Per una band che ha visto la formazione del proprio nucleo fondante nel 1992 e che nel 2015 pubblica un nuovo album, è normale che si possa parlare di cambi di direzione e di alti e bassi dal punto di vista sia della qualità che della popolarità. C’è però un punto di forza che non può non essere concesso agli Ash, comunque la si pensi sulla loro musica: quello di essere rimasti sempre se stessi e aver sempre proposto canzoni e dischi facilmente riconducibili a loro senza mai ripetersi.
Ci sono state line-up a tre o a quattro, c’è stato un sound dolce, oppure ruvido, oppure pesante, oppure ancora contaminato leggermente dall’elettronica, ma sempre, in tutte queste versioni, si ascoltavano le canzoni e si capiva subito che si trattava degli Ash. Sicuramente il motivo più importante è il timbro vocale molto riconoscibile di Tim Wheeler, ma non si può non considerare la coerenza sia di uno stile melodico che ha generato tantissimi episodi da canticchiare in tutte le occasioni, mai uguali tra loro ma sempre riconducibili allo stesso songwriter, che anche del modo di interpretare queste melodie, con la capacità ogni volta di rivestirle della giusta dose di energia e intensità in modo da renderle vitali ma senza che il suono fosse mai invadente. Intensità che si può riscontrare anche nelle numerose ballad, dal suono ovviamente molto più morbido, ma capaci di convogliare la forza delle sensazioni espresse nella stessa misura rispetto agli episodi più classicamente rock. Questa capacità di rinnovarsi rimanendo fedeli a se stessi, inoltre, ha fatto sì che anche nei momenti meno ispirati, gli Ash non abbiano prodotto nulla di davvero disastroso o fallimentare, non scendendo mai sotto il livello dell’ascoltabilità.
Gli inizi e l’immediata continuità ad alto livello
Tim Wheeler e il bassista Mark Hamilton si conoscono dall’età di 10 anni e suonano in una band chiamata Vietnam che si ispira agli Iron Maiden. Una volta scioltosi il gruppo, i due decidono di formarne uno loro, arruolano il batterista Rick McMurray e decidono che il nome della band sarà la prima parola breve che si trova sul dizionario. I tre iniziano subito a scrivere tante canzoni e i loro live sono immediatamente molto apprezzati a livello locale, ma purtroppo ci sono un po’ di difficoltà nel far sentire i demo a qualcuno che possa finanziare la realizzazione di un disco in studio. Dopo un po’, una piccola etichetta di Londra dà loro credito e riesce a far ascoltare la musica degli Ash a personalità influenti come Steve Lamaq e John Peel, che mostrano di gradire. A quel punto, la firma per la Infectious Records è una conseguenza naturale e nell’ottobre del 1994 arriva il mini-album Trailer.
Tim e Mark hanno 17 anni e Trailer porta con sé il sound di tre adolescenti che vogliono spaccare il mondo a metà anni Novanta. Il disco suona grezzo e imperfetto, con la chitarra sempre ruvida e il basso molto spesso in evidenza per dare più corpo più che per svolgere il proprio ruolo all’interno della sezione ritmica, con questo connubio che talvolta copre un po’ troppo la voce e persino la batteria, la voce stessa che non si cura certo della precisione formale. È il classico lavoro che convoglia la carica giovanile nel modo giusto, mettendo in evidenza freschezza e attitudine, grazie anche a un impianto melodico già ispirato, capace di risultare di facile ascolto pur se non troppo immediato. Le sette canzoni vedono un’alternanza tra episodi particolarmente aggressivi e con un suono che ricorda la cupezza del grunge e altri più snelli e dallo spettro emotivo meno intenso. Tra questi ultimi ci sono le canzoni più conosciute in quanto singoli, ovvero “Jack Names The Planet”, che punta forte su una melodia qui sì piuttosto immediata, “Petrol”, che sfrutta riff di chitarra particolarmente azzeccati e che hanno anche il merito di non reiterarsi nel corso del brano, e “Uncle Pat”, la più moderata del lotto in tutti i sensi.
Le altre quattro canzoni hanno le caratteristiche comuni di cui sopra, che però sono declinate in modi differenti, da una “Seasons” senza un ritornello e che vede un dinamico sovrapporsi di voce e chitarra, a una “Get Out” in cui non si fanno calcoli e tutto è a pieno regime, all’accoppiata “Intense Thing” e “Obscure Thing”, ovvero i due brani maggiormente pervasi di tensione e negatività.
