Foo Fighters

Foo Fighters

Le rockstar della porta accanto

Creature dell'ex Nirvana Dave Grohl, perfetta macchina commerciale, i Foo Fighters hanno coniato un punk-rock contagioso, per energia, gusto melodico e freschezza. Sempre in bilico fra pura goliardia e l'ambizione di poter raccogliere l'ingombrante eredità di Cobain...

di Alex Poltronieri e Claudio Lancia

Dopo la morte di Kurt Cobain, per il batterista dei Nirvana, Dave Grohl, tutto sembrava finito. All'epoca sembrava difficile azzardare che questo giovane e precisissimo drummer avrebbe da lì a poco intrapreso una nuova, e fortunata, carriera musicale e artistica.
I Foo Fighters (dal nome che venne dato, dall'aviazione americana, a dei bizzarri fenomeni di luce nel cielo durante la seconda guerra mondiale) sono in tutto e per tutto una creatura di Dave Grohl, una perfetta macchina commerciale, in cui emergono appieno, finalmente, la voglia di successo, le doti di leadership e, perché no, il talento del batterista dei Nirvana.

Nell'ottobre del 1994 Grohl inizia, completamente da solo, accompagnato dal produttore di fiducia, Barrett Jones, le registrazioni del suo primo album, che come titolo riporterà semplicemente quello del gruppo: Foo Fighters, appunto. Utilizzando un paragone azzardato, si potrebbe dire che se Cobain era il Lennon dei Nirvana, Grohl era il McCartney. Nelle sue canzoni, infatti, è impossibile individuare quell'urgenza, quella violenza e disperazione presenti nel songwriting del leader dei Nirvana.
Il primo album dei Foo Fighters si apre con il pop-punk, che più melodico non si può, di "This Is A Call", per poi continuare con un pezzo più tirato come "I'll Stick Around". "Big Me" è una canzoncina pop della durata di poco più di due minuti, che spalancherà a Grohl le porte del circuito mainstream (e una buona fetta di questo successo va pure al famoso e esilarante videoclip che accompagna questo singolo, in cui viene preso in giro un famoso spot delle caramelle "Mentos", qui trasformate in "Footos"). "Alone+Easy Target", forse il pezzo più riuscito dell'album, fa affiorare tutte le precedenti esperienze musicali di Grohl. Se "For All The Cows", dall'andamento jazzato, è il brano più "cobaniano" dell'album (vedi il ritornello), tracce più violente come "Good Grief", "Wattershed" e "Weenie Beenie" si rifanno alla scena hardcore-punk di Washington Dc. "Floaty" è una ballata che esplode però nel ritornello, tra fragori chitarristici e incedere delle batteria. "Oh George" è, come "Big Me", un brano pop sostanzialmente inutile, forse il più superfluo del disco, mentre "X Static", lenta e d'atmosfera, vede la partecipazione alla chitarra di Greg Dulli degli Afghan Whigs.

Il primo album dei Foo Fighters, ovvero di Dave Grohl, sorprende per energia, gusto melodico e freschezza. Registrato in poco più di una settimana, balza tra una traccia e l'altra da un genere musicale all'altro, mischiandoli insieme, e rivelando al mondo l'incredibile affabilità e cultura musicale di Grohl, finora rimasta oscurata dietro l'imponente figura di Cobain. Certo, il difetto principale è una certa mancanza d'identità, una disomogeneità dell'insieme, che impedisce all'album il vero salto di qualità. Ma l'intento di Grohl non è mai stato quello di rivoluzionare il rock.
Anche i timori di molta critica, di un'eccessiva, nonché inevitabile, influenza dei Nirvana nel sound dell'album vengono scongiurati. Certo, c'è chi ha voluto trovare nei testi delle canzoni (che per inciso sono abbastanza criptici e misteriosi) evidenti richiami alla fine dei Nirvana e alla morte di Cobain, ma Grohl mette le cose in chiaro sin dall'inizio, urlando a squarciagola: "I'll stick around and learn from all that came from it".

