Distacco, perdita, dolore. Nel dubbio se affrontare o dialogare con il dolore causato dalla morte della compagna di vita e d'arte Mimi Parker, Alan Sparhawk sceglie il rito della purificazione, della catarsi, fino ad annullare la propria voce per una trasfigurazione della sofferenza che annuncia una potenziale rinascita.
"White Roses, My God" è solo una delle strategie di sopravvivenza messe in atto da Sparhawk dopo la fine dei Low. Il musicista americano ha fatto sentire la propria voce in progetti disparati, dalla collaborazione con i Damien di Mart Gartman e il cantautore Nat Harvie a quella con il figlio Cyrus nel gruppo funk Derecho Rhytm Section, trovando tempo anche per una curiosa divagazione con una tribute band (i Tired Eyes che fanno cover di Neil Young), nonché per mettere giù nuove composizioni con la complicità degli amici Trampled By Turtles.
Ostico, perfino ostile, "White Roses, My God" è di tutt'altra fatta, con autotune e vocoder (un vecchio pedale T C Helicon), ai quali è concesso opporsi a un potente e umano groviglio di trap, psichedelia, hip-hop e r&b, con toni quasi inespressivi, che nel rendere inafferrabili le parole ne sottolineano l'inutilità di fronte alla sofferenza.
Quella che può apparire come una scelta fin troppo radicale, ovvero rinunciare a un elemento caratterizzante come la voce, è solo l'ennesima sfida creativa di un musicista che ha già offerto spazio a rinnovamenti di stile già oggetto di dissenso o di ammirazione (gli ultimi tre incantevoli dischi dei Low).
Come per Neil Young in "Trans", l'elettronica è la barriera da attraversare, un viaggio nell'ignoto in cerca di nuove forme di sentimento e spiritualità.
Non è un disco facile, "White Roses, My God". Folgorati dalla possente bellezza dei suoni e dalle nervose trame funk di "Can U Hear", si rischia di restare delusi dall'ossessività imperante dei ritmi e dal crudele tono agrodolce delle melodie. L'avvolgente crescendo di "Get Still" e la carezzevole melodia di "Not The 1" preservano quel fascino tipico degli ultimi Low, ma innegabilmente il free-style funk-elettro-jazz di "Feel Something", le stranianti e perfino sgraziate tribolazioni di "Station", l'incidentalità di un brano come "I Made This Beat" e l'austera e inquieta "Somebody Else's Room" offrono spazio a una discontinuità creativa che resta l'unico tallone d'Achille di un progetto importante.
In questo mosaico volutamente incompleto c'è spazio altresì per una brevissima delizia hyperpop ("Heaven") e per un fulgido wall of sound che vibra su note r&b e funk ("Project 4 Ever") con un gioco di colori e chiaroscuri e quel "Per sempre" ripetuto all'infinito, che risuona come una promessa e si affida alla memoria nel tentativo di trasformare il dolore in bellezza e il tormento in estasi.
12/10/2024