Matthew è cresciuto ascoltando Chuck Berry e i Beach Boys, studiando jazz al college e incrociando la musica di Thelonious Monk e John Coltrane. E' poi l'incontro con il trombettista Steven Bernstein che ha stimolato la sua curiosità verso l'arrangiamento e la soul music, così l'autore, pur proseguendo le sue sperimentazioni col gruppo jazz dei Fight The Bull, ha scoperto il fascino della musica di Allen Toussaint, Curtis Mayfield, Randy Newman e della Band.
Realizzato per la sua etichetta Spacebomb, l'album “Big Inner” è un album ricco di una spiritualità universale: la simpatia per il collettivo soul-psichedelico The Rotary Connection, e la sua adesione a una comunità di musicisti che opera ai confini delle grandi metropoli, rende infatti palese lo spirito libero del musicista.
E i sette giorni di registrazione richiesti, per un disco prevalentemente acustico (unica eccezione la chitarra e il basso dello stesso Matthew), dimostrano pienamente questa libertà: l'iniziale “One Of These Days” apre con otto fiati, cori gospel-soul e ben tre sezioni ritmiche, ma il tono dimesso rimanda ai Lambchop e a Van Morrison, la dolcezza quasi dark contrasta il giocoso refrain country e il crescendo pulsante dei fiati raggiunge l’estasi mistica.
La paura che a tal meraviglia corrisponda comunque una discontinuità creativa viene subito cancellata: il blues stile Stax/Motown di “Gone Away”, che accompagna il racconto dell’incidente stradale in cui è morto il cugino, ha la forza mesmerica di un classico evergreen, in converso il funk swingante e ricco di brio di “Steady Pace” suona come la fanfara della spensieratezza e della gaiezza spirituale.
Così, tra arrangiamenti orchestrali degni di Randy Newman e Van Dyke Parks, e coralità figlie di Allen Toussaint e della scuola di New Orleans, l’album scopre tessiture subliminali sotto un minimalismo sapiente. La voce per altro si fa sottile come un bisbiglio, senza mai diventare un falsetto, mentre jazz e psichedelia restano costantemente in agguato per stravolgere le strutture soul e funky (si ascolti “Hot Toddies”). Non è inoltre difficile intravedere dietro le morbide ritmiche di “Will You Love Me” un leggero profumo di reggae e musica caraibica, tutto assemblato con uno spirito lo-fi che non è figlio della cultura indie ma della sacralità della grande tradizione americana.
Quel che è certo, è che non c’è spazio per dubbi o incertezze in “Big Inner”: la catarsi finale di “Brazos” scorre come un film in bianco e nero, omaggiando Jorge Ben e tutti gli esploratori dell’universalità della musica, la quale trova in Matthew E. White il mentore più autorevole per entrare nel Terzo Millennio.
(27/03/2013)