L'infanzia borghese nell'Upper West Side newyorkese, gli studi presso scuole cattoliche ed esclusivamente femminili, le lezioni di pianoforte. Un contesto che farebbe pensare a tutto tranne che alla formazione di una delle più importanti, stravaganti e trasgressive popstar del ventunesimo secolo, capace di dare un inaspettato scossone alla scena pop come forse non accadeva dagli anni 80.
L'italo-americana Stefani Joanne Angelina Germanotta cresce in una casa dove musica e arte si respirano costantemente e per lei sarà quindi naturale iscriversi in una prestigiosa scuola d'arte dopo il liceo. La voglia e la necessità di trovare la sua vera strada, il punto di unione tra le sue passioni (i grandi rocker degli anni 70, le popstar degli anni 80 e il teatro) la spingeranno però ad abbandonare precocemente sia il college che la casa paterna e a sperimentare col burlesque e coi complessi rock nei locali newyorkesi. Saranno un paio di Ep registrati con la sua band e a tiratura limitatissima a incuriosire il famoso produttore e talent scout Rob Fusari (Destiny's Child, Will Smith e Whitney Houston tra i suoi clienti). Il manager ne intuisce immediatamente le potenzialità: pur non potendo far leva su quell'avvenenza fisica ormai diventata requisito necessario per sfondare, è convinto che i tempi siano finalmente maturi per spingere sul mercato una popstar contemporaneamente talentuosa, dotata di una gran voce, capace di suonare e fare spettacolo come poche altre e con una cultura musicale superiore a quella delle coetanee colleghe. Dopotutto una figura del genere mancava sulle scene probabilmente da quando la mai troppo apprezzata Cyndi Lauper non era più riuscita a levarsi di dosso i paragoni con l'ingombrante debutto discografico.
Dopo averla ribattezzata Lady Gaga in onore di "Radio Gaga" dei Queen, inizia così una difficoltosa trattativa per riuscire a mettere sotto contratto la Germanotta che nel frattempo si dedicherà alla scrittura di canzoni per alcuni colleghi (tra cui Britney Spears e Michael Bolton), a prendere parte a diversi festival assieme alla performance artist Lady Stardust e a farsi quindi le ossa in contesti più ampi. Una volta firmato l'agognato contratto con la Interscope (anche per intercessione del rapper e amico Akon) e giunta quindi al momento di fare il grande salto, le verrà presentato il giovane produttore svedese RedOne, le cui intuizioni sonore saranno fondamentali per la realizzazione del suo album di debutto.
L'ascesa alla fama
La scalata verso il successo non sarà immediata ma le richiederà comunque pochi mesi durante i quali il suo nome e il sound di RedOne si imporranno gradualmente ma prepotentemente alle orecchie del pubblico. È l'aprile del 2008 quando il suo primo singolo "Just Dance" fa la sua timida comparsa. Il pezzo è quanto di più diverso si possa ascoltare da ciò che va per la maggiore nella radio statunitensi in quel momento, ormai sature di pop music sempre più contaminata dall'hip-hop. È infatti un brano sfacciatamente eurodance, costruito su synth grassi e altisonanti, tra chincaglierie elettroniche e battiti decisamente più martellanti di quelli r'n'b. Niente di nuovo sotto al sole per gli europei, che inizialmente non si lasceranno troppo impressionare, e anomalia destinata a vivacchiare soltanto nelle discoteche (come abitudine per pezzi del genere) per gli americani.
Eppure le cose sono destinate a cambiare, quando durante l'estate viene pubblicato l'album The Fame (con tanto di dedica in calce a Bowie, Prince e Madonna) inizia a spargersi la voce che la ragazza possa essere qualcosa in più di un fuoco di paglia sulla pista da ballo e la Interscope farà di tutto per spingerla a dovere, facendo esibire la ragazza in diversi programmi ed eventi televisivi o come supporto durante il tour dei redivivi New Kids On The Block. "Just Dance" riesce quindi a fare il suo timido ingresso nella parte bassa della Billboard Hot 100 e i network americani iniziano a passarla, accorgendosi che dopotutto gli arabeschi elettronici che la puntellano potrebbero andare a braccetto con quelli prodotti da Timbaland e che sia la metrica del pezzo che il featuring di Colby O'Donis riescono comunque a creare l'atmosfera giusta per convivere con l'urban-pop che imperversa. A gennaio 2009 "Just Dance" raggiunge finalmente la prima posizione in classifica non soltanto negli Stati Uniti ma anche nel Regno Unito, e di conseguenza tutta l'Europa si rimette in carreggiata: Lady Gaga è il nome da tenere d'occhio nei mesi a venire, e lei giustamente cala l'asso nella manica.
"Poker Face", il suo secondo singolo, riscuoterà un successo ancora più grande e, soprattutto, immediato. Tanto contagioso e danzereccio quanto "Just Dance", con cui condivide gran parte delle intuizioni in sede di produzione, riserverà comunque delle sorprese, come un certo gusto per l'utilizzo di allitterazioni e balbettii (un suo futuro marchio di fabbrica) e una vocalità tutt'altro che comune che lascerà il segno nelle apparizioni promozionali. Per i più adulti Lady Gaga sembra l'erede di Dale Bozzio dei Missing Persons, mentre ai più giovani appare come una sorta di Christina Aguilera prestata alla dance, proprio nel momento in cui l'ex-stellina teen sembra avvicinarsi a quelle sonorità maggiormente electro-pop che ne decreteranno il declino.
Il suo vocione è effettivamente simile e altrettanto potente, ma Lady Gaga è decisamente più appariscente nell'abbigliamento e più originale nello stuzzicare con la sua vaga bisessualità. Agghindata come una pornostar dell'est con improbabili abiti dalle linee geometriche e accessori di modernariato che accentuano la teatralità delle sue esibizioni, la Germanotta non cambia look ad ogni videoclip come sono solite fare le colleghe ma, grazie al suo team creativo ribattezzato con poca modestia Haus of Gaga, ad ogni apparizione pubblica, mostrandosi di volta in volta sempre più eccentrica e stravagante, lasciando il pubblico sempre più desideroso di vedere cosa si metterà addosso la volta successiva.