Con Trailer, gli Ash mettono subito in mostra uno dei loro principali punti di forza: la capacità di prendere alcune idee base ben precise e concretizzarle con coerenza ma senza staticità. Il talento di questa band emerge già in modo netto, valorizzato nel modo migliore dalle massicce dosi di ruvidezza ed elettricità.La popolarità della band è in crescita esponenziale, ancor di più nel 1995 dopo la pubblicazione di due singoli irresistibili come “Kung Fu” e “Girl From Mars”. Arriva addirittura la firma con la Warner per il mercato statunitense e ormai è tutto pronto per il debutto sulla lunga distanza.
1977, l’anno di nascita di Wheeler e Hamilton nonché quello dell’uscita del primo “Star Wars”, arriva nella primavera del 1996 ed è inevitabilmente un grande successo, con tanto di numero 1 nella classifica di vendite in Uk e le copertine delle maggiori riviste.
Il disco contiene i due citati singoli e altri tre brani che si sono rivelati altrettante hit nel corso del tempo, ovvero “Goldfinger”, Oh Yeah” e “Angel Interceptor”, tutte canzoni per le quali è difficile immaginarsi un appassionato di musica rock che non le abbia ascoltate e apprezzate.
In generale, il disco mette subito in mostra gli elementi su cui si baserà sempre lo stile degli Ash: melodie che starebbero bene su qualunque canzone pop, un suono diretto, deciso ma anche composto, e un cantato che mantiene l’equilibrio tra la dolcezza delle melodie e la carica adrenalinica del suono per fare un po’ da trait d’union di questi due aspetti. Qui il tutto riesce particolarmente bene, anche perché le altre canzoni hanno comunque poco da invidiare a quelle diventate più famose, tra l’iniziale “Lose Control”, “I’d Give You Anything” e la conclusiva “Darkside Lightside”, che rappresentano un ideale collegamento con "Trailer" con una forma più compiuta, “Let It Flow” e “Innocent Smile” che sublimano la capacità di unire arrangiamenti rock più strutturati a melodie immediate e ispirate, “Gone The Dream” e “Lost In You” che rappresentano bene il lato romantico e sentimentale del trio.
Ma c’è poco da fare, questo è un disco nel quale i singoli sono anche le canzoni migliori: “Goldfinger”, grazie al connubio tra i saliscendi della chitarra e il ritmo controllato, è il perfetto ritratto di quanta intensità emotiva possa portare con sé la semplice attesa di qualcosa; “Girl From Mars” porta con sé una particolare morbidezza di melodia e timbro vocale e un dinamismo più accentuato nel suono; “Kung Fu” è particolarmente energica ma in modo diverso rispetto a “Trailer”, grazie a una struttura sonora fatta di pulizia e riccheza di dettagli, soprattutto dal punto di vista ritmico, per un brano da cui è impossibile non farsi trascinare durante l’ascolto; “Oh Yeah” ha anch’essa arrangiamenti molto dinamici, ma un ritmo più controllato e un suono più corposo, con tanto di interventi mirati degli archi, e rappresenta perfettamente il vivere la nostalgia senza subirla, alimentandosi di vibrazioni positive dai ricordi; “Angel Interceptor” è uno dei momenti più pop di tutto il repertorio degli Ash e riesce anch’essa a portare con sé una melodia molto ispirata e un suono mai statico.
Le caratteristiche generali di 1977 sono le stesse di tanti altri dischi di tante altre band, ma qui esse sono declinate con personalità, varietà e efficacia. Il tasso qualitativo è alto dall’inizio alla fine, gli spunti di interesse sono tantissimi e l’impronta stilistica è immediatamente riconoscibile. Aver ottenuto tutto questo al primo album e a nemmeno vent’anni di età è un risultato davvero fuori dal comune.
L’aumento di popolarità, l’arrivo di Charlotte Hatherley e il difficile secondo album
La popolarità della band è in costante aumento e il nome degli Ash entra nelle discussione su cosa sia o non sia britpop, visto che provengono dalla Gran Bretagna e si basano su melodie e chitarre. Il particolare timbro vocale e lo stesso stile melodico in effetti sono accomunabili al movimento britpop, ma ciò che distingue gli Ash da esso è l’impronta sonora. Infatti, anche i gruppi considerati più grintosi tra quelli innegabilmente britpop, come Shed Seven o Northern Uproar, hanno un suono decisamente più rotondo, mentre quello dei nordirlandesi, anche nei suoi momenti più puliti, rimane secco, ai limiti del tagliente.
In ogni caso, la popolarità degli Ash è così alta da portarli a un ingaggio a opera del regista Danny Boyle per realizzare la canzone che farà da colonna sonora al film “A Life Less Ordinary”, con Ewan McGregor e Cameron Diaz. La canzone, dallo stesso titolo, rappresenta uno dei vertici assoluti del repertorio della band e vede il debutto della line-up a quattro, con l’arrivo della bella chitarrista Charlotte Hatherley. Di solito, gli Ash puntano o su un suono pulito o su uno più ruvido e così rimangono per tutta la durata della canzone, mentre qui alternano le due tipologie sonore, con l’intro e il ritornello che fanno capo alla prima tipologia e la strofa alla seconda. Anche il grado di apertura melodica si adatta e, insomma, sembra di rivivere tutto quello che gli Ash hanno fatto fino a quel momento in una sola canzone. L’ispirazione melodica e il descritto equilibrio del cantato sono poi ai massimi livelli: questa canzone è semplicemente un gioiello di tutto il rock alternativo degli anni Novanta.
