Bat For Lashes

Bat For Lashes

Favole esot(er)iche da Brighton

Con un piede nel mondo mainstream e uno nell'indie più romantico, Natasha Khan ha segnato il pop degli ultimi due decenni con una saga musicale particolare e seducente. Dove synth anni 80, ritmiche giocattolose e toni epico-cerimoniali mutuati dalla new wave lavorano all'unisono per trasformare le misteriose fantasie di Bat For Lashes in canzoni

di Michele Corrado

Quando si tratta di capire meglio alcuni artisti, è senz'altro d'aiuto sbirciare nel loro passato, in particolare nei meandri delle loro spesso turbolente storie di crescita. Si tratta in realtà di un principio applicabile a ogni artista (e probabilmente essere umano), ma per alcuni soggetti questa diventa una pratica essenziale. È sicuramente uno di questi, il caso di Natasha Khan aka Bat For Lashes. La sirena, la megera, la cacciatrice di uomini, la fata, la sposina dal cuore spezzato (e, come si suol dire, chi più ne ha più ne metta) da Brighton, che dal 2006 dell'esordio “Fur And Gold” mette d'accordo la critica più intransigente e un pubblico piuttosto vasto, che pesca tra gli indie più irriducibili quanto tra gli appassionati del pop più accattivante.

Figlia di madre inglese e padre pakistano, Natasha Khan ha subito il fascino della folla molto presto. Suo padre, suo nonno e suo zio paterni sono stati celebri giocatori di squash, mentre diverse donne della famiglia sono state attrici di teatro. Così che la piccola Nat ha conosciuto i brividi che una platea vibrante può darti molto presto. Certo, la piccola viveva l'audience indirettamente, ma abbastanza da vicino da accumulare insistenti fantasie e, molto presto, la voglia di averne e dominarne una tutta sua. La chanteuse britannica ha infatti fatto spesso riferimento al rapporto viscerale che ama instaurare con il pubblico, alla forza che può trarre dal ruggito della folla, che ha definito intenso, cerimoniale, ritualistico. Tutti aggettivi che ben si attagliano ai brani più epici di Bat For Lashes, specialmente nella dimensione live.
La famiglia è stata quindi fondamentale per generare la bramosia di Natasha di avere un pubblico, di diventare famosa, ma l'ha indotta anche confrontarsi molto presto con la grettezza della provincia inglese. Rickmansworth (Hertfordshire), il paese dove i Khan vivevano da quando Natasha aveva compiuto cinque anni, non è certo un paradiso di accoglienza e accettazione, così la Nostra ha dovuto fare i conti con le angherie e il razzismo dei compagni di scuola sin da adolescente.
Tuttavia, la nostra non era certo una che se le faceva mandare a dire, e così, in un momento di reazione esasperata, imprecò in classe e scagliò una sedia verso un'insegnante. Fu dunque sospesa. Al suo ritorno a scuola divenne la classica ragazza da evitare, la cattiva frequentazione che ti avrebbe rovinato i voti di fine semestre. Praticamente una reietta.
Fu in questo periodo di grande fragilità e frustrazione che Nat iniziò a scrivere le sue prime canzoni: ballate tristi per voce e pianoforte – strumento che ha imparato a suonare da audodidatta all'età di undici anni - per canalizzare la sua rabbia dopo l'abbandono da parte del padre del tetto familiare.