Nel frattempo The Fame scala le classifiche grazie anche ad altri pezzi in grado di cementare il suo status di stella nascente. Il terzo singolo estratto, l'energica "LoveGame", ripete senza troppa fantasia il pattern sonoro dei primi due, ma il suo mix melodico/aggressivo sarà sufficiente ad assicurargli il successo, pur non ripetendo comunque l'exploit di "Poker Face" che non accenna a scemare a diversi mesi dalla pubblicazione. Su coordinate un po' troppo simili si muovono anche la ruvida "I Like It Rough", la meno riuscita "Money Honey" e una title track che si gioca la carta di qualche chitarra elettrica di contorno per risaltare un po' di più.
Lady Gaga dà comunque prova della sua versatilità, seppur con risultati altalenanti, con la ballata rock-pianistica "Brown Eyes" (alquanto goffa invero), l'electro-cabaret di "Beautiful Dirty Rich" (inizialmente concepita come secondo singolo), la sonnacchiosa incursione hip-hop di "Starstruck" e con due trascinanti rivisitazioni disco-music come "Summerboy" (in omaggio ai Blondie) e la bonus track "Disco Heaven".
Altrove però il gusto nord-europeo di RedOne prende il sopravvento e non le impedisce di cementarsi con sonorità che dieci anni prima avrebbero fatto gola agli Ace Of Base o a ben peggiori progetti eurodance: tra "Paper Gangsta", "Boys Boys Boys" e la zuccherosissima "Eh, Eh (Nothing Else I Can Say)" è difficile scegliere il momento più ingenuamente imbarazzante.
Per prolungare il successo dell'album non resta quindi che puntare tutto su quello che è forse il pezzo migliore dell'intera collezione. Forte di una cesellatura elettronica più minimale ed elegante, una palpitante ritmica midtempo e una soave melodia, "Paparazzi" è il singolo ideale per trasformare la Germanotta da promessa a star affermata. Non soltanto il pezzo rappresenta il sunto del concept-album sul raggiungimento della fama, ma è accompagnato da un memorabile e delirante videoclip diretto dal celebre regista svedese Jonas Åkerlund in cui si alternano divismo e pop-art, kitsch e ironia, omicidi e vendette. Durante i Video Music Awards dell'estate 2009 ne verrà fatta addirittura una trasposizione dal vivo in una tanto spettacolare quanto granguignolesca esibizione.
È la consacrazione di Lady Gaga: in poco più di un anno è riuscita a riportare la dance di stampo europeo in vetta alle classifiche statunitensi dopo quasi un decennio di ostracismo, inaugurando un trend musicale che durerà un lustro. Intuendo per prima le potenzialità della diffusione di YouTube, riesce inoltre a focalizzare nuovamente l'attenzione di tutti sul videoclip come mezzo comunicativo e artistico dopo anni in cui aveva assunto connotati prettamente promozionali, perdendo ogni velleità cinematografica. Il suo tempismo è impeccabile: Michael Jackson è appena scomparso, Madonna è sempre più impegnata a batter cassa a suon di tour mastodontici che a dettare nuove mode e Britney Spears ha perso lo smalto dietro i suoi esaurimenti nervosi. Pubblico, media e persino i critici musicali sembrano addirittura bramosi di poter incoronare un personaggio così carismatico e diverso come nuova leggenda del pop, pur bruciando i tempi. Lady Gaga è ovunque, è moda sulla bocca di tutti e si inizia a parlarne non più come di un'emergente ma come di un'istituzione, come se la storia avesse già il suo nome stampato sopra da diverso tempo e non da pochi mesi.
Bisogna quindi battere il ferro finché è caldo ma dal momento che The Fame non possiede altri pezzi davvero adatti a raggiungere l'obiettivo servono quindi nuove canzoni. Che arrivano presto, prestissimo, quando l'eco di "Paparazzi" non si è ancora spenta del tutto.
Una mostruosa notorietà
Durante l'autunno verrà infatti realizzato un nuovissimo singolo ad anticipare un Ep di ben otto pezzi acquistabile singolarmente o accoppiato al debutto ristampato per l'occasione. Sempre prodotta dall'ormai fidato RedOne, "Bad Romance" è Lady Gaga all'ennesima potenza, è "Poker Face" sotto anfetamine, roboante come un gran premio di Formula Uno, buffa come una filastrocca per bambini che sfocia però in un ritornello tanto drammatico quanto euforico. E se il pezzo è una bomba il video di accompagnamento è un vero capolavoro: ambientato in una sorta di asettico e brumoso bordello cibernetico, vede la Germanotta nei panni di una vera e propria divinità venduta al miglior offerente. Il suo look è sempre più trasgressivo e spiazzante, stavolta addirittura vicino alle mise più inquietanti di Marilyn Manson e Grace Jones. Per molti Lady Gaga non ha nemmeno un volto (che spesso lei stessa tiene coperto dietro maschere), è un'entità multiforme che canta i tormentoni del momento. E "Bad Romance" è l'ennesimo trionfo, quello destinato a diventare il suo cavallo di battaglia, il suo pezzo più peculiare, pur non riuscendo ad acciuffare per un soffio la vetta della classifica statunitense.