Ancora alla ricerca di una label che distribuisca il disco (poi pubblicato da Capitol Records insieme alla Roswell Records), Grohl mette in piedi un vero e proprio gruppo, che lo possa supportare nel corso dei concerti promozionali dell'album. La scelta dei componenti della band ricade su Nate Mendel e William Goldsmith, rispettivamente basso e batteria del gruppo emo Sunny Day Real Estate, e infine su Pat Smear, storico ex chitarrista dei Germs, che aveva in precedenza collaborato anche con i Nirvana nel loro "Unplugged".
Uscito nell'estate del 1995, il primo album dei Foo Fighters viene accolto abbastanza bene dalla critica, che però non risparmia eccessivi (e un po' fuori luogo) paragoni con i Nirvana. Il successo di pubblico arriva invece con il terzo singolo "Big Me", che complice il video già citato, trasforma Grohl & Soci in una sorta di antitesi del gruppo di Kurt Cobain.
I Foo Fighters, sempre disponibilissimi con i fan, sono gli idoli dei ragazzini, le "rockstar della porta accanto". Con i loro video spassosi, le melodie catchy e l'appeal di Grohl, si sono guadagnati sin dall'inizio uno zoccolo duro di ammiratori, anche tra i giovanissimi. Il lunghissimo tour promozionale li porta in giro per tutto il mondo, e nel '96 il gruppo realizza appositamente per la colonna sonora del serial tv "X Files" una bellissima cover di "Down In The Park" di Gary Numan.

All'inizio del '97 i Foo Fighters sono pronti a rimettersi al lavoro su un nuovo album (verrà chiamato The Color And The Shape), ma Goldsmith abbandona il gruppo per incomprensioni con Grohl. Sarà lo stesso Grohl a suonare la batteria in (quasi) tutte le canzoni dell'album.
La produzione questa volta spetta a Gil Norton (già collaboratore di Pixies, Counting Crows, Patti Smith); il risultato è senza dubbio il lavoro migliore del gruppo.
Dopo lo scherzetto melodico di "Doll", che fa presagire il peggio, ma in realtà dura poco più di un minuto, è "Monkey Wrench" a portarci nel vivo dell'azione, con una perfetta canzone punk-rock di stampo adolescenziale (tant'è che il testo parla di un ragazzo che vuole vendicarsi di tutti i torti subiti; è diventata di culto, nel corso dei concerti, la parte finale, in cui Grohl urla rabbioso "I was always caged and now i'm free"). "Hey Johnny Park" è un rock melodico, con aperture rabbiose sul ritornello (ormai uno stilema dei Foo Fighters), che nel testo rimanda esplicitamente alla figura del compianto Cobain.
Il dittico "My Boor Brains"-"Wind Up" è una vera scarica d'adrenalina. Sono i pezzi più violenti dell'album, in cui però affiora sempre un appiglio catchy e melodico, caratteristico di Grohl. "Up In Arms" è un brano più facile, che dopo una parte iniziale lenta e romantica si trasforma in un punk melodico dalle parti dei Buzzcocks. "My Hero" è uno dei pezzi più complessi dell'album (prendete come esempio l'incedere ritmico), nonché uno dei più struggenti. E' quasi impossibile ascoltando le parole di Grohl non pensare, ancora una volta, allo scomparso leader dei Nirvana.
E' tempo per tirare un po' il fiato, ecco arrivare allora un altro scherzetto semi-acustico, la spassosa e dolce "See You". "Enough Space" è smaccatamente grunge, mentre "February Stars", il brano meno convincente della raccolta, è un ballatone lento che esplode nel finale, ma suscita più sbadigli che pelle d'oca.
"Everlong", capolavoro dell'album, è un'altra perfetta (nella sua semplicità) canzone pop-rock in perfetto stile Dave Grohl. Strofa lenta e sussurrata, ritornello più violento e struggente, le liriche che parlano ancora una volta di un amore impossibile. Questo brano, scelto poi come singolo, si rivelerà uno dei più grandi successi del gruppo, grazie ancora una volta a un eccezionale videoclip, questa volta firmato dal visionario Michel Gondry.
"Walking After You" è una tenera canzone d'amore dal suono quasi lo-fi, davvero commovente e sincera, insieme a "Everlong" l'apice dell'album. Chiusura in bellezza con "New Way Home", che parte con una melodia beatlesiana per concludersi con un finale in crescendo, in stile Police, che diventa sempre più violento e veloce.

