Non che i singoli abbiano fatto qualcosa per nascondere la direzione scelta per il disco. Ridimensionando l'impatto house delle collaborazioni per “One Kiss” ed “Electricity”, aumentando però il calore strumentale e l'impatto dei bassi, il primo estratto, la ormai onnipresente “Don't Start Now”, ha visto Lipa entrare nel pericoloso territorio del funk, emergendone vincitrice grazie a una gestione accuratissima dei blocchi melodici e a un sofisticato impianto produttivo che svecchia l'armamentario sonoro con una maggiore spigolosità del beat e passaggi più taglienti. Se la title track, con i suoi riferimenti metatestuali e la baldanza interpretativa, padroneggia il lessico della french-house più raffinata veicolandolo in segmentate sezioni electro, “Physical” si fionda nel mezzo del dancefloor, richiamando l'omonimo evergreen di Olivia Newton-John in un puro distillato di perfezione 80's, esaltato dal trattamento synth-wave della base. Il tutto, prima che “Break My Heart” catapulti “Need You Tonight” degli Inxs nella contemporaneità e ne accentui le dinamiche disco, scorgendo Prince dallo specchietto retrovisore.
Passatismo? Certo, già dal titolo sembrerebbe che la resa ai tempi che furono sia incondizionata. Se è vero che la stessa Lipa non nasconde le sue influenze (Madonna, i Daft Punk, ma anche la Kylie Minogue di “Light Years” e “Fever” è un riferimento palese), il discorso prende però una piega un attimo meno calligrafica, trasportando il sentimento nostalgico verso un presente per cui la materia dance costituisce un nuovo punto di partenza, modulato sulla sensibilità melodica e compositiva attuale.
Con un agguerrito manipolo di produttori (tra i quali figurano “vecchie” volpi come Stuart Price e Ian Kirkpatrick) la visione dell'autrice si risveglia anche e soprattutto nei vari brani inediti, dimostrando di non perdersi dietro a fantasie di epoche mai o a malapena vissute. Dal singolo mancato “Hallucinate”, scintillante cavalcata house sorretta da incastri melodici da manuale (la nuova “Love At First Sight”?), alle diffrazioni funktroniche, quasi à-la Chromeo, di “Pretty Please”, increspate da una sottile malizia, per finire sull'esuberanza comunitaria di una “Levitating” (che un Jay Kay amerebbe nel suo repertorio più recente), il progetto mostra una caparbietà impressionante nell'evitare di cadere nelle trappole del kitsch estetizzante, nel puntare la sua macchina del tempo prendendo quanto di meglio i decenni trascorsi avevano da offrire, traslandoli in affilati meccanismi pop.
È un peccato che la magia dance si interrompa all'improvviso, affidando la chiusura a due pezzi piuttosto stridenti con l'impianto generale: se da un lato “Good In Bed”, coi suoi rimandi alla sbruffonaggine della prima Lily Allen, tutto sommato diverte, l'impatto da ballata “woke” di “Boys Will Be Boys” conclude l'ascolto su un impacciato tono sociale che l'album era riuscito a evitare senza colpo ferire. Poco male, non sarà certo la seriosità di un brano a rovinare l'impatto complessivo, ma quello che poteva configurarsi come un “Fever” traslato negli anni Venti si ferma poco prima del traguardo. Quel che è certo, è che tante di queste canzoni ce le porteremo dietro molto a lungo: in fondo, non è proprio questo l'obiettivo della più efficace musica pop?
(31/03/2020)