È difficile voler male a Florence Welch. Adesso che gli Arctic Monkeys si sono rifugiati in uno stiloso lounge bar, se non fosse per lei i millennials penserebbero che il rock "suonato" sia un genere adatto esclusivamente ai loro genitori o che, peggio ancora, faccia rima soltanto con Imagine Dragons. Gli strumenti per convincerli non le sono mai mancati: il suo timbro squillante, certo, ma soprattutto una capacità interpretativa fuori dal comune, capace di sottolineare col giusto pathos il significato di ogni singola parola. Quella capacità che anche stavolta è in grado di regalare più di un'emozione, durante l'elegiaco incipit di "June", nelle delicate trame folk di "Sky Full Of Song" e in un'ottima "The End Of Love" che più katebushiana non si può.
A darle man forte è la sua macchina sempre pronta a calare le sue visioni in atmosfere senza tempo, tra sognanti festival vintage ("South London Forever") e femminili riti esoterici. Missione compiuta anche stavolta, quindi? Purtroppo no, perché in questo "High As Hope" tutti i pregi sinora elencati, accompagnati da un intellettualismo che si è fatto di volta in volta sempre più pretenzioso, sono talmente prominenti ed esasperati da sovrastare ciò che dovrebbe essere finanche più importante, qualora ci fosse, ovvero le canzoni.
Succede persino nel singolo principale scelto per lanciare il nuovo lavoro, una "Hunger" che spogliata dai suoi orpelli, dai contro-canti solenni e, ovviamente, dall'interpretazione della Welch colpirebbe soltanto per un'esilità melodica che sinora si era raramente ascoltata nei suoi album. Troppo spesso si ha l'impressione che il flusso di pensieri e parole della rossa maliarda sia stato incastrato a forza in costruzioni musicali non altrettanto torrenziali e articolate da poterlo contenere agilmente. Per una snella "Patricia", in cui l'equilibrio viene miracolosamente sfiorato, diversi brani si trascinano affascinanti ma farraginosi, nella vana attesa di un compimento che non arriva mai, come nella funerea "Big God", o di un refrain che renda loro davvero giustizia ("Grace").
La ricerca e l'esaltazione del bello sono palpabili e a loro modo gratificanti durante l'ascolto di "High As Hope", ma si tratta della bellezza formale che vince sulla sostanza, dell'intelletto che prende il sopravvento sulla visceralità (e sull'ispirazione). Con dischi simili (ma migliori) Bat For Lashes passerebbe più in sordina del solito, ma Florence + The Machine è ormai un nome troppo grosso, fortunatamente, da potersi anche permettere un album più interlocutorio senza grosse conseguenze.
È soltanto un po' frustrante e paradossale che un disco concepito per suonare come un classico, alla fine, di futuri classici potrebbe non contenerne affatto.
03/07/2018