Il successo bacerà ovviamente anche il seguente Ep The Fame Monster, in grado di rafforzare le vendite del debutto e mantenerlo per anni nei piani alti delle classifiche, rendendolo uno dei più venduti del nuovo millennio. Grazie alla sua breve durata, il nuovo disco appare subito più coeso e meno sfilacciato del precedente e, soprattutto, senza riempitivi. L'aggressiva "Monster" e la più tenue "So Happy I Could Die" sono l'ideale punto d'incontro tra l'estetica di The Fame e la produzione timbalandiana, in "Teeth" si rifà l'electro-blues dell'Aguilera meglio dell'Aguilera stessa e viene nuovamente giocata la carta della ballatona Adult oriented rock con "Speechless". La canzone viene eseguita spesso dal vivo per dar sfoggio alle abilità pianistiche e interpretative dell'artista: pur non riuscendo a scrollarsi di dosso un marcato retrogusto kitsch, stavolta la passione con cui la Gaga ci si cimenta è tale da farla curiosamente funzionare a dovere.
Sono però altri i brani che renderanno The Fame Monster un piccolo gioiellino pop, primo tra tutti quel singolo mancato intitolato "Dance In The Dark", capace di unire la nostalgia per pezzi come "Strangelove", "Careless Whisper" e "Vogue" al furore della dance anni 90 in un refrain a dir poco epico.
Per bissare il successo di "Bad Romance" gli verranno però preferiti altri due pezzi da novanta, "Telephone" e "Alejandro". Il primo è una rilettura, in chiave Gaga, dell'r'n'b del famoso produttore Rodney "Darkchild" Jerkins (già con Destiny's Child, Jennifer Lopez e l'ultimo Jackson), uno dei suoi brani più americani e diretti sino a quel momento, non a caso interpretato assieme a un altro grosso nome a stelle e strisce come Beyoncè (favore ricambiato in un pezzo della signora Carter, la non altrettanto riuscita "Video Phone"). Le due appariranno assieme in un altro memorabile video diretto da Jonas Åkerlund, recitando la parte di due novelle Thelma & Louise dai costumi improbabili in un'ambientazione a metà tra il cartoon e un film di Tarantino; tutti applaudono nuovamente la fantasia sfrenata di Lady Gaga e della sua Haus, la loro capacità di rileggere i simboli del passato in chiave così irriverente e artistica.
I media azzardano una definizione fin troppo abusata in ambito pop e che in passato non ha mai portato troppa fortuna: Stefani Germanotta è la nuova Madonna. Inizialmente i fan della Ciccone non sembrano risentirsene, dopotutto sono tra i primissimi ad accogliere a braccia aperte l'ascesa alla fama di Lady Gaga, capace di colmare quel vuoto lasciato da una Ciccone ormai disinteressata nel creare videoclip e look degni del suo nome. Tuttavia quando "Alejandro", un irresistibile quanto svergognato pastiche electro-tzigano, verrà realizzato come terzo e ultimo singolo di un'era irripetibile, i rapporti si incrineranno. Il suo cupo videoclip pesca infatti a piene mani dall'immaginario erotico/sacrilego tanto caro a Madonna (il regista/fotografo Steven Klein è un suo stretto collaboratore) e molti si indispettiscono, iniziando di conseguenza a provare una sorta di insofferenza verso il poco rispetto mediatico nel paragonare costantemente le due, a volte persino forzatamente.
Poco importa, grazie a un astuto utilizzo dei social media, al suo ergersi paladina dei diritti LGBTQ e di tutti coloro che hanno subito bullismo, Lady Gaga riesce a costruirsi una sua enorme e fedele fanbase: i little monsters la venerano letteralmente, non soltanto come popstar ma quale vero e proprio guru ribattezzato Mother Monster. La acclamano al grido di "paws up!", il gesto con la mano dai lei stessa più volte esibito nei video e nelle sue performance, affollando l'acclamato "Monster Ball Tour" mascherati vistosamente come la loro beniamina; era da anni che un simile fanatismo non abbracciava la pop-music e, addirittura, la trascendeva. Dopo aver vinto due Grammy e duettato col futuro compare Elton John, Lady Gaga farà anche il suo trionfale ritorno ai Video Music Award, vincendo ben otto statuette e salendo sul palco a ritirarle vestita con l'ormai celebre abito di carne cruda. È probabilmente l'apice divistico della sua carriera e lei, furba come non mai, intuisce come sfruttare l'isteria che la circonda, non rilasciando altri singoli estratti da The Fame Monster e facendo crescere spasmodicamente l'attesa per il suo nuovo progetto, annunciando proprio quella notte il titolo del suo prossimo album: Born This Way.
La faida più chiacchierata del decennio
Nei mesi successivi, pur mostrandosi poco ma sfruttando come nessun altro le potenzialità "virali" dei social, Lady Gaga riesce a creare un clima di evento ed eccitazione mediatica come solo il Michael Jackson dei tempi d'oro era stato in grado di fare, seppur tramite altri mezzi. Il nuovo singolo verrà quindi presentato a ridosso della cerimonia dei Grammy a febbraio 2011, durante la quale la cantante conquisterà altre tre statuette e si esibirà in una performance fantascientifica, mettendo in scena una rinascita a dir poco aliena. Presentato come un nuovo inno generazionale, "Born This Way" è un esuberante numero electro-disco condito da un testo anti-razzismo/bullismo che in quel momento va di gran voga tra le starlette della musica pop.
Il giorno successivo, però, l'attenzione di tutti è rivolta ad altro: seppur più testosteronica nel sound, la progressione melodica del pezzo ricorda quella della celebre "Express Yourself" di Madonna. Molti gridano al plagio, altrettanti minimizzano facendo notare che lo stesso pezzo della Ciccone era a sua volta ispirato a "Respect Yourself" degli Staple Singers. Per la prima volta, però, la stessa Gaga mostra segni di insofferenza all'ennesimo paragone e, stizzita, dichiarerà che il pezzo è stato in realtà ispirato da Whitney Houston. Una dichiarazione che verrà accolta però più come un'arrampicata sugli specchi o, al peggio, come una provocazione che non calmerà certo le acque. Nuovamente intervistata sull'argomento durante il Jay Leno Show, stavolta la Germanotta ammetterà l'ispirazione, spiegando di aver ricevuto via mail il beneplacito dalla stessa Madonna ma, colpo di scena, la portavoce della Ciccone si affretterà a smentire il tutto facendo calare il gelo sull'accaduto. Quando un anno dopo verrà chiesto alla regina del pop di dare la sua versione dei fatti, questa si limiterà ad affermare che da sempre l'imitazione è la più sincera forma di adulazione, ma che aveva trovato riduttivo l'omaggio in questione. Come se non bastasse, nel tour successivo si esibirà in un calzante mash-up di "Express Yourself" e "Born This Way", concludendolo con uno stralcio della sua "She's Not Me": "Lei non è me", ribadirà quella vecchia volpe della Ciccone.
