Accantonate le ambizioni di “…And Star Power”, i Foxygen tornano sul luogo del delitto sfruttando un’altra pagina del metodo Rundgren; dopo i fasti di “Something Anything” questa volta il modello di riferimento è quello di “Faithful”: ovvero la replica quasi al limite del plagio di una serie di totem musicali degli anni 60 e 70.
Sam France e Jonathan Rado hanno coinvolto personaggi di spicco come Matthew E. White, i Lemon Twigs e Steven Drodz dei Flaming Lips, registrando per la prima volta un album in studio con il supporto di un orchestra sinfonica di quaranta elementi diretta da Trey Pollard.
“Hang” è un progetto che fa parte di un trittico già programmato nel lontano 2013, che includeva oltre al precedente doppio album un ulteriore capitolo intitolato “Nightmare Man”, che dovrebbe chiudere il cerchio con un omaggio agli anni 80.
Presentato all’epoca come un disco in stile Harry Nilsson, “Hang” rimette la scrittura al centro delle divagazioni vintage dei Foxygen, ed è per molti versi un ritorno alle origini. Un album pretenzioso e sbruffone che ripropone l’eterno dilemma sul duo americano: genialità o scaltrezza?
La mia ostinazione nel seguire le imprese dei Foxygen è forse puro masochismo. Il loro citazionismo a tratti mi allieta, spesso mi irrita, ma non posso non riconoscere al duo di avere un suo metodo, che poi è un non-metodo, un approccio epidermico che fa scivolare la loro musica come un rasoio su una goccia d’olio.
Il titolo dell’album è un’autocitazione, infatti “Hang” era il titolo dell’ultima traccia di “… And Star Power”, ennesimo giochino goliardico che non aggiunge nulla alla voluta inconsistenza dell’insieme, trenta minuti di canzoni Frankestein, dove l’unica vera melodia si nasconde dietro il suono teatral-kitsch di “On Lankerishim”.
Altrove prevale lo sberleffo e il gioco perverso della metamorfosi priva di regole e sintassi. “Hang” è musicalmente l’archetipo perfetto della società liquida di Zygmunt Bauman, tutto è incerto, fluido, volatile, vacillante, privo di prospettive future, ma quanto questo possa essere artisticamente rilevante non è dato saperlo.
Resta difficile scoprire se dietro il cinismo dei Foxygen si celi una consapevolezza creativa: il pasticcio (in senso culinario) alla Bowie di “Mrs. Adams” o il mix di Scott Walker e i francesismi sonori in “Upon A Hill” e “Trauma” sono esemplari della carenza di idee che da tempo ha trasformato il gruppo in un simpatico carrozzone da musical di Broadway.
Un brano come “America“ sintetizza perfettamente tutta la vacuità di album come “Hang”: impegnato nella continua e incessante evocazione di stili e icone culturali della loro patria, il gruppo perde la bussola e sprofonda in un patchwork che nelle intenzioni appare come un giochino alla Frank Zappa, per poi esaurirsi in un framework di un cartone animato.
Alle due tracce d’apertura spetta il premio ruffianeria 2017: “Follow The Leader” è puro Aor travestito da indie-rock, un brano che starebbe bene in un disco di Boz Scaggs o di Hall & Oates, qui invece è un inutile acciuffa-consensi che si bea solo di un buon arrangiamento orchestrale; “Avalon” è un innocuo rock’n’roll alla “Grease”, che il gruppo butta in caciara con trucchi da balera e spettacolini da cabaret.
Sì, lo ammetto: in definitiva “Hang” a tratti mi ha divertito, ma la sensazione prevalente è la frustrazione: nulla di questi 30 minuti e poco più è riuscito a catturare il mio cuore o la mia immaginazione.
Quello dei Foxygen più che un revival psichedelico sembra sempre di più un revival psichiatrico. Sam France e Jonathan Rado ambivano al ruolo di moderni Mothers Of Inventions, ma al massimo possono sognare di essere i nuovi Sha Na Na.
Buon divertimento.
20/01/2017