L'album esce nel maggio del '97 e ottiene un ottimo successo, sia dal punto di vista delle vendite che della critica.
Nel frattempo, per un nuovo componente della band (Taylor Hawkins, già batterista per Alanis Morissette) uno vecchio abbandona il gruppo: è Pat Smear a lasciare i Foo Fighters, per motivi non ben precisati (in realtà c'è di mezzo una relazione con Jennifer Youngblood, fidanzata di Grohl): prende il suo posto Franz Stahl, ex Scream, gruppo in cui militava anche un giovanissimo Dave Grohl.
Inizia il tour promozionale per The Color And The Shape, e contemporaneamente un breve periodo di corteggiamento da parte di Hollywood nei riguardi del gruppo. Nel corso del '97, i Foos realizzano infatti vari brani appositamente per alcuni tra i più grandi blockbuster dell'anno: la ninna nanna "Dear Lover" per la colonna sonora di "Scream 2", una nuova (e superiore) versione di "Walking After You" per il film di "X Files" e l'ambiziosa "A320" per "Godzilla".

La permanenza di Stahl nella band è davvero breve. Il chitarrista viene presto estromesso dal gruppo per "problemi di compatibilità"; in compenso l'amicizia tra Dave e Taylor Hawkins diventa sempre più forte.
Il successivo album dei Foo Fighters, There Is Nothing Left To Lose, vede quindi Grohl occuparsi personalmente di tutte le chitarre. Registrato con il produttore Adam Kasper, il terzo lavoro del gruppo risulterà il più complesso sinora, e quello che richiederà la lavorazione più lunga, ma in definitiva non è del tutto riuscito.
La prima parte è assolutamente la più convincente, e si apre con "Stacked Actor", una delle cose più rabbiose registrate dalla band, e che scatenerà le ire di Courtney Love, vedova di Cobain, che si rispecchierà nel testo della canzone, dedicato alla falsità delle rockstar tutte look e niente contenuti.
"Breakout" è un altro perfetto singolo di punk-pop, che entra in testa dopo un solo ascolto. Scelto come secondo singolo, questo pezzo sarà poi inserito anche nella colonna sonora del film dei fratelli Farelly, con Jim Carrey, "Io, me & Irene". Ancora una volta il videoclip che accompagna la canzone si rivela esilarante, con Grohl in versione nerd-liceale, che per far colpo su una ragazza tenta di imitare le smorfie di Carrey.
"Learn To Fly", la canzone che porterà l'album in cima alle classifiche di mezzo mondo, è probabilmente uno dei pezzi migliori dell'album, con quel ritornello memorabile e il finale in cui Taylor Hawkins presenta al pubblico un bel biglietto da vista, prodigandosi in tecnicissimi passaggi di batteria (che in quest'album assume uno spessore addirittura superiore rispetto ai lavori precedenti, come per esempio in "Next Year", dove lo strumento di Hawkins ha un volume incredibilmente più alto rispetto a quello dei compagni).
"Gimme Stitches" ha un riff alla Stones e promette bene, ma non decolla mai, e risulta essere alla fine abbastanza monotona. "Generator" è in pieno Foo Fighters Style: un rock melodico ed energico dal ritornello scacciapensieri. "Aurora", brano più ambizioso dell'album (il preferito da Grohl), è una sofferta ballata che si conclude con un crescendo ad effetto davvero emozionante. Con "Live In Skin", rock banale, poco melodico, che si dimentica in fretta, inizia la seconda, e deludente, parte dell'album. "Next Year" è una ballata sfacciatamente pop à-la di McCartney, che ricicla la stessa idea per quasi cinque minuti; "Headwires" è il solito pezzo tipico del gruppo, in cui a una strofa lenta segue un ritornello "urlato" e più veloce. "Ain't In The Life" è un'altra ballata, che sembra fare il verso alla stupenda "Walking After You", ma che, a parte il bel testo, risulta soporifera. L'album si conclude con "M.I.A.", altra canzone che punta il dito contro le falsità del mondo musicale, che tuttavia annega in una melodia poco memorabile e in un arrangiamento eccessivamente scarno.

Insomma, questo terzo album rappresenta per i Foo Fighters un passo avanti e uno indietro. Se finalmente la band appare compatta e unita (per la prima volta l'album è firmato da tutta la band e non dal solo Grohl), con un vero, e ottimo, batterista, i vertici di The Color And The Shape sembrano lontani. La produzione è ridotta all'osso, con chitarra, basso e batteria in primo piano, e il guizzo creativo (probabilmente derivato dalla presenza di Pat Smear nel gruppo) dell'album precedente si è tramutato nel lavoro decisamente più commerciale (leggasi banale) sfornato dal gruppo di Grohl.