Ci sono, quindi, tutti i motivi per aspettarsi un nuovo grande album da questa formazione rinnovata. Nu-Clear Sounds arriva nell’autunno del 1998 e indubbiamente è un buon lavoro, ma non abbastanza da rispettare pienamente le aspettative degli appassionati.
Il problema è che il lavoro nel suo complesso manca dell’immediatezza del precedente senza che questo difetto venga compensato da ulteriori pregi. Come si vedrà anche dopo, gli Ash danno il meglio quando riescono a colpire al primo ascolto, che invece qui lascia un po’ disorientati. Va ribadito che si ha comunque l’impressione di un buon disco e che essa resiste anche dopo numerosi passaggi, però un suono pesante e cupo e uno stile melodico che perde un po’ della consueta impronta pop non appaiono le scelte migliori possibili. Anche in passato, come abbiamo visto, gli Ash si erano proposti con queste caratteristiche, però in quelle canzoni c’era il fascino della ruvidezza e della carica di gioventù e spontaneità che necessariamente ora non può esserci, non perché il quartetto non sia fatto da musicisti giovani, ma perché un gruppo ormai affermato non può più avere la stessa attitudine di chi è agli inizi e ha una voglia matta di spaccare il mondo. Non a caso, i momenti migliori sono quelli dal suono più morbido e pulito e dalle melodie più puramente pop, ovvero la fresca e solare “Wildsurf” e la romantica ballad “Aphrodite”.
In generale, le ballate, molto più numerose rispetto al disco precedente, fanno tutte una buona figura, anche perché non sono una la copia delle altre ed è interessante constatare come i quattro siano stati in grado di muoversi efficacemente in un territorio fino a quel momento poco esplorato. Nel corso del disco, ci si avventura in ulteriori nuovi territori, come l’inserimento di contaminazioni elettroniche in “Death Trip 21” o un rock particolarmente aggressivo e praticamente senza melodia in “Numbskull”, ma qui i risultati convincono decisamente meno.
Si può ritenere Nu-Clear Sounds come il frutto del lavoro di una band che ha dovuto ambientarsi sia con il rinnovamento della line-up sia con il raggiungimento dello status di nome importante ad alto livello. Certo, l’ampliamento della formazione è stata una scelta deliberata, ma non era sbagliato in astratto inserire un nuovo elemento per ampliare i propri orizzonti e inoltre, visto cosa sono riusciti a fare successivamente in quattro, il nucleo originario ha fatto benissimo ad arruolare la Hatherley.
Per quanto riguarda le vendite, anche qui non si toccano i risultati del disco precedente, ma ci si attesta su buoni livelli, ovvero, il debutto nelle classifiche inglesi al numero 7 e il disco d’oro in seguito. In definitiva, il passo indietro è piccolo e non compromette la carriera della band, che già con l’album successivo sarà rilanciata sui migliori livelli sia qualitativi, sia di successo commerciale.
Il rilancio e l’ulteriore aumento di popolarità
Free All Angels arriva nella primavera del 2001 e mostra un gruppo che ha preso una strada praticamente opposta rispetto al lavoro precedente. Il suono, infatti, è particolarmente pulito e accessibile e le melodie non sono mai state così aperte e immediate. Questa rimarrà la versione degli Ash di più facile ascolto e, perché no, pop, ma questo disco faticherà a uscire dai lettori di tantissimi appassionati non tanto per le caratteristiche di cui sopra, ma soprattutto per la qualità.
La pulizia del suono non significa che esso sia patinato, ma c’è semplicemente un equilibrio ideale tra genuinità rock e positività pop; le melodie non sono solo capaci di inchiodare l’ascoltatore fin dalla prima volta, ma sono figlie di una fervida ispirazione e risulterebbero irresistibili anche per l’appassionato più esigente; la parte vocale vede una presenza molto maggiore di armonie tra Wheeler e la Hatherley nei ritornelli, ed esse risultano molto meglio confezionate rispetto a prima; la varietà di soluzioni tra un brano e l’altro è di tutto rispetto, e ad essa si accompagna un ventaglio altrettanto ampio dal punto di vista delle sensazioni espresse.