Complice la non rosea situazione economica familiare, dopo la fine delle scuole superiori Nat dovette trovarsi un lavoro. Che finì con l'essere quello di operaia in una grigia fabbrica di imballaggi in carta della zona. Non quel che si dice un dream job, ma i lunghi turni in solitudine permisero alla neo-diplomata non solo di trascorrere ore e ore riascoltando la propria musica con vecchio un cd player portatile, ma anche di lasciarsi andare con la fantasia, immaginando ogni giorno storie da ambientare in nuove canzoni. Da riascoltare il giorno dopo, e quello dopo ancora, alla ricerca di nuovi dettagli e sfumature.
Risparmiato un bel gruzzoletto aprendo e chiudendo scatole, Natasha riuscì a regalarsi tre mesi di viaggio on the road tra Usa e Messico. Una lunga esperienza che le avrebbe regalato emozioni e aneddoti, ma soprattutto nuovi colori e suggestioni da inglobare nelle sue fervide fantasie musicali.
Fatto ritorno in Uk, la nostra decise di trasferirsi nella ridente Brighton, dove avrebbe finalmente fatto coincidere le sue passioni con la sua formazione, scegliendo un corso di laurea in Musica e Arti visuali all'università locale. Durante i suoi studi, si appassionò a musicisti sperimentali quali Steve Reich e Susan Hiller, che avrebbero fatto parte delle sue influenze per sempre, in buona compagnia dei vecchi idoli del pop e della darkwave anni 80.
Non sicura di poter vivere di musica, la prudente Nat si diplomò anche come maestra d'asilo, professione che avrebbe svolto lungamente nella cittadina marittima a sud di Londra. Tuttavia, la musica continuò a essere per lei un'ossessione, di quelle che ti divorano il tempo libero. La passione e la dedizione verso la musica sarebbero state ripagate decisamente tardi, quando Natasha aveva ormai ventisette anni. Di lì in poi, l'ascesa dell'artista sarebbe stata però fulminea.

L'oro di Nat

Accade tutto molto in fretta e in modo naturale. Nel 2006, grazie a qualche contatto giusto, il primo singolo di Nat, “The Wizard”, finisce nelle mani di Drowned In Sound che non esitò a pubblicarlo digitalmente e a elogiarlo sulle proprie pagine. L'amosfera intima e mistica insieme, l'ambientazione fantastica, la voce ghiacciata che in alcune intonazioni ricorda Bjorke quella tastierina, picchiettata come un giocattolo, fecero breccia in molto cuori. E' una canzone molto timida, che si insinua nelle teste degli ascoltatori con dolcezza, imprigionandole come l'incantesimo di un mago.

And my bat lightning heart
Wants to fly away
(da "What's A Girl To Do")

Quando l'etichetta indipendente Echo la contattò per un disco, Khan aveva tanto materiale registrato amatorialmente quante nuove idee, così che riuscì a terminarlo entro l'anno. Dopo la release di Fur And Gold (l'undici settembre 2006), bastò un altro pugno di mesi affinché la Parlophone fiutasse l'affare e ne acquistasse i diritti per ripubblicarlo su larga scala.