Sarà il culmine di una faida tra dive che non si vedeva nel mondo del pop dai tempi di Oasis e Blur, ma stavolta di proporzioni veramente mondiali. È verosimile che le due, esperte di marketing e strategie, abbiano giocato e alimentato il tutto per ricavare reciproca pubblicità e spargere un po' di pepe su una scena mainstream altrimenti fin troppo imbolsita. Finezza evidentemente non colta dai fanbase delle due che utilizzeranno internet come un vero e proprio campo di battaglia per screditare a turno la nemica amatissima e finendo, paradossalmente, per danneggiare entrambe agli occhi dei meno appassionati: da un lato l'ormai stagionata sovrana del pop, che per la prima volta pare sentirsi davvero minacciata dall'ascesa di una potenziale sostituta, e dall'altro l'aspirante regina che non riesce e forse nemmeno vuole scrollarsi di dosso l'ingombrante paragone col suo modello principale.
Il bacio di Giuda
"Born This Way" è però una hit clamorosa, non potrebbe essere altrimenti con una melodia così immediata, e Lady Gaga raggiunge per la terza volta la vetta della classifica americana dei singoli. L'imminente omonimo album non potrebbe arrivare avvolto da un clima migliore, tutto lascia presagire l'ennesimo successo discografico, ma si tratterà di un trionfo dai piedi d'argilla. Troppo sicura delle sue potenzialità e comprensibilmente innamorata della sua creatività, la star non esita a definire il disco come il più importante del decennio, senza rendersi conto che a tali aspettative dovrebbero poi seguire dei fatti concreti che non le facciano deludere. E la prima delusione arriva proprio col singolo estratto in concomitanza con l'album: "Judas", brano che ripropone pari pari, seppur in veste decisamente più cafona e meno fresca, tutti gli stilemi che avevano reso "Bad Romance" un tormentone e che era forse meglio evitare per non cadere nel macchiettismo di cui il pezzo è invece pregno. Un pezzo così prevedibile non è esattamente ciò che si attendeva da una trasformista come lei e infatti il riscontro in classifica sarà meno lusinghiero del solito.
La Germanotta però corre ai ripari dichiarando di essere cresciuta ascoltando Bruce Springsteen, Queen e Led Zeppelin e che quindi Born This Way tiene in serbo un'indole rockeggiante, ovviamente sbandierata in tutte le interviste e immortalata nella tamarrissima copertina, ma che è in realtà piuttosto vaga e ben nascosta dai soliti tappeti synth stratificati. Le minacciose schitarrate che aprono "Electric Chapel" si stemperano subito su una melodia più rassicurante e lieve, quelle di "Bad Kids" sono solo un posticcio suppellettile per uno dei suoi numeri electro-pop più vintage e simpatici e l'ipnotica "Heavy Metal Lover" di metallica ha soltanto l'asetticità.
Di certo "The Edge Of Glory" è un'euforica cavalcata pop-rock alla quale non basta però il sax di un ospite di lusso come Clarence Clemons (durante un bridge molto eighties) per donarle maggior spessore e trascinarla fuori da quell'atmosfera da talent show che pervade anche la più infantile "Hair". Nemmeno "Yoü And I", la ballatona country-glam di turno (con Brian May alla chitarra e uno storico produttore come John "Mutt" Lange in cabina di regia), pur nella sua piacevolezza, emoziona come dovrebbe. Forse perché nemmeno stavolta si riesce ad andare oltre la rozza pantomima dell'Elton John meno ispirato anziché conferirle una più sottile ed elegante malinconia; tale onore spetta a un'altra ballad, sintetica e notturna, l'ottima "Bloody Mary".
Alla fine ci si arrende quindi all'idea che Lady Gaga continui a essere più coinvolgente quando resta nella più classica carreggiata dance, che sia quella genuinamente pop di "Marry The Night" (degna della migliore Cyndi Lauper) e di "Highway Unicorn" o quella spigolosissima della teutonica "Scheiße", perfetta per le discoteche più trendy. Se però il kitsch di "Government Hooker", condito da vocalizzi alla Piaf e reminiscenze di lunedì malinconici, regala il vero pezzo killer dell'album, purtroppo non può esser detto altrettanto dello sguaiato melodramma mariachi di "Americano" che perde per strada, urlando, tutta la leggerezza che rendeva simpatica la pur parodistica "Alejandro".
Born This Way ribadisce il buon fiuto melodico della Germanotta, ma in modo troppo pasticciato e con mezzi sempre più grossolani. La creatività di RedOne inizia a mostrare la corda e quella del neoassunto DJ White Shadow non sempre esalta Gaga a dovere, finendo con l'appesantire e soffocare il suo potenziale talento, proprio come le sue improbabili maschere che a questo giro diventano sempre più eccessive fino a trasfigurarla e, addirittura, abbruttirla.