Il quarto album dei Foo Fighters, One By One, subisce diversi ritardi, dovuti in primo luogo al ricovero forzato di Hawkins, in seguito a una overdose da alcol e antidolorifici, e successivamente a una completa ri-registrazione dell'album (la prima versione venne giudicata troppo "artificiosa" e debole), con Nick Raskulinecz come produttore. Grohl, non vuole assolutamente cambiare batterista ed è disposto ad aspettare tutto il tempo necessario affinché Hawkins si riprenda. Nel frattempo tornerà dietro la batteria per l'album "Songs For The Deaf" dei Queens Of The Stone Age, uno dei lavori più acclamati del 2002.
I Foo Fighters, con l'aggiunta di un nuovo chitarrista, Chris Schiflett, dei No Use For A Name, sono così pronti a ritornare in studio, e sfornano il singolo "The One", incluso nella colonna sonora del film "Orange County", primo assaggio di quella che sarà una vera e propria nuova fase nella carriera della band.

Il "gruppo della porta accanto", i simpatici e goliardici protagonisti di video come "Learn To Fly" e "Monkey Wrench", hanno lasciato spazio a un team di musicisti più maturo ed aggressivo, che con One By One vuole dimostrare a tutti, pubblico e critici, di non essere solamente la copia sbiadita dei Nirvana.
L'album però è riuscito a metà, e se da un lato è impressionante il livello tecnico dei quattro musicisti, dall'altro è impossibile non rilevare un'evidente mancanza di idee e originalità. La permanenza di Grohl nei Queens Of The Stone Age si sente in canzoni come "Low", che però sembrano una versione più soft di quelle del gruppo di Homme e Oliveri. Meglio allora i pezzi in pieno stile Foo Fighters, come "Times Like These" o "Lonely As You", e meglio ancora il singolo portante "All My Life", teso e violento, quanto inaspettato da parte di Grohl e compagni.
"Have It All", altro pezzo nelle corde del gruppo, si segnala per un finale quasi metal, mentre "Disenchanted Lullaby" ha un ritornello alla Kiss che non delude. In "Tired Of You", notevole e malinconico ballatone acustico, compare Brian May alla chitarra. "Halo", "Overdrive" e il rock classico di "Burn Away" non aggiungono nulla di nuovo, mente la conclusiva e lunga "Come Back" ha un ritornello epico e una parte centrale acustica che stupiscono per coraggio e potenza (stiamo sempre parlando del gruppo di "Big Me"...).
La produzione di Raskulinecz conferisce al sound del gruppo un appiglio decisamente più sporco e convincente rispetto a There Is Nothing Left To Lose, ma, in un certo modo, soffoca sotto un tappeto sonoro quasi assordante, le migliori idee del gruppo.
Insomma, i Foo Fighters sono alla ricerca di quella maturità che per anni la critica non ha riconosciuto loro. E così anche i video divertenti e puliti, caratteristici del gruppo, vengono abbandonati.
One By One è l'ennesimo successo dal punto di vista delle vendite, ma, come il precedente album, è accolto da critiche contrastanti.

Un altro tour in giro per il mondo si rivela per il gruppo un'occasione perfetta per maturare ulteriormente, migliorarsi, imparare dai propri errori.
Con l'ingresso in pianta stabile di Shiflett, i Foo Fighters sono finalmente (al quarto album!) una band completa, e intenzionata a scrivere l'album più importante della loro carriera.
In Your Honor è un doppio album, composto da una prima parte rock, e una seconda completamente acustica; d'altronde i Foo Fighters da sempre hanno dimostrato una notevole abilità nel confezionare brani acustici, talvolta ri-registrando versioni solo chitarra e voce dei loro pezzi più famosi, quasi migliori degli originali. Sempre prodotto da Nick Raskulinecz, il disco esce nel giugno del 2005.
Il progetto risulta troppo ambizioso per il gruppo, e se compaiono diversi brani memorabili, altrettanti sono facilmente dimenticabili.
La prima parte della tracklist, quella rock, è meno interessante e presenta classici pezzi punk-rock come "No Way Back", quasi una nuova "Monkey Wrench", con un ritornello-killer, e altri più originali, come la ballata dagli echi psichedelici di "Best Of You".
"D.O.A." è un altro singolo perfetto che riporta alla mente gli Offspring, così come "Resolve", in cui la struttura pieno-vuoto tipica dei Foos si presta all'ennesima canzone d'amore pronta a scalare le classifiche. "In Your Honor" e "End Over End", con i loro ritornelli da stadio, non nascondono la profonda influenza dei Queen, mentre le più pestate "The Last Song" e "Free Me" riecheggiano di nuovo i Queens Of The Stone Age (con maggior convinzione rispetto a One By One).
La seconda parte dell'album è quella con più sorprese ed è piena di collaborazioni; in primis, quella con John Paul Jones dei Led Zeppelin, che suona il piano in "Miracle", la migliore canzone dell'album (e forse dell'intera storia del gruppo), e suona il mandolino in "Another Round". La psichedelia (un po' alla Led Zeppelin, un po' alla Beatles post-"Rubber Soul") dilaga in "On The Mend" e "Friend Of A Friend", mentre "Over And Out" e "What If I Do?" sono tipiche ballate d'amore alla Grohl, semplici quanto accattivanti.
La jazzata e dolce "Virginia Moon" è cantata da Grohl insiene a Norah Jones, mentre il folk psichedelico di "Razor" vede alla chitarra l'amico Josh Homme. "Cold Day In The Sun", con il suo speranzoso motivetto pop degno dei Beatles, è uno dei brani più riusciti del disco, ed è cantato da Taylor Hawkins (che rivela notevoli capacità anche in veste di vocalist), sostituito alla batteria da Grohl.