Sulla copertina del suo debutto, Natasha Khan - truccata un po' da fatina boschiva e un po' da nativa d'America - si aggira per le villette a schiera della periferia inglese, scortata da un fido destriero. È una foto che richiama le atmosfere magiche del disco, ma anche una celebrazione della fantasia che ha salvato Natasha da quei posti e alleviato il dolore che le hanno inferto. E' in pratica quello che aveva fatto ogni sera della sua vita, tornando a casa da scuola o dalla fabbrica di pacchi, solo che il cavallo e i diademi dorati non erano più solo nei suoi pensieri, ma su quella copertina. Così come molto presto sarebbero stati nell'immaginario di migliaia di fan.
Il cavallo è il protagonista del primo brano, “Horse And I”, dove una tastiera dal sapore antico di clavicembalo, sintetizzatori fantasmagorici e un ritmo marziale inscenano un sogno ispirato alle vicende di Giovanna d'Arco. “Trophy” è meno esoterica, sfodera un accattivante basso new wave e con le sue ambientazioni più urbane permette alla Khan di risultare convincente anche in vesti più sensuali. Handclapping e arpeggi discendenti di pianoforte, uniti al sapore ancestrale di un'arpa, fanno di “Tahiti” uno dei brani più oscuri della partita, mentre “Sad Eyes” è una sconsolata piano ballad dall'impostazione più classica.
Prima hit di Bat For Lashes, “What's A Girl To Do?” è un ottimo esempio di cui fare uso per spiegare l'essenza della sua musica fino a quel momento: pop song immediate dal retrogusto dark, che mediante soluzioni ingegnose, a volte casalinghe a volte retrò, e grazie una voce pazzesca, finiscono col risultare insieme straniere e familiari, misteriose ma confortevoli.
“Prescilla” e “Sarah” inaugurano una tradizione ancora viva nella discografia di Nat, quella delle canzoni col nome di ragazze, che raccontano le storie delle proprie protagoniste svelandone le intriganti e sentimentalmente intense vicende. Mossa da percussioni febbrili e dall'echeggiare di uno strumento a corde caldo ed esotico, “Prescilla” sogna una vita normale, una famiglia con due bambini; a “Sarah”, invece, quando era fanciulla è successo qualcosa di molto brutto (“they cut her heart out/ when she was a little girl”), ma la ragazza si fa forza sospinta da una briosa sezione di fiati.
Un piccolo rimprovero che si potrebbe muovere a Fur And Gold riguarda la sua mancanza di organicità, tanto che talvolta alcuni brani risultano un po' slegati dal resto, sfilacciando dunque la resa dell'album nella sua interezza. La pecca è probabilmente dovuta al fatto che i brani non sono stati pensati per far parte di un disco, ma concepiti, sebbene in forme più rudimentali, in precedenza.
Non si tratta però di nulla che abbia impedito alle dodici canzoni di conquistare, con il loro fascino oscuro, stuoli di fan; alcuni dei quali tanto noti da poter corroborare ulteriormente l'ascesa di Bat For Lashes. Anzitutto Devendra Banhart e Bjork, che la avrebbero chiamata  rispettivamente sui palchi di All Tomorrow's Parties e Rock En Seine, ma soprattutto i lungimiranti Radiohead che nel 2008 le chiedono di aprire il loro trionfale tour europeo in supporto a “In Rainbows”.

And as my heart ran round
My dreams pulled me from the ground
Forever to search for the flame
(da "Daniel")

Dopo riscontri del genere, lo scenario nel quale Bat For Lashes si trova a lavorare al proprio sophomore è completamente capovolto. Hype enorme e riflettori puntati addosso, la pressione di una major come Parlophone... insomma, quanto di più lontano dalla spensieratezza con cui Natasha aveva tentato la sorte solo tre anni prima.

All'ombra del Joshua Tree

Pearl, la disinibita, biondissima protagonista di Two Suns, è nata nel deserto. Per approfondire alcuni aspetti dell'enigmatico carattere del personaggio, Nat vola nuovamente negli States, soggiornando nei pressi del Joshua Tree per trarre la definitiva, esotica ispirazione che avrebbe dato vita al nuovo disco. Un lavoro basato sul concetto filosofico di dualità e che si annuncia sin dalle premesse più ambizioso e coeso del predecessore.
Le canzoni vengono invece scritte tra Brooklyn e Londra. La prima delle due permanenze si rivela decisiva per lo sviluppo del concept e del sound di “Two Suns”. Relativamente sconosciuta, a New York Natasha può aggirarsi per le stradine e i ponti del quartiere interpretando il ruolo e l'attitudine particolarmente civettuola di Pearl. Un esperimento particolarmente riuscito, che dona grande profondità e sfaccettature al personaggio.
La città influenza profondamente il rinnovamento sonoro a cui Bat For Lashes avrebbe sottoposto le sue nuove favole-canzoni. In quel periodo la scena di Brooklyn è dominata da band come MGMT, TV on The Radio, Gang Gang Dance, Yeasayer, formazioni certamente diverse fra loro, ma unite dall'elettricità e dalla ballabilità emanate dai loro groove metropolitani e meticci. Natasha trova la fiorente scena particolarmente elettrizzante, tanto da volerne far parte. Nasce così il sodalizio con gli Yeasayer, che di Two Suns avrebbero elaborato i bassi e i vibranti beat, oltre a conferire aromi orientaleggianti agli arrangiamenti. Alle registrazioni prendono parte anche Charlotte Heaterly (Ash) e Sarah Jones (New Young Pony Club).