“Shining Light” è una midtempo molto vitale e rappresenta bene la serenità di quando si è incontrato il partner sentimentale giusto; “Walking Barefoot” si alterna tra momenti di grande morbidezza e altri decisamente più energici e fa rivivere la nostalgia per una storia estiva che non è riuscita a tramutarsi in qualcosa di più stabile; “Burn Baby Burn” è festa e voglia di ballare e sudare tutto il tempo. Queste sono le tre canzoni più famose e celebrate del disco, è quasi impossibile che chi sta leggendo non le conosca e messe in apertura danno subito un tono importante a tutto il lavoro.
Anche le restanti tracce si rivelano all’altezza, soprattutto alcune ballad davvero coinvolgenti, in primis “Sometimes”, brano puramente elettrico che mette a nudo in modo impietoso quanto possa essere devastante la fine della storia d’amore che si credeva sarebbe durata per la vita; poi ci sono “Candy” e “There’s A Star”, dagli arrangiamenti più elaborati, vista la presenza di archi e tastiere, e più positive nel mood. Ci sono un paio di eccezioni a questo florilegio pop: “Submission” riprende le contaminazioni con un suono elettronico pesante della “Death Trip 21” del disco precedente e, manco a dirlo, sforna un risultato decisamente più apprezzabile e a fuoco, mentre “Shark” è pura potenza rock.
Tutte le tracce meriterebbero una citazione, ma ormai si è capito che Free All Angels è uno di quei dischi in cui tutto è al posto giusto, non solo dal punto di vista formale, ma anche e soprattutto sostanziale. Difficile scegliere tra questo e 1977 come miglior album degli Ash, ma è quasi ovvio che siano comunque questi due a meritare le prime posizioni di un’ideale classifica.Il successo di vendite è ovviamente alto e il numero 1 nelle classifiche è immediatamente conquistato, anche perché i due singoli anticipatori sono proprio “Shining Light” e “Burn Baby Burn”, che non potevano non solleticare la fantasia degli ascoltatori. Gli Ash, in questo momento, sono al top assoluto della loro popolarità, così ne approfittano per far uscire un best of con tutti i singoli e un cd aggiuntivo con un’ampia selezione di B side. Sulla bontà della scelta dei singoli abbiamo già detto, ovvero quasi sempre la selezione è stata azzeccata salvo un paio di brani, ovvero la citata “Numbskull” e una “Jesus Says” che non ha davvero niente di davvero interessante al proprio interno. Delle B side ce ne sono alcune valide, soprattutto tra le prime, come spesso succede, e la qualità media è accettabile, ma non ci sono grandi rimpianti per il fatto che una o più di esse non siano finite su disco. Nell'antologia compare anche un brano inedito, “Envy”, che non colpisce particolarmente.
La band passa i due anni successivi alla pubblicazione di Free All Angels a raccogliere premi e piazzamenti alti nelle classifiche di vendita dei vari singoli ed è incessantemente in tour in tutto il mondo. E l'instacabile attività dal vivo finirà per ispirare un nuovo cambio di stile sonoro per il successivo lavoro in studio.
Meltdown arriva nella primavera del 2004 ed è realizzato con il produttore dei Foo Fighters Nick Rasculinecz nello stesso studio dove i Nirvana avevano registrato "Nevermind". Già queste referenze fanno capire che il suono si è di nuovo appesantito, ma le differenze con Nu-Clear Sounds sono evidenti. In primo luogo, gli arrangiameenti sono più strutturati e questo è il disco nel quale probabilmente gli Ash si sono spinti più in là nella ricerca di armonie strumentali e di nuove modalità di far interagire le chitarre con la sezione ritmica; inoltre, le melodie si sono mantenute aperte e immediate come quelle di Free All Angels. In realtà, la combinazione di questi due aspetti inizialmente spiazza gli ascoltatori, infatti il disco non arriva al numero 1 ma solo, si fa per dire, al 5, e al di là dei risultati di vendite, non è davvero facile entrare subito in queste canzoni e apprezzarle compiutamente come in realtà meriterebbero. Ci si arriva dopo un po’, quindi, a capire che Meltdown è un gran disco, che si colloca appena sotto i due citati, ma proprio di poco.
I ritornelli sono tutti trascinanti, la qualità melodica in generale è molto alta e risulta ben valorizzata dall’interazione con il suono sopra descritto, gli spunti di interesse sono continui, anche per quanto riguarda il songwriting in sé. Piacciono soprattutto “Orpheus”, melodicamente tra le più ispirate di tutto il repertorio della band e ottimamente sviluppata grazie allo special articolato tra i due ultimi ritornelli, “Evil Eye”, un perfetto equilibrio di sensazioni diverse nel suo essere maliziosa, intrigante e nel far vivere quell momento in cui si sa benissimo che bisogna stare lontani da una certa cosa ma non si riesce a farlo e ci si abbandona ad essa incuranti delle conseguenze, e “Star Crossed”, ballata super-romantica dove si sfoga senza freni la voglia di lasciarsi completamente andare all’amore della vita.
