Tutte queste circostanze, del tutto umane ma anche rivelatrici di un processo più cerebrale che di crescita artistica, giustificano il carattere "pensato", rimuginato dell'attesissimo ritorno della band, intitolato "Crack-Up". Già i primi due dischi mostravano una tendenza netta nella scrittura di Pecknold, sempre meno melodica e sempre più impressionistica, con un focus sempre maggiore sulla dinamica, sulla stratificazione. Interpolare tra i primi due sarebbe stata un'operazione possibile ma pericolosa, eppure anche questo immaginario terzo "punto" sembra allinearsi perfettamente - e ora la proiezione è di sei anni in avanti.
Insomma, "Crack-Up" è un disco a cui è stato dedicato molto tempo, ed è il risultato di molti dubbi. Nella sua pretesa complessità, di queste tracce torrenziali, spesso suddivise in pièce (stavolta addirittura anche triple), filtra indecisione, e, come spesso accade per un alunno zelante come Pecknold (col quale non si può non simpatizzare), l'ansia di dimostrare qualcosa. Ad esempio, attraverso un sound più rarefatto e discontinuo, abbandonando la pienezza tipica della band, per approdare a un non ben identificato framework sonoro ritratto, convoluto. Non risulta, nonostante tutto, un album pretenzioso, anzi, come non mai è percepibile l'amore per la musica e per lo studio.
Si è rotto, o perlomeno anchilosato, però, l'organo di comunicazione di Robin con il suo pubblico, a sentire il carattere ermetico delle sue melodie e quello magniloquente degli arrangiamenti, tra i quali compaiono ora suggestioni orchestrali. Ci sono tante variazioni, tanto affascinanti quanto indisponenti, in "Crack-Up": il tentativo baritonale del crooning alla Harry Nilsson di "I Should See Memphis"; la ballata minimalista, "urban-folk", vagamente Vernon-iana di "If You Need To, Keep Time On Me", riferimento ripreso anche nella rarefatta chiusura polifonica, con accompagnamento di fiati, della title track; ci sono giochi di scale proggheggianti, come in "Mearcstapa" e "Fool's Errand". Soprattutto, ci sono tante costruzioni melodiche sghembe, capziose, in cui si alternano piattissime parti in maggiore a digressioni stonate ("Kept Woman" sembra un brano brutto delle First Aid Kit, anche se pare credersi diversamente), frammiste a soluzioni già percorse, che suonano riscaldate ("Cassius").
Insomma, la mutazione da band del rinascimento musicale popolare a feticcio dell'intellighenzia giovanile è completato (NB: questo non è un giudizio di merito), e se questo era il paletto che interessava mettere a Pecknold, ci è riuscito. Se però "Crack-Up" fosse l'atteso ritorno cinematografico di un giovane regista, sarebbe quell'opera raffinata che tutti accorrerebbero a elogiare per la sua "complessità", per il suo "coraggio", con grandi pacche sulle spalle e contorno di spiazzati ammiccamenti strabuzzati. In realtà il rinnovamento stilistico dei Fleet Foxes appare ancora piuttosto abbozzato: gli arrangiamenti e le scelte stilistiche sono in fondo il prodotto di un capriccio intellettuale, e la scrittura di Pecknold è la meno ispirata e più "masticata" che ha mai prodotto.
Non sarebbe una sorpresa se questo si rivelasse l'ultimo album dei Fleet Foxes, una sorta di reunion accelerata, per una dissoluzione ancora più accelerata, verso quel "qualcosa di nuovo" che rimane il desiderio nascosto del suo frontman.
(02/07/2017)