Il nuovo modo di concepire il ritmo, unito alle vecchie atmosfere oscure e sofisticate, qui ancora più ammiccanti al cupo immaginario 4AD (omaggiato apertamente nella flessuosa “Siren Song”), porta alla coniazione di un sound potente, evocativo, ma allo stesso tempo facilmente fruibile, catchy e talvolta ballabile, nonché a conti fatti inedito. Dove i debiti alle varie Amos, Bjork e Bush rimangono, ma vengono utilizzati dalla cantante come orpelli, sfaccettature da usare all'occorrenza, di uno stile proprio. “Moon And Moon”, la ballata pianistica del disco, suggella questa maturazione, riuscendo con i suoi vocalizzi fluttuanti e le sue aperture liriche a interpretare il genere con personalità, laddove nel vecchio disco “Sad Eyes” falliva, risultando uno dei brani meno originali della scaletta.
I grandi sforzi effettuati in sede di produzione e di scrittura sono evidenti sin dall'opener “Glass”, un'introduzione imponente, nella quale Natasha Khan si muove con sicurezza sacerdotale tra i bassi profondi e le vibrazioni sinistre di strumenti a corde orientali, giganteggiando con i suoi vocalizzi, mai così sicuri e autoritari. Meno sacrale, ma altrettanto mesmerica è “Sleep Alone”, episodio ballabile grazie a un sotterraneo ritmo tribale.
Ad alzare ulteriormente l'asticella delle influenze e dell'espressionismo del disco ci pensa la sferragliante “Peace Of Mind”, un mantra del deserto devoto a Nico, con la sabbia sollevata da un tamburello che sferraglia come una catena e da cori gospel; molto suggestivo lo strumming lento ma deciso sulla chitarra acustica, della quale viene fatto sentire il ferro vivo. È sicuramente uno dei pezzi meno pop di Two Suns, ma tra i più esemplificativi delle ambizioni e delle capacità della Khan.
Brano pop atipico (ritornello e strofa appaiono spezzati, tanto che sembra di sentire due canzoni che si alternano), “Pearl's Dream” è un conturbante brano synth-driven con tanto di battimani da scatenarsi. “Good Love” presenta arrangiamenti meno complessi e stratificati, tanto che la semplice linea d'organo prima e il picchiettare del pianoforte elettrico poi creano un'atmosfera intima e dimessa, che rimanda a quella delle prime canzoni di Bat For Lashes, mentre l'andamento spastico del pianoforte e le ariose partiture di archi di “Travelling Woman” propongono una contaminazione curiosa tra i Radiohead di “You And Whose Army?” e le ballate di Tori Amos.
Suggella l'opera e la maturazione della sua autrice “The Big Sleep”, onorata da un cerimoniere d'eccezione come Scott Walker, che aggiunge con il suo tono flebile da spettro una buona dose di mistero e cerimonialità a un cantico senza tempo.

Critica e pubblico apprezzano, con una pioggia di recensioni positive, una candidatura al Mercury Prize e ottimi piazzamenti nelle classifiche di numerosi paesi (in primis, un sonoro quinto posto nella classifica degli album del regno Unito).
Probabilmente consapevole dell'irripetibilità del risultato, Nathasha Khan non avrebbe più provato a ripetere la complessità di Two Suns. Vi si sarebbe avvicinata forse solo con l'altro suo concept-album, The Bride, ma con ambizioni e voglia di stupire ridimensionate, forse anche a causa della sua maturazione e del senso della misura che essa comporta.