L’abbandono di Charlotte, il calo di ispirazione e l’addio momentaneo al formato-album
Il periodo di Meltdown vede un’appendice con la pubblicazione, qualche mese dopo, di Grey Will Fade, un disco solista di Charlotte Hatherley. Le coordinate stilistiche sono quelle di un pop-rock leggero e misurato, con alcune buone intuizioni melodiche, soprattutto nella title track e nel singolo di buon successo “Bastardo”, e anche una discreta sensibilità vocale. Non c’è nulla di imprescindibile, ma si tratta di un lavoro piacevole. Nessuno si aspetta che questa uscita in solitaria sia in realtà prodromica all’abbandono della band da parte della chitarrista, invece, dopo un 2005 passato come gli anni precedenti in tour per il mondo, a inizio 2006 la separazione diventa ufficiale. Vi sarà una reunion molto breve nel 2011 in occasione del tour per il decennale di Free All Angels, per il resto la Hatherley pubblica nel corso del tempo altri due dischi solisti passati sotto silenzio e si unisce temporaneamente a diversi progetti per i live, come ad esempio le Client, KT Tunstall e Bat For Lashes. Dal 2012 è impegnata in un nuovo progetto solista con il moniker Sylver Tongue, la cui musica è definita dalla stessa artista “sci-fi dystopia”. Per ora c’è un Ep del 2012 con quattro brani dal suono corrispondente alla definizione di cui sopra, ma dal carattere comunque melodico, e che nel complesso sono di buona qualità. Ci si aspetta l’arrivo di un album nel corso del 2015.
Gli Ash tornano quindi alla line-up del primo periodo e, nel frattempo, Tim e Mark spostano la propria residenza a New York. Proprio nella Grande Mela viene registrato il quinto album, dopo l’ormai usuale lungo periodo in tour e la descritta separazione dalla Hatherley.
Twilight Of The Innocents arriva nella primavera del 2007 e ripresenta un suono pulito e leggero, lasciando nuovamente da parte la pesantezza e gli accenti cupi. Soprattutto, il disco segna l’inizio di un periodo nel quale l’ispirazione melodica, purtroppo, non riesce più a mantenersi sui propri migliori livelli, più che altro dal punto di vista della continuità lungo tutto un disco. Alcuni episodi all'altezza ci sono ancora, infatti, ma essi appaiono quasi come delle eccezioni all’interno di un quadro generale che mostra una band che sa ancora difendersi più che bene ma senza pungere come era stata in grado di fare.
Nello specifico, l’iniziale “I Started A Fire” ha tutto per essere annoverata tra le migliori canzoni degli Ash, tra qualità melodica, tiro complessivo ed equilibrio tra pulizia, emotività e espressività vocale. Poi però il resto dell’album non tocca mai i migliori livelli che la band ha saputo raggiungere nel corso della propria carriera. Come detto, non si tratta di brutte canzoni e l’ascolto dell’album è piacevole, sia quando si prosegue sull’onda del brano iniziale nelle successive “You Can’t Have It All” e “Blacklisted”, che quando si vira sulla ballad romantica con “Polaris” e “End Of The World”, che quando si prova a confezionare una midtempo con accelerazione finale con “Palace Of Excess” o mantiene costante il ritmo con “Shadows”, che quando si pone l’accento sull’attitudine epica come nella conclusive title track. Ci sono anche alcuni meriti indiscutibili in questo disco: innanzitutto si nota la voglia di provare a ampliare un po’ lo spettro sonoro e ritmico, nonostante ci sia un musicista in meno rispetto agli ultimi due dischi, e anche Tim Wheeler esplora nuove soluzioni dal punto di vista vocale; inoltre, c’è una maggior eterogeneità di suoni.
Sarebbe, quindi, ingeneroso criticare un disco del genere, però gli Ash che coinvolgono e emozionano sono un’altra cosa rispetto a questi. Infatti, le vendite premiano il gruppo meno rispetto al passato, anche perché in quegli anni la pratica di scaricare liberamente i dischi dalla Rete è molto più diffusa.