A fine corsa, i piazzamenti in classifica dell'album saranno di tutto rispetto ma meno duraturi che in precedenza e i milioni venduti parecchi ma non tali da raggiungere quelli guadagnati da The Fame. Dei tanti singoli estratti soltanto "The Edge Of Glory" sembra riscuotere una visibilità degna dei suoi più grandi successi e persino il nuovo, faraonico "Born This Way Ball Tour", col suo palcoscenico modellato come un castello medievale, non riscuoterà gli incassi ipotizzati anche per colpa di una prematura interruzione a causa dei problemi di salute della Germanotta: la sua anca, troppo provata dalle coreografie, necessita un intervento chirurgico. Il drammatico evento non potrebbe giungere in un momento migliore, dopo tre anni da vera mattatrice, la sensazione generale è che una certa insofferenza inizi ad aleggiare attorno al nome della Germanotta a causa dell'incredibile sovraesposizione mediatica che ha costantemente accompagnato la sua breve carriera. E lei per la prima volta appare fragile, consapevole vittima della fama e in preda alla depressione; la forzata pausa parrebbe quindi un ottimo presupposto per schiarirsi le idee, far pace coi propri fantasmi e preparare un nuovo disco che sancisca definitivamente il suo ruolo di icona pop.
Un pasticcio in nome dell'arte
Tuttavia, proprio in questa circostanza Lady Gaga commette l'errore più grande della sua carriera: anziché ripresentarsi al pubblico in maniera completamente rinnovata e magari più umile, eccola tornare sulle scene nell'estate del 2013 al pretenzioso grido di "io sono l'arte e l'arte si trasforma in me". Un lavoro presentato, come di consueto, con la solita pompa magna: se già il titolo, ARTPOP (scritto tutto maiuscolo, non sia mai) è tutto un programma, la megalomania di Stefani Germanotta a questo giro di boa sembra non avere più limiti. Copertina realizzata dal celebre artista contemporaneo Jeff Koons, riferimenti alla Venere di Botticelli (che poi venga confusa con quella di Milo, poco importa), l'immancabile Andy Warhol, il metodo Marina Abramovic, un'applicazione per iPad, lei che vomita vernice sul palco e chi più ne ha più ne metta. Pur di sottolineare il suo distacco dalla restante carovana di popstar e il suo status di artista a tutto tondo, la macchina Gaga stavolta si supera letteralmente in ambizione, dando fondo a ogni risorsa. Purtroppo, però, nemmeno stavolta le aspirazioni vengono corrisposte da musica che giustifichi in buona misura tanta esasperata magniloquenza. I nodi vengono subito al pettine con l'atteso singolo apripista; nonostante l'urgenza e l'energia che permeano la sintetica "Applause" (la sua risposta agli effetti collaterali della fama) garantiscono al pezzo una buona accoglienza, è chiaro sin da subito che non possiede la stessa efficacia dei precedenti e si fa letteralmente rubare la scena dal più giocoso ritorno sulle scene di Katy Perry e da quello più trasgressivo di Miley Cyrus.
Scaltra nel dare in pasto al suo pubblico adorante fiotti di concettualismo a buon mercato, stavolta la Germanotta decide di giocare anche con nuovi colori che esasperano la sua tendenza a riempire meno di quattro minuti con tutto quello che le salta in mente, pur di dimostrare affannosamente di essere creativa all'ennesima potenza. Bordate convulse di synth, improvvisi e improbabili cambi di ritmo, ritornelli zuccherosi, fughe galoppanti, voci filtrate, interpretazioni pompose e tant'altro ancora diventano il suo contrassegno assoluto, la sua croce e delizia. Il più delle volte la sua smania di strafare influisce negativamente sul risultato, stordendo l'ascoltatore, e ciò che vorrebbe suonare come un pastiche artistico finisce col diventare un pasticcio e basta; il caso più eclatante è la sguaiata "Swine", inutilmente aggressiva e dispersiva. Anche il singolo abortito "Venus" soffre di un simile problema e se in scaletta sembra funzionare meglio, è solo perché brilla di luce riflessa dal brano d'apertura "Aura", l'unico crossover che, tra spunti spagnoleggianti e una ruvida scorza electroclash, sembra esser stato concepito con tutti i crismi necessari per riuscire a stupire senza rinunciare a intrattenere piacevolmente.
Persino ciò che dovrebbe distinguerla da tutte le altre, ovvero la sua bella voce, viene spesso sbandierata senza sfumature come se dovesse farsi notare a un talent show o addirittura inutilmente maltrattata. Se ne ha esempio quando, con fare da diva incazzata, affronta il non proprio originalissimo stomper di "MANiCURE" (praticamente una riedizione senza ironia di "I Need A Man" degli Eurythmics) o quando nella nuova ballata pianistica, una spompatissima "Dope" per cui viene scomodato Rick Rubin, cerca di risollevare, senza un minimo di grazia e con una gonfissima interpretazione involontariamente comica, un'esilissima melodia. Tuttavia è con l'ascolto (ma basterebbe soltanto scorgerne il titolo in scaletta) della terrificante "Donatella", dedicata alla stilista Versace, che si ha la definitiva conferma che la pop-art cui Lady Gaga aspira altro non è che della bigiotteria molto appariscente.
Quando però riesce a curare l'aspetto prettamente "canzonettistico" della sua proposta, puntando direttamente alla meta senza troppe distrazioni di sorta e trovando il giusto equilibrio tra melodia pop e l'arrangiamento più attuale, Lady Gaga è ancora in grado di tirar fuori dal cilindro dei pezzi tutt'altro che superflui. Lo strambo appeal di "G.U.Y." (grintoso house-pop nell'epoca del brostep) ma anche le incursioni electro-r'n'b di "Sexxx Dreams" (probabilmente il miglior brano della raccolta, merito anche di quei synth bass che rievocano i Justice più accattivanti) ne sono un ottimo esempio.
Fanno tirare un sospiro di sollievo anche una title track che punta tutto su un battito midtempo sinuoso ed elegante, una "Mary Jane Holland" che ritrova il tiro dei suoi primi successi e lo stiloso disco-funk di "Fashion!", che trasla ai giorni nostri, con la collaborazione di due tamarri come Will.I.Am e David Guetta, le atmosfere primi anni 80 dei suoi principali numi ispiratori, Bowie e Madonna. Tra i pezzi più riusciti anche quello scelto come secondo singolo, l'insolitamente semplice r'n'b di "Do What You Want": gorgheggi in area Christina Aguilera (con cui successivamente duetterà assieme proprio su questo brano), riuscita alchimia melodica e un featuring, alquanto telefonato invero, di R. Kelly.
