Sento decisamente che la scuola d’arte mi ha dato questa cieca spavalderia, un coraggio naïve, perché ha instillato in me l’idea che vali solo quanto sarai in grado di fare la prossima volta.
Sam Beam
È proprio così? Difficile dirlo. A volte si ha invece l’impressione che le armi a disposizione siano limitate, che improvvisarsi diversi da quello che si è sia un atto coraggioso ma inutile, e controproducente. Ma Sam Beam, questo, lo sa benissimo. Sa di poter contare sulla sua voce, sulle sue doti di raffinato regista di melodie ed emozioni. E, ora che gli anni da “professionista per caso” cominciano ad accumularsi e il vestito da solitario singer-songwriter comincia a diventare liso, come fare a dare nuova vita alla propria traiettoria d’artista?
Il soul, a pensarci bene, sembra l’ambientazione d’elezione per un cantautore come Iron & Wine, per le sue composizioni, così fluide ed emotive. Molto più delle contaminazioni world e latine che avevano caratterizzato la musica di Beam da “The Shepherd’s Dog” fino al poco ispirato e confuso “Kiss Each Other Clean” (qui c’è in realtà un parziale ritorno nella comunque piacevole “Caught In The Briars”). Qui il contorno – la batteria jazz, le seconde voci, il pianoforte – pare misurato con estrema precisione, a creare un omaggio agli anni 70 del soul, appunto, e alle prime contaminazioni tra jazz e cantautorato.
“It all came down to you and I”: come dichiarato dallo stesso Beam, è la coppia il tema centrale del disco, dalle ombrose, teatrali “Singers And The Endless Song” e “Low Light Buddy Of Mine”, che sembrano ambientate nella “Hadestown” di Anais Mitchell, al Marvin Gaye di “The Desert Babbler”, nella quale viene fuori sicuramente il meglio che la musica di Iron & Wine possa offrire. Quando la voce di Beam si invola sui suoi falsetti di velluto (“New Mexico’s No Breeze”), o scivola nei suoi gorgheggi di usignolo (“Joy”), si capisce subito che la magia di Iron & Wine è tornata, più limpidamente che mai.
L’universalità è un tratto fondamentale e dichiarato della musica di Beam, e anche in “Ghost On Ghost” l’empatia con canzoni d’innamoramento giovanile, come la stupenda “Baby Center’s Stage”, è acuita dal contorno di archi, slide, pianoforte, in un brano che definisce il genere “soft Americana”.
L’acustica diventa definitivamente uno strumento ausiliario (un frinire sommesso in “Grace For Saints And Ramblers”), dimenticato anche quando sarebbe stato sufficiente un arpeggio come accompagnamento (e invece si trasforma in un “a cappella” in “Sundown (Back In The Briars)”). Ma il passaggio è indolore, qui, per la grande attenzione all’unitarietà del disco e alla complementarietà degli arrangiamenti, che, anzi, danno grande respiro alle composizioni più verbose di Beam, come nella gentilemente montante, fino a una jam tra percussioni e sax, “Lovers' Revolution”.
Ed è così che il proposito di Iron & Wine diventa più che altro un monito per gli ascoltatori: attenti, perché qualsiasi dei suoi prossimi dischi potrebbe essere il suo migliore.
16/04/2013