Proprio in considerazione di come si sta evolvendo il rapporto tra appassionati di musica e pubblicazioni discografiche, gli Ash annunciano l’abbandono del formato-album e la voglia di sfornare canzoni con nuove modalità. La considerazione del trio è che ormai la gente si interessa più ai singoli brani che non ai dischi nel loro complesso, gli Ash decidono quindi di puntare su questa strada. Nel corso del 2009 si scopre cosa significhi in concreto questa dichiarazione di intenti: i nordirlandesi pubblicheranno, a partire dall’ottobre di quell’anno, un singolo ogni due settimane per un anno solare intero. L’esperimento, chiamato A-Z Series, è quindi composto in totale da 26 singoli, più alcune B side, e viene anche accompagnato da altrettanti concerti nei quali gli Ash visitano ogni volta una città britannica in ordine alfabetico, da Aldershot a Zeldor. I singoli, invece, non hanno i titoli che iniziano ognuno con una lettera dell’alfabeto, ma vengono comunque marchiati in quest’ordine (ad esempio il singolo A è “True Love 1980”, il singolo B è “Joy Kicks Darkness” ecc.). Ai fan verrà data la possibilità di seguire il percorso delle pubblicazioni sia tramite download che ricevendo ogni volta un 7”. Le canzoni, in seguito, verranno poi raccolte in due cd, nei quali appaiono sia i singoli che alcune B side.
Non è facile giudicare un lavoro così particolare, per ampiezza e modalità di pubblicazione. Ampiezza significa non solo un alto numero di canzoni, ma anche una varietà sonora mai così accentuate. C’è davvero di tutto in questi brani: un tentativo di aggiornare lo stile Ash alla tendenza in voga al momento di creare canzoni ballabili con la modalità del cosiddetto punk-funk (“Return Of White Rabbit”), i sintetizzatori che assumono un ruolo molto importante (“True Love 1980”), un crescendo sonoro particolarmente marcato (“Traces”), una ruvidezza più aspra che mai a cui fa da contraltare un timbro vocale su tonalità mai così acute (“The Dead Disciples”), un ammiccamento nei confronti dei New Order (“Space Shot”); l’ardire di proporre una strumentale di oltre 10 minuti (“Sky Burial”).
Tutte queste novità si alternano a altre canzoni che invece riprendono quanto già fatto in passato, anche qui ad ampio raggio, quindi ci sono il rock melodico tirato, quello più controllato, l’attitudine punk, le ballate, il tutto realizzato o col classico triangolo chitarra-basso-batteria oppure con l’aiuto di altri strumenti.
In definitiva, l’opera non offre un'idea di unitarietà, ma si capisce che gli Ash hanno davvero rispettato l’intento di focalizzarsi sulla creazione di canzoni singole, sfruttando la maggior libertà creativa concessa da questo modo di lavorare. Purtroppo, i rilievi mossi per il precedente album valgono anche per molti di questi brani, con l’aggravante che, in alcuni casi, lo stile melodico e le scelte a livello di arrangiamenti non risultano compatibili tra loro e, quando ciò succede, l’ascolto è un po’ straniante. La maggior parte delle canzoni si mantiene sul livello di piacevoleza descritto per l’album precedente e, essendo in totale così tante, quelle che invece meritano attenzione e risultano pienamente riuscite sono più dell’unica di Twilight Of The Innocents: “Dionysian Urge” gode di uno sviluppo eccellente per come cattura l’attenzione con un arpeggio di chitarra irresistibile e poi rilancia con una melodia perfetta, sia nella strofa, sia nel ritornello; lo stesso dicasi per “Insects”, che parte con le sembianze di una ballata salvo poi accelerare a tutta nel ritornello, proporre la strofa successive in midtempo e ri-accelerare, anche qui con una melodia degna dei migliori Ash; “Summer Snow” si basa su un bel crescendo costante e efficace e su un cantato particolarmente valido e per una volta l’aiuto dei synth nel ritornello non appare fuori luogo; “Carnal Love” e “Change Your Name” sono classiche ballad, la prima con un suono elettrico ed essenziale, la seconda semi-acustica ma più strutturata, entrambe semplici ma in modo che tutto sia al posto giusto per trascinare inevitabilmente l’ascoltatore. Non si può non notare, infine, che più si va avanti con le canzoni e maggiore è la qualità delle stesse, non proprio in ordine ma quantomeno come andamento medio generale.
Gli Ash meritano rispetto per aver immaginato un esperimento del genere prima di chiunque altro e per il fatto che nessun’altra band su un livello così alto di popolarità abbia mai provato, nemmeno in seguito, niente del genere, oltre che per la qualità media più che soddisfacente. Certo, in quel momento era difficile sperare che sarebbero mai stati in grado di realizzare di nuovo una serie di canzoni belle dalla prima all’ultima, ma la loro carriera era ormai vicina ai vent’anni di durata ed era stata particolarmente intensa, quindi questo calo di ispirazione era pienamente giustificabile. Rimaneva la curiosità di capire se il futuro prevedesse il ritorno al formato-album o qualche altra nuova idea per pubblicare i propri brani.