Sarà però proprio la presenza di quest'ultimo a sancire definitivamente il fallimento di singolo e album. Non sono pochi, infatti, quelli che trovano di cattivo gusto che una paladina delle minoranze come lei decida di duettare con un ex-indagato per abusi sessuali su una minorenne. Viene anche girato un video diretto dal famoso (e altrettanto chiacchierato) fotografo Terry Richardson in cui si ironizza sulle presunte abitudini feticiste del soul-singer ma la Interscope teme si stia oltrepassando il limite e la clip non vedrà mai la luce. Per la cantante è un duro colpo: non sentendosi più circondata da persone capace di consigliarla nel migliore dei modi, decide di far piazza pulita del suo management. Passeranno diversi mesi prima che un nuovo pezzo venga estratto da ARTPOP ma, nonostante il sontuoso (e tutto sommato vuoto) video di accompagnamento che vorrebbe sottolineare l'ennesima rinascita, "G.U.Y." potrà fare ben poco per risollevare le sorti di un album nato sotto una cattiva stella, così come la nuova serie di concerti non più affollati come in precedenza.
Una necessaria ricostruzione
Urge quindi un brusco cambio di rotta, anche piuttosto rapido, per evitare di perdere ulteriori consensi e credibilità artistica. Curiosamente l'opportunità migliore si manifesta prima del previsto, a fine 2014, grazie alla proposta di una vera e propria leggenda dello swing: il novantenne Tony Bennett. Dopo aver duettato qualche anno prima su una tutto sommato spassosa versione di "Lady Is A Tramp" (su "Duets II" di Bennett), i due sembrano aver consolidato il feeling, e l'improbabile coppia decide di realizzare un intero album di standard della tradizione americana.
La prima cosa che salta all'orecchio, ascoltando Cheek To Cheek, è che i due sembrano divertirsi davvero. Bennett fa il suo, da ormai navigato professionista qual è, e sembra genuinamente incuriosito dalla controparte femminile di turno, a momenti pare osservarla ancora incredulo, come se volesse chiederle "ma tu cosa diamine ci fai qui?". La rivelazione infatti è proprio Lady Gaga che, smontati gli abiti di braciole, si tramuta in felpata diva jazz, ricordando a tutti che quando vuole ha pur sempre una gran bella voce. I due scorrazzano su "It Don't Mean A Thing (If It Ain't Got That Swing)" e nel singolo "Anything Goes", mentre lei da sola spazzola una "Ev'ry Time We Say Goodbye" di Porter niente male.
Cheek To Cheek è però un disco nato vecchio in partenza, non soltanto per la scelta dei brani, ma soprattutto per gli arrangiamenti, sempre elegantissimi tanto quanto uguali da sessanta anni a questa parte, mai un guizzo di vita a farci intravedere l'anno in corso (o anche solo il millennio). La "Nature Boy" qui presente è ben lontana dalla teatrale versione che ne fece David Bowie ricordandoci che, pur avendo la stessa orchestra in sottofondo, il risultato non deve necessariamente essere quello di sempre. Anche "Lush Life", per quanto ben interpretata, suona davvero calligrafica e paradossalmente più vecchia rispetto alla più fantasiosa versione incisa da Donna Summer nel lontano 1982. Manca del nerbo, insomma, o per lo meno quel pathos infuso da Sinéad O'Connor al suo disco di cover sul genere "Am I Not Your Girl?", così come la dissacrante ironia che George Michael utilizzò nel suo "Songs From The Last Century" e che era forse lecito aspettarsi da un personaggio come Lady Gaga.
Tutto sommato, però, lei non esce poi così malconcia dall'esperienza; lontana dai conati electro del fallimentare ARTPOP, serena e concentrata per un attimo a fare la cantante seria, riesce per lo meno ad aggiungere un altro piccolo tassello all'immagine di popstar tout court alla quale aspira da sempre. Poco male se, nel farlo, strappa la parrucca dal cranio di Cher e gioca la non originalissima carta dell'album jazzy alla "I'm Breathless" di Madonna. Se per molti l'operazione puzza di cassa integrazione, per altri, soprattutto in America, Cheek To Cheek timbra il cartellino e si guadagna addirittura un Grammy nella categoria jazz.
È l'inizio della riabilitazione mediatica del personaggio Gaga e della sua voglia di maggiore sobrietà. La serie di concerti in coppia con Bennett è un successo sia critico che di pubblico, guadagna un Golden Globe come migliore attrice per la sua partecipazione al serial American Horror Story, incanta i patriottici americani cantando l'inno durante il Super Bowl del 2016 e viene persino candidata all'Oscar per il pezzo "Til It Happens To You". Relizzato assieme alla celebre autrice Diane Warren, il pezzo è un'ingolfata ballatona che fa da commento a un documentario sulle violenze sessuali, e sarà proprio la personale storia di violenza subita anni prima dalla Germanotta a fare notizia e commuovere il pubblico. Tuttavia la sua stella continua a brillare meno di un tempo, non riuscendo più a primeggiare sulle agguerrite colleghe.
A otto anni dall'esordio si comincia insomma a sentire la mancanza di un sostanzioso repertorio all'altezza delle sue capacità artistiche tanto strombazzate da fan e critici, di canzoni in grado di rimanere nell'immaginario popolare e che vadano oltre la manciata di riempipista degli esordi con cui i media continuano prevalentemente a identificarla.