Natasha a nudo

Here am I
Lookin' for a lover to burn the night
Lookin' for a lover to breathe to life
I am you
(da "Oh Yeah")

Rilasciato nell'ottobre 2012 sempre mediante Parlophone, The Haunted Man bissa il successo commerciale del suo predecessore, aggiudicandosi la sesta posizione nella classifica inglese degli album. A quel punto Natasha Khan aveva conquistato un saldo posto in quel limbo di star a cavallo tra mainstream e circuito indipendente, troppo raffinate per sfondare definitivamente nel primo e troppo ammiccanti a platee più vaste per convincere gli indie-kid più pudichi. Una posizione scomoda, che avrebbe segnato l'inizio del declino commerciale della Nostra, che però almeno per il momento riesce ancora a restare a galla, aggiudicandosi tour di spalla a Blur e Depeche Mode
Forse a causa delle aspettative troppo alte, e viene da aggiungere oltremodo confuse, The Haunted Man viene visto subito come un passo falso. Cosa che in un certo senso è, rappresentando di fatti il tassello più debole di una carriera altrimenti impeccabile. Ovviamente, data la classe e i mezzi a disposizione, le gemme non mancano anche in questa occasione, racchiuse in una copertina algida e ammiccante, dove Nat, bellissima e nuda, traina sulle spalle la sua preda: un uomo, altrettanto nudo e inerme. È il contenitore perfetto per il disco più freddo e programmaticamente incolore dell'artista, che si lascia così alle spalle gli esotismi, le tinte dark e le esuberanti imperfezioni dei primi due lavori e li rimpiazza con sintetizzatori chirurgici e ritmiche asettiche. Questa assenza di calore è probabilmente un'ulteriore causa del raffreddamento dei fan.
Efficace simbolo di questo nuovo corso è l'elegantissima “Oh Yeah”: drum machine ad affettare l'amosfera, un fiume di pianoforte minimale, quasi impercettibile, e graffianti lampi di sintetizzatore a sfondare le tre dimensioni e alleggerire i gorgheggi di Natasha, a suo agio in queste ambientazioni glaciali come lo era nel calore del deserto. Più movimentate, le poliritmie di “All Your Gold” riescono a farsi ballare e a catturare l'attenzione, grazie alle asimmetrie che creano con i sintetizzatori.
Scelta come atipico singolo di lancio, “Laura” è la ballad al pianoforte più mesta mai prodotta da Bat For Lashes, il cui arrangiamento semplice e scevro di orpelli lascia rifulgere un teso semplice e poetico sulla solitudine che si può provare dopo un abbandono, nonostante ci si trovi in mezzo agli amici e in un clima festoso ("When you smile is so wide and your heels are so high/ you can't cry"). È di tutt'altra pasta “Marylin”, piece cibernetica per sintetizzatori saettanti (che tornano a lampeggiare nel centro di “A Wall”).
Sebbene adornata da arrangiamenti orchestrali (fiati e un quartetto d'archi in gran spolvero), grazie alle sua epica teatrale “Winter Fields” è la canzone che più ricorda le messe in scena di Two Suns, solo che questa volta ci si trova a correre e lasciare impronte su di un'immensa, candida distesa di neve. “Rest Your Head” è il brano più bjorkiano del mucchio, ma anche qui l'apparato elettronico è minimale e viene rilasciato calore solo al momento di un fluido assolo di una tastiera vintage.

