Chi si è immaginato, nell’ascoltare il suadente, sussurrato soul di “Big Inner”, che dietro il nome di Matthew E White si celasse un ragazzone bianco con barba e capelli lunghissimi alzi la mano. Sette brani volitivi, colmi di estro, che avevano fra l’altro riscosso un certo successo, portandolo anche a esibirsi al Primavera 2013. La sorpresa associata all’uscita di “Big Inner” è stata infatti legata allo straordinario valore artistico di un’operazione revivalistica giostrata con mano incredibilmente esperta e non con vezzosità, come spesso ormai capita con il cantautorato ispirato al soul anni 70.
Ed è proprio più strettamente legato a questo – tanto che sembra, in alcuni frangenti, un disco ripescato da un lontano rifiuto della Motown (“Take Care Of My Baby”, la Gaye-iana “Holy Moly”) – che White propone il suo secondo disco, “Fresh Blood”, dopo che già nell’Ep “Outer Face” aveva già lasciato trapelare un percorso di normalizzazione. Già nella forma risulta più canonico: dieci brani sempre di lunghezza più o meno contenuta.
La classe, su tutti i fronti, è sempre eccezionale e riesce a dribblare anche strizzatine d’occhio ai Black Keys più melliflui e sensuali dell’era “Brothers” (“Fruit Trees”), con una scrittura sfuggente e sempre suggestiva. Dove infatti l’ispirazione, l’urgenza creativa sembrano non arrivare, ci pensa infatti un gran mestiere, come nel singolo piacione, un po’ alla Beck di “Rock’n Roll Is Cold”. O nel crescendo Spector-iano di “Feeling Good Is Good Enough”.
Quel che vien fuori è un album senza un pezzo fuori posto, certamente più scorrevole e accessibile di “Big Inner”: si capisce che White mira al suo “grande classico”. Ma forse manca un po’ dell’urgenza espressiva di “Big Inner” per celebrare veramente uno dei veri, grandi revivalisti soul contemporanei.
08/03/2015