Alla ricerca della sobrietà
Con la pubblicazione del nuovo Joanne, in onore della zia scomparsa in giovane età, l'impressione è che sia la stessa Lady Gaga a sentire il peso di tali aspettative. E a rifuggirle, realizzando un progetto che mantiene un profilo decisamente più basso rispetto al suo solito, rinnegando certe tamarrate elettroniche e rinunciando a quei look estremi che erano diventati il suo marchio di fabbrica. La scelta è condivisibile, perché quando si sforza di ritrovare l'appeal radiofonico di un tempo, la foga con cui si cimenta si traduce in ansia da prestazione. Quella che la porta ad affrontare con interpretazione melodrammatica un motivetto tropical scritto curiosamente assieme a Beck, "Dancin' In Circles", affossandolo irrimediabilmente. Peggio ancora quando le prova tutte, strillando, pur di sollevare il piatto ritornello di "Perfect Illusion", arrivando addirittura a distrarre l'ascoltatore dall'unica cosa discreta del pezzo, l'arrangiamento di Mark Ronson e Kevin Parker. Scelto inspiegabilmente come primo singolo, si rivelerà un sonoro flop per i suoi standard, non riuscendo nemmeno a raggiungere la top ten dei singoli su ambo le sponde dell'Atlantico.
Quando i singoloni scarseggiano, meglio cercare allora di concepire un buon lavoro nel suo complesso. Concentrarsi su un pop-rock più convenzionale, vintage e a tinte country deve esserle sembrata quindi l'idea più sicura per indossare con credibilità i panni della cantautrice più matura e intimista ("Sinner's Prayer", seppur non originalissima, è un ottimo esempio) e far breccia, contemporaneamente, presso il pubblico americano ormai perso dietro più conservatrici regine come Taylor Swift.
Se la trasformazione riesce particolarmente a livello di concept, in pratica i risultati appaiono purtroppo incostanti. Gaga sembra trovarsi decisamente a suo agio nelle ballate acustiche (tra la rassicurante "Million Reasons" e la fin troppo ingessata "Angel Down", brilla soprattutto una title track che non dispiacerebbe a Lana Del Rey), ma certi stomp-blues, quali "A-YO", "John Wayne" e la quasi natalizia "Come To Mama", si confermano invece il suo tallone d'Achille.
In un simile contesto spiccano facilmente lo sbracato omaggio a Springsteen, una "Diamond Heart" dal ritornello finalmente glorioso, e quello all'amico Elton John, in cui lei e Florence Welch tengono a freno i loro squillanti vocioni per dedicarsi a una felpata ed elegante rivisitazione di "Bennie And The Jets".
Joanne è un album finalmente coeso, conciso e gradevolmente confezionato da Ronson, ma incapace di dissipare i dubbi sulla capacità di Lady Gaga di realizzare nuovi classici pop. Così anche il secondo estratto "Million Reasons" stenta a far breccia nelle classifiche e Joanne, dopo l'inevitabile botto iniziale, perde velocemente terreno. Stavolta però la Germanotta ha un efficace asso nella manica da giocarsi: sarà infatti lei a tenere il concerto durante l'intervallo del Super Bowl 2017. Per una notte e davanti a milioni di telespettatori, Lady Gaga ritorna a essere quella di The Fame durante un pirotecnico set in cui, a fianco all'ultimo singolo, faranno bella mostra di sé tutti i vecchi pezzi che l'avevano trasformata in una star di prima grandezza, le stesse coreografie e gli immancabili, stravaganti costumi. Gli effetti non tarderanno a manifestarsi, "Million Reasons" riesce a raggiungere la top ten americana e, seppur per una sola settimana, dona all'album quell'hit-single di cui sarebbe stato altrimenti privo.
Le vendite di Joanne si stabilizzeranno finendo col raggiungere quelle di ARTPOP, i biglietti per l'imminente tour andranno finalmente a ruba, dividerà il palco con Stones e Metallica e inizieranno le riprese del suo primo film da protagonista: l'ennesimo remake di A Star Is Born, in un ruolo precedentemente affidato anche a Judy Garland e a Barbra Streisand. Viene addirittura realizzato un inedito singolo nuovo di zecca per capitalizzare il ritorno di fama: "The Cure" fa piazza pulita delle coordinate stilistiche di Joanne per darsi astutamente alle sonorità più in voga del momento, ovvero alla soft-EDM dei Chainsmokers. Anche stavolta il riscontro con le classifiche non sarà troppo lusinghiero, ma il pezzo diventerà comunque una piccola sensazione sulle piattaforme streaming, a dimostrare l'apprezzamento da parte dei giovanissimi come buon investimento futuro. Eppure, proprio nell'istante in cui le cose sembrano mettersi per il meglio, Lady Gaga deve tornare a far i conti con una fragilità psico-fisica che da sempre ha paradossalmente controbilanciato la sua esuberante immagine: un ricovero per fibromialgia conclamata la costringe a rinviare la leg europea del "Joanne Tour".
La rinascita di una stella
Gli ingranaggi per riportare in auge la Germanotta sono stati però ben oliati e sarà proprio la pellicola A Star Is Born, destinata a diventare un blockbuster della stagione autunnale 2018, a svolgere un ruolo determinante per la sua rinascita, nonostante la colonna sonora di accompagnamento, anche e soprattutto per motivi di copione, finirà con l'avere più di un punto in comune col suo precedente album. Fortunatamente per lei, però, stavolta il lavoro sporco verrà affidato a quella che può essere considerata l'inaspettata rivelazione di questo progetto, ovvero la pastosa voce di Bradley Cooper, perfettamente calato nel ruolo di bluesman consumato. Spetta infatti all'attore/regista trainare quasi tutti i momenti più anacronistici e profondamente americani del disco (altrimenti detto, quelli meno appetibili per il resto del mercato mondiale): dalle poderose cavalcate rock in zona Audioslave ("Black Eyes" e "Alibi") alle polverose ballate da saloon ("Out Of Time" e "Too Far Gone") saltellando qua e là tra le più prevedibili cadenze country ("Diggin' My Grave").