Life is so much dark and light
Day can not exist without a night
(da "Two Planets")

La strega del sesso

Per un ritorno discografico di Nathasha Khan bisognerà attendere tre anni, ma con nostra sorpresa non si tratterà di un disco di Bat For Lashes, bensì di una nuova, conturbante creatura chiamata SEXWITCH. La strega del sesso è certamente Nat, qui più sensuale e tentatrice che mai, ma a metterci il ritmo e fondali di tastiere psichedeliche sono i TOY. Produce il volpone della console Dan Carey, già produttore di entrambi.
È infatti proprio Carey a intuire le potenzialità, magari non remunerative, ma di certo artistiche, di una fusione tra due mondi del genere. Quando Dan, lavorando alla produzione di The Haunted Man, viene a sapere della passione di Natasha per le ritmiche kraut e per la world music più esoterica, questo incontro gli pare inevitabile. Decide così di proporlo alle due parti ed è così che questa super-formazione nuova di zecca inizia a lavorare sui brani di SEXWITCH. Sei stralci di brani folk ed esoterici provenienti da altrettante parti del mondo danno vita a composizioni psichedeliche altamente coinvolgenti, dove la voce di Natasha, svincolata dalla forma canzone, e una delle sezioni ritmiche più forti della musica indipendente inglesi trascinano l'ascoltatore in una trance sciamanica. 
Non bastava, però, mettere insieme queste due anime, lasciarle sole in uno studio di registrazione e ottenere dunque per mera addizione il suono SEXWITCH. Entrambe le parti convolte hanno dovuto sacrificare parti della loro essenza e modularne delle altre. Se, come dicevamo, la Khan si è liberata dagli stilemi pop solitamente osservati con Bat For Lashes, specie nell’ultimo periodo, i TOY hanno dovuto abbandonare le loro aspirazioni spaziali, dedicandosi a tortuosità più terrestri e folk.
I due brani certamente più caratteristici del disco sono “Ha Howa Ha Howa” e “Kassidat El Hakka”, due vortici ritmici che avvolgono i vocalizzi tribali di Natasha, con fiumi di tastiere in secondo piano a suggerire rimandi esotici e a rinfocolare la trance. “Helelyos” è invece, con i limiti del caso, il pezzo più urbano e groovy del lotto. La magia nera che i tre pezzi in questione sono capaci di evocare viene purtroppo un po’ meno nei brani più lenti, su tutti in “Lam Plean Kiew Bao”, un saggio di psichedelia sintetica di estrazione indiana un po' stantio.

Walking out, walking out in this cold winter light
All the pretty girls, all the pretty ones have tears in their eyes
(da "Honeymooning Alone")

Destinato a rimanere un feticcio per i fan di Bat For Lashes più avvezzi a suoni sperimentali, SEXWITCH rappresenta un unicum nella carriera di Natasha Khan e ad oggi non ha un seguito. E' comunque l'efficace, definitiva conferma di un'artista dal background articolatissimo, sempre coraggiosa quando si tratta di seguire il proprio istinto e imbarcarsi anche in imprese dallo scarso appeal commerciale. I fan, non più numerosi come un tempo, avrebbero dovuto aspettare però soltanto un altro anno per il capitolo quattro della saga Bat For Lashes: The Bride.