Il ritorno al formato-album e agli elementi base del proprio stileLo sforzo creativo è comunque stato notevole, quindi non ci si può certo aspettare l’arrivo di nuovo materiale inedito a breve. La band, intanto, tiene il proprio nome in caldo con la pubblicazione di un nuovo best of del 2011 e di un mini-album di cover nel 2012, anno del ventennale dell’inizio. Le cover erano già tutte pronte e alcune erano anche già state usate come b side dei singoli dell’”A-Z Series”. Little Infinity, questo il nome della raccolta, è un lavoro interessante perché semplicemente le cover sono tutte fatte bene e lo stile dei diversi artisti o gruppi rivisitati, dai Beatles agli ABBA, dagli Strokes a David Bowie, viene perfettamente adattato a quelle che sono le coordinate ormai consolidate degli Ash, con le riletture che suonano tutte molto spontanee e naturali e mai forzate. Da segnalare in particolare la versione semiacustica di “What Ever Happened” degli Strokes.
Il passo successivo non è a opera degli Ash, ma del leader Tim Wheeler, che nel novembre del 2014 pubblica il suo primo disco solista Lost Domain.
Wheeler, che in precedenza fuori dagli Ash aveva lavorato solo per un disco di canzoni di Natale con Emmy The Great nel 2011, è stato spinto a questo debutto da un evento tragico, ovvero la perdita del padre per Alzheimer, e il disco riflette in pieno gli stati d’animo di un figlio adulto che vede il proprio genitore soccombere gradualmente e inesorabilmente alla malattia. Lo stile melodico è riconoscibilissimo e il cantato anche, ma quest’ultimo, ovviamente, è molto più emotivo e sentito del solito. L’impianto musicale invece, è profondamente diverso da quello degli Ash: dal punto di vista ritmico non si accelera mai, cosa del resto ampiamente prevedibile visto il contesto, mentre per quanto riguarda il suono, esso si basa moltissimo sul pianoforte e su elementi orchestrali, con le chitarre che appaiono saltuariamente e senza mai godere del ruolo principale.
Il disco è molto bello e toccante: le scelte sonore sono azzeccatissime, l’espressività vocale è fuori dal comune e soprattutto, le melodie sono tutte bellissime, dalla prima all’ultima. Era dal 2004 con Meltdown che Wheeler non trovava una simile continuità nel corso di tutto un disco e in questo caso le circostanze avverse lo hanno davvero stimolato a tirare fuori il meglio di sé. Da rimarcare anche lo sviluppo del disco, una vera e propria cronologia degli eventi, partendo dalla presa di coscienza dell’imminente declino di una persona così cara, al crescere dell’angoscia man mano che l’ineluttabile si avvicina, al momento solenne e devastante della morte, che però arriva già a metà disco e non alla fine come ci si potrebbe aspettare, poiché la seconda parte è dedicata alla voglia di lasciarsi alle spalle la perdita e andare avanti, senza dimenticarsi di chi non c’è più ma consci che la vita va avanti. Lost Domain è davvero un grande disco.
Il 2015 segna il ritorno degli Ash al formato-album. Kablammo! arriva a maggio e ci restituisce una band al proprio meglio, con canzoni che hanno tutto per entusiasmare i fan e gli appassionati al pari dei singoli più celebrati del passato. Il motivo è molto semplice: essenzialmente, i tre hanno capito che possono fare tutti i tentativi di ampliamento sonoro possibili e immaginabili, ma niente verrà loro bene come quando si limitano all’utilizzo di elementi puramente rock, a parte qualche tocco di archi e di piano nelle ballad.
Non c’è un singolo passaggio a vuoto in questo disco, cosa che, come abbiamo visto, non accadeva da “Meltdown”. Al massimo c’è qualche canzone che non colpisce al primo ascolto ma al secondo o al terzo, come ad esempio l’epica “Moondust”, ma il punto è che se la prima volta l’ascoltatore constaterà che gli Ash ci sono ancora, dopo un po’ aggiungerà che sono tornati in una forma che non ha nulla da invidiare al 1996 o al periodo 2001 - 2004. Come in quegli anni d’oro, l’utilizzo di un set di strumenti circoscritto non significa che ci sia una mancanza di fantasia e di varietà: in Kablammo! ritroviamo il pop-punk con la doppietta iniziale “Cocoon”-“Let’s Ride”, il romanticismo con “For Eternity”, la carica ruvida senza controllo con “Go! Fight! Win!”, il rock morbido con “Hedonism”, persino i momenti strumentali con “Evel Knievel”. Tutte canzoni validissime, come già detto, ma non possiamo nemmeno far finta che non ci siano due gioielli autentici che svettano su tutti gli altri brani: “Machinery” non ha in realtà niente di particolare dal punto di vista della struttura, ma gode di una melodia sia nella strofa che nel ritornello assolutamente straordinaria e irresistibile, con Wheeler che la canta con rara espressività vocale; “Free” esplora il lato epico dello stile degli Ash e lo fa con una carica emozionale di grande impatto, grazie a scelte particolarmente azzeccate dal punto di vista dell’arrangiamento e, ancora una volta, alla qualità melodica e del cantato.
