunghe suite “da grande palco”, fatte per sovrapposizione ma senza un briciolo di tema unificante (“The Bitter Suite”). In altri episodi, come nell’iniziale “What Heaven’s Left”, l’accompagnamento (con gli insistiti controcanti country, come in altri brani) non aggiunge freschezza a un brano che, per dirla tutta, è quasi un gesto automatico per uno come Sam Beam.
Years To Burn è un prodotto che si fonda sulla presentabilità dei suoi autori, ma che paradossalmente riesce nell’impresa di offrire meno della loro somma.
Contributi di Lorenzo Righetto ("Beast Epic", "Love Letter For Fire", "Ghost On Ghost"), Vassilios Karagiannis ("Weed Garden"), Alessandra Reale, Raffaello Russo ("Kiss Each Other Clean"), Michele Saran ("Around The Well","Our Endless Numbered Days"), Ciro Frattini ("The Shepherd's Dog")