In questo modo la Germanotta è quindi libera di dedicarsi quasi esclusivamente a ciò che ultimamente sembra riuscirle particolarmente bene e mettere in risalto la sua tecnica vocale, le ballate strappalacrime. In A Star Is Born solo a tratti non riesce a tenere a freno la sua ormai proverbiale attitudine a enfatizzare eccessivamente i pezzi ("La Vie En Rose" si avvicina pericolosamente in territori parodistici) come quando nel bel singolo "Shallow" dei vocalizzi un po' troppo gonfi appesantiscono inutilmente un memorabile refrain degno di "Bad Romance". Peccati veniali, assieme ad altri brani come "I'll Never Love Again", "Before I Cry" o "Is That Alright", tutti scritti col supporto del manuale della perfetta ballata cinematografica, manderà in brodo di giuggiole le Academy degli Oscar e dei Grammy.
Lady Gaga dà insomma il meglio di sé quando smette definitivamente i panni di reginetta pop per inseguire altri e più forbiti modelli, da Carly Simon ("Always Remember Us This Way", il lento più meritevole del lotto) a Carole King (la deliziosa "Look What I Found", spruzzata di soul in coda) passando, non poteva essere altrimenti, per Barbra Streisand ("I Don't Know What Love Is", uno dei tanti duetti con Cooper).
Nonostante l'adattamento contemporaneo della pellicola, durante l'ascolto della colonna sonora si respira una curiosa e tutto sommato confortevole atmosfera vintage, come se la maggior parte dei suoi brani sia stata concepita non soltanto con lo scopo di far schizzare alle stelle la glicemia degli ascoltatori, ma anche di suonare come classici senza tempo. È per questo che quando sul finale della tracklist saltano improvvisamente fuori dei pezzi più moderni nel sound, ci si sente quasi traditi e infastiditi. Succede soprattutto perché, nonostante "Heal Me" sia innegabilmente carezzevole, né la brezza tropical di "Why Did You That" o i synth di "Hair Body Face" (più protesa ai bei tempi andati di "The Fame") potrebbero mostrare orgogliosi la garanzia di futuro classico. Li si perdona per esigenza di trama, i brani vengono infatti presentati in ordine di apparizione nella pellicola e seguono quindi l'evoluzione stilistica dei due personaggi, con la protagonista Ally destinata suo malgrado a diventare la classica popstar iper-prodotta e coreografata prima di pentirsi e ritornare quindi all'essenza della musica. Un percorso che non potrebbe apparire più simpatetico di così a quello di Lady Gaga, insomma.
A dieci anni dal suo debutto e dopo una parabola che pareva destinata a non risollevarsi più, la Germanotta torna finalmente e prepotentemente in primo piano nel panorama pop: svariati i premi per la sua interpretazione cinematografica, Academy Award per la miglior canzone a “Shallow”, che raggiungerà una notorietà che un suo singolo non vedeva forse dai tempi di “Born This Way”, ma tutta la colonna sonora otterrà un enorme successo, confermando un trend inaugurato da "La La Land" e proseguito con "The Greatest Showman". Tuttavia, proprio quando la sua immagine e la sua proposta musicale sembrano essersi indirizzate verso una fase decisamente adult-oriented, Lady Gaga inaugura una serie di concerti a Las Vegas, il luogo ideale per un'insofferente alla vita da tour come lei, e mescola di nuovo le carte in tavola. Fatta eccezione per una manciata di date all'insegna del great american songbook (immancabile tra le slot machine del Nevada), tornano infatti a farla da padrone il kitsch, le trovate teatrali e soprattutto i pezzi forti dei suoi primi album, a discapito di quelli più recenti, relegando prematuramente in soffitta Ally e Joanne.
Il ritorno sulla pista da ballo
The Fame (Interscope, 2008) | ||
The Fame Monster (Interscope, 2009) | ||
The Remix (remix album, Interscope, 2010) | ||
Born This Way (Interscope, 2011) | ||
Born This Way: The Remix (remix album, Interscope, 2012) | ||
ARTPOP (Interscope, 2013) | ||
Cheek To Cheek (con Tony Bennett, Interscope/Columbia, 2014) | ||
Joanne (Interscope, 2016) | ||
A Star Is Born (soundtrack, Interscope, 2018) | ||
Chromatica (Interscope, 2020) | ||
Love For Sale (con Tony Bennett, Interscope/Columbia, 2021) |
Just Dance (videoclip da The Fame, 2008) | |
Beautiful, Dirty, Rich (videoclip da The Fame, 2008) | |
Poker Face (videoclip da The Fame, 2008) | |
Eh, Eh (Nothing Else I Can Say) (videoclip da The Fame, 2009) | |
LoveGame (videoclip da The Fame, 2009) | |
Paparazzi (videoclip da The Fame, 2009) | |
Bad Romance (videoclip da The Fame Monster, 2009) | |
Telephone (videoclip da The Fame Monster, 2010) | |
Alejandro (videoclip da The Fame Monster, 2010) | |
Born This Way (videoclip da Born This Way, 2011) | |
Judas (videoclip da Born This Way, 2011) | |
The Edge Of Glory (videoclip da Born This Way, 2011) | |
Yoü And I (videoclip da Born This Way, 2011) | |
Marry The Night (videoclip da Born This Way, 2011) | |
Applause (videoclip da ARTPOP, 2013) | |
G.U.Y. (videoclip da ARTPOP, 2014) | |
Perfect Illusion (videoclip da Joanne, 2016) | |
Million Reasons (videoclip da Joanne, 2016) | |
John Wayne (videoclip da Joanne, 2017) | |
Shallow (videoclip da A Star Is Born, 2018) | |
Always Remember Us This Way (videoclip da A Star Is Born, 2018) | |
Stupid Love (videoclip da Chromatica, 2020) | |
Rain On Me (videoclip da Chromatica, 2020) |
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