Si potrebbe malignare su come Kablammo! dimostri che gli Ash non godono certo del dono dell’eclettismo, visto che hanno dovuto tornare ai concetti-base del proprio stile per dare nuovamente il meglio di sé, ma questi sono i discorsi di chi non ascolta la musica con passione e cuore. Chi lo fa, invece, non potrà che essere felice di un ritorno di questo valore.
Audacia e voglia di variare
Passano tre anni e arriva la pubblicazione di Islands. Dopo il ritorno agli elementi base del proprio stile con il disco precedente, c'era da chiedersi se Wheeler e soci avessero in qualche modo rinnegato la voglia di ampliamento stilistico mostrata tra il 2009 e il 2010, e questo nuovo album era l’occasione perfetta per una risposta a questa domanda. Ebbene, i tre fanno capire chiaramente di non aver rinnegato nulla, dando alle stampe il proprio lavoro più vario di sempre, che riprende tutto ciò che è tato fatto finora, senza tralasciare davvero niente, e propone anche qualcosa di nuovo.
Islands, che segna il ritorno del trio alla Infectious, rappresenta, per la maggior parte del suo contenuto, un perfetto riassunto di ciò che hanno fatto gli Ash in oltre vent’anni di attività. Ci sono il rock ruvido e diretto (il primo singolo “Buzzkill”), quello adatto al singalong da grandi concerti (l’iniziale “True Story”), il dolce romanticismo (“Don’t Need Your Love”), le sonorità prettamente elettriche ma più votate all’hi-fi (“Somersault”), quelle, invece, contaminate da tastiere e ritmiche danzerecce (“Confessions In The Pool”), e ci sono altri brani che riprendono le caratteristiche sopra citate con maggior pulizia e dinamismo negli arrangiamenti.
Troviamo, poi, tre canzoni che presentano cose mai fatte prima dalla band: “Did Your Love Burn Out?” è basata sulla continua alternanza tra un’anima morbida e sentimentale e un’altra, invece, basata su disapprovazione e voglia di rivalsa, senza che ci sia un ritornello ma con le due diverse strofe che si rincorrono per tutta la durata del brano; nelle due canzoni conclusive “Is It True?” e “Incoming Waves” troviamo, invece, un’interazione tra chitarre e tastiere del tutto inedita negli Ash, visto che, per la prima volta, nessuno dei due elementi prevale sull’altro ed entrambi, invece, concorrono alla costruzione del suono in egual misura.
Passando dalla descrizione al giudizio di merito, il disco è caratterizzato da una buona solidità per tutta la propria durata. Così come nel lavoro precedente, non c’è un solo passo falso, e tutte le canzoni risultano buone sia dal punto di vista della qualità che della fruibilità da parte dell’ascoltatore. Gli Ash non sono mai stati, né devono essere, un gruppo dietro al quale elucubrare complessi ragionamenti concettuali, ma hanno sempre voluto sfornare canzoni fresche e immediate, che invoglino l’ascoltatore al canto e all’ascolto ripetuto. Qui la missione è perfettamente compiuta e l’unico appunto che si può fare al trio è la mancanza di almeno un episodio che possa rivaleggiare con i momenti migliori del passato del gruppo: “Kablammo!” ne presentava almeno un paio, qui, invece, non ce la sentiamo di inserire alcun brano nell’Olimpo del repertorio della band.
In definitiva, in quello che è il disco più audace della propria carriera, gli Ash, pur senza far gridare al miracolo, sono riusciti a realizzare un prodotto che ha tutte le carte in regola per dare numerosi ascolti piacevoli ai fan e a tutti coloro che apprezzano l’unione tra energia e melodia all’insegna di qualità e ispirazione.
L'ultima foto è di Alex Lake
ASH | |
ALBUM | |
Trailer (Infectious, 1995) | |
1977(Infectious, 1996) | |
Nu-Clear Sounds(Infectious, 1998) | |
Free All Angels (Infectious, 2001) | |
Meltdown (Infectious, 2004) | |
Twilight Of The Innocents(Infectious, 2007) | |
Kablammo! (Ear Music, 2015) | |
Islands(Infectious, 2018) | |
COMPILATION | |
Intergalactic Sonic 7"s (Infectious, 2002) | |
A-Z- Series (Atomic Hearts, 2009-2010) | |
The Best Of Ash (Atomic Heart, 2011) | |
TIM WHEELER | |
Lost Domain (Red, 2014) | |
CHARLOTTE HATHERLEY | |
Grey Will Fade (Double Dragon, 2004) | |
The Deep Blue (Little Sister, 2007) | |
New Words (Little Sister, 2009) |
Sito ufficiale | |
Testi |