La sposa dark

Il synth-pop di Bat For Lashes ha sempre posseduto venature dark, ma in The Bride accade qualcosa di diverso: siamo di fronte a musica estremamente cupa, dove il nero non è più ridotto a qualche sfumatura, ma diventa soverchiante, opprimente. I consueti sintetizzatori sono suonati come organi funerei e concedono pochissimo spazio ai battiti, che arrancano lentissimi. Come quelli di un cuore esanime, sono talvolta assenti. C’è anche qualche chitarra western (ad esempio, in “Honeymooning Alone” e “Widow’s Peak”, che sono probabilmente il lascito di Jacknife Lee, qui al fianco di Carey in cabina di regia), ad arricchire uno scenario già decisamente dimesso e suggestivo, virandolo verso la polverosità di qualche buon vecchio road movie. L’unico brano che sarebbe potuto essere incluso nei lavori precedenti, dati i suoni più smaltati, è “Sunday Love”.
“Honeymooning Alone” inizia con i suoni di un incidente d’auto: lo stridio lancinante dei freni, la carrozzeria che si piega dunque in un impatto violentissimo. È la morte di uno sposo diretto all’altare, che lascerà sola per sempre la protagonista del titolo del disco. Questa la storia, semplice e tragica, dietro questo concept luttuoso e dolente, dietro al velo e al trucco sfatto dalle lacrime che Nat, comunque bellissima, sfoggia sull'artwork.
Le tredici tracce del disco si susseguono alla maniera dei capitoli di un romanzo o di un film di Quentin Tarantino, con la voce da sirena di Natasha che canta tutto in prima persona: l’incidente, l’infinita attesa sull’altare, la rivelazione della tragica notizia, la conseguente disperazione, la tragica fuga, l’impervia elaborazione della perdita. Si tratta di un modus operandi nuovo per la Khan, che nonostante si fosse già cimentata con altri concept-album, mai si era attenuta così saldamente alle strutture del genere. Un modo di fare che trova la sua forza e il suo trionfo nell'immedesimazione totale della cantante nella protagonista del disco. Le registrazioni di molte delle canzoni sono state infatti interrotte ripetutamente, perché la Nostra finiva con la voce rotta in singhiozzi.
Si tratta sicuramente del disco meno immediato e di più difficile fruibilità rilasciato da Bat For Lashes, che richiede ai suoi ascoltatori lo sforzo di andare oltre l'assenza di ritmo e ritornelli catchy, soffermandosi sul lavoro effettuato su particolari e sfumature. È dunque l'album che sancisce il definitivo abbandono da parte della sua autrice di trend e mode. Natasha è ormai decisa a proseguire da sola sulla sua strada, sia essa la valle di lacrime di una sposina dal cuore spezzato o il tortuoso sentiero boschivo di una seducente megera del sesso.

Love is a nowhere land
(da "Desert Man")


You're lost little girls

Meno strettamente di The Bride, anche Lost Girls del 2019 è un concept-album, certamente più frammentario del suo predecessore e diluito in più linee narrative. Gli scenari in cui si muove sono chiari ancora prima di premere play, grazie a un titolo che è un programma, dedicato alle protagoniste del disco e al contempo citazione del cult anni 80 di Joel Schumacher. Quell'iconico Lost Boys, con i teenager vampiri capeggiati da un fighissimo Kiefer Sutherland e da una colonna sonora leggendaria, della quale qualche pezzo di Lost Girls avrebbe potuto fare facilmente parte.
La prima cosa che viene in mente ascoltandolo è infatti che gli Eighties, da sempre lambiti da Bat For Lashes, sono qui reinterpretati più direttamente, con più nostalgia che spirito revisionistico; l'andamento plastico e conturbante delle drum machine di "Feel For You", la più passatista e ballabile del mucchio "So Good". 
Il cambio di genere del titolo del vecchio film non è l'unico legame con esso. I fumi dei sintetizzatori di "Kids In The Dark", l'organo lugubre e imponente che insieme ai beat à-la Tears For Fears dirige "The Hunger", il sassofono notturno che si avviluppa sull'arpeggio smithsiano di "Vampires" potrebbero tutti musicare una notte di periferia girata in super 8.
Agitata da una ritmica di velluto e da arpeggi di tastiera evanescenti, "Desert Man" mette in vetrina tutta l'esperienza e la classe da vocalist acquisita da Nat finora; mentre la successiva "Jasmine" è una corsa in auto tra le luci al neon dei Chromatics, con un gusto per i synth ancora più fedele agli Eighties di quello della band di Seattle.
Chiude il disco una doppietta di brani paesaggistici: "Peach Sky", con la sua ritmica metallica e una melodia deliziosamente stridente, e la riflessiva "Mountains", ennesimo saggio di estro canoro: un canto di sirena voluttuoso, da far venire voglia di nuove canzoni già alla fine del primo ascolto. 
Al netto di un calo fisiologico nella seconda parte, Lost Girls aggiunge nuove sfumature a una discografia ormai considerevole e imprescindibile nel panorama del pop alternativo degli ultimi decenni. Al contempo, un disco così spiazzante sgretola ogni possibilità di previsione delle mosse future della sua autrice. Buoni quaranta, Nat.

La mamma

Natasha Kahn, in arte Bat For Lashes, non ci aveva mai fatto aspettare così tanto per un disco. L’abbiamo ascoltata infatti per l’ultima volta nel 2019, quando “Lost Girl” tornava a proiettare la sua musica verso una forma canzone più rotonda e compiuta e sonorità programmaticamente rivolte agli anni ’80. Una direzione che questo The Dream Of Delphi sembra rifiutare completamente, assorto in una spirituale (quasi) assenza di battiti e girato completamente verso il mondo interiore dell’artista di discendenze anglo-kazake.
E non potrebbe essere altrimenti, perché Nat non è più quella di un tempo, come ha ribadito lei stessa in diverse interviste antecedenti il lancio di questo suo sesto disco. Avvenuta in California nel 2020, la nascita della figlioletta Delphi (da cui il titolo del disco) ha cambiato tutto per la Kahn e la Kahn stessa, che ha abbracciato la maternità così visceralmente da viverla come una sorta di rinascita sotto nuove spoglie – quelle, per l’appunto, di madre.

 

The Dream Of Delphi è a tutti gli effetti un sogno disegnato da Bat For Lashes: un sogno della figlia, un sogno per la figlia. Lallazioni, ritmiche dilatate, lamenti di archi, scorci pastorali sono gli elementi fondanti del suo disco più astratto in assoluto.
Comunque distante anni luce dalle canzoni pop di fabbrica BFL cui siamo abituati, con il suo insistente arpeggio di sintetizzatore e la ritmica schioccante che squarcia il brano a metà come una sorta di sole sintetico, la traccia d’apertura (e che intitola il disco) è infatti un oggetto tanto pregiato quanto ingannevole. Dovremo infatti aspettare ben quattro brani per incontrare la prossima (e unica altra) canzone, il coinvolgente singolo (“Home”).
Nel mezzo e dopo dilatazioni d’ogni sorta (“Christmas Day”), romantiche fughe al pianoforte verso un coinvolgente finale etereo (la meravigliosa “At Your Feet”), sortite sintetiche dagli aromi orientali inclinate verso la new age (“Breaking Up”, Delphi Dancing”).

 

Anche quando le parole sono poche e del tutto assenti, i titoli delle canzoni suggeriscono una sorta di diario emotivo dei giorni della gravidanza e dei primi anni di vita della piccola Delphi (“The Midwives Has Left”, “Her Fisrt Morning”.
È un disco diverso da qualsiasi cosa Bat For Lashes ci abbia fatto ascoltare finora The Dream Of Delphi. E non potrebbe essere altrimenti. “It's about what happens when you're stretched physically, mentally, even vaginally! (Riguarda quello che succede quando sei dilatate fisicamente, mentalmente e addirittura vaginalmente)”, ha detto la chanteuse a Rolling Stones. Dilatato, rarefatto, pensativo sono infatti i primi aggettivi che vengono in mente per raccontarlo.




Bat For Lashes

Discografia

BAT FOR LASHES
Fur And Gold(Echo, 2006)
Two Suns(Parlophone, 2009)
The Haunted Man(Parlophone, 2012)
The Bride(Parlophone, 2016)
Lost Girls (Awal, 2019)
The Dream Of Delphi (Universal, 2024)
SEXWITCH
SEXWITCH (Echo, 2015)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

What's A Girl To Do
(da Fur And Gold, 2006)

Prescilla
(da Fur And Gold, 2006)

Daniel
(da Two Suns, 2009)

Laura
(da The Haunted Man, 2012)

In God's House
(da The Bride, 2016)

The Hunger
(da Lost Girls, 2019)

Ha Howa Ha Howa
(da Sexwitch, 2015)

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