Questa volta, con grande gioia di Grohl, che considera l'album il migliore sinora realizzato dal gruppo, la critica internazionale è quasi unanime nel riconoscere ai Foo Fighters la tanto agognata maturità artistica.

Difficile dire che cosa riserverà il futuro a una band come i Foo Fighters. Semplici e onesti, questi quattro ragazzi, come già detto in precedenza, non mirano a cambiare la storia della musica, ma aspirano a un riconoscimento maggiore da parte della critica.
Inutile paragonare Grohl e Cobain, due personaggi agli antipodi. E' inutile, forse, per il gruppo, prodigarsi in progetti per loro troppo ambiziosi, come l'ultimo album. Forse dovrebbe essere Grohl per primo a smettere di paragonarsi al compianto compagno dei Nirvana (circola in rete un famoso video in cui Grohl, completamente sbronzo, esclama "Io ero nei Nirvana, la band più importante del mondo!", quasi volesse dimostrare a tutti il suo valore).
Bene, se in questi anni Mr. Grohl ha dimostrato qualcosa, è di essere un simpatico e abile songwriter, privo del genio maledetto di Cobain, ma abbastanza furbo da rimanere in giro ancora per un bel pezzo, facendo quello che sa fare meglio. Divertirci.

Il successivo Echoes, Silence, Patience & Grace (2007) è invece un innocuo disco di rock Fm che punta facile alla cima delle chart. Non che manchino brani accattivanti e divertenti (a partire dal singolo "The Pretender", dalla classica struttura piano-forte), o melodie memorabili ("Cheer Up Boys (Your Make Up Is Running)", o la swingante "Summer's End"), ma l'insieme manca di coesione, e le idee più interessanti sono abbandonate in fretta (come nell'acustica "Ballad Of The Beaconsfield Miners", che vede la collaborazione di Kaki King).
Gli episodi meno riusciti sono riservati alla parte finale dell'album. In "Statues" e "Home", Grohl si improvvisa crooner, suonando il pianoforte e introducendo all'interno dei brani pomposi arrangiamenti orchestrali, ma l'effetto è iperprodotto e impacciato, lontano dall'intimismo della bellissima "Walking After You".

Dopo la felice e fortunata parentesi con i Them Crooked Vultures (un album pubblicato a fine 2009), Grohl rientra in studio per delineare il nuovo lavoro dei Foo Fighters. Desidera tornare all'antico, quindi decide di incidere nel proprio garage, fa rientrare nella line up Pat Smears, richiama in cabina di regia Butch Vig (il produttore di "Nevermind") ed ospita il bassista dei Nirvana Krist Novoselic nel brano "I Should Have Known".

Ad aprile 2011 viene pubblicato Wasting Light. Un disco di devastante potenza fin dall'inizio: "Bridge Burning" è Queens Of The Stone Age allo stato puro. Adrenalina che entra dritta nel sangue e nelle ossa. La successiva "Rope" (scelta come primo singolo) è una sorta di math-rock semplificato, senza alcuna soluzione cervellotica, ma con una serie di controtempi spaventosi e l'innato gusto per la melodia sprigionato da un ritornello dannatamente killer. "Dear Rosemary" è l'atteso duetto con Bob Mould degli Husker Du, rotondo e rasentante la perfezione. Poi arriva la mazzata di "White Limo": una delle cose più aggressive ascoltate negli ultimi mesi. "Alandria", "Back And Forth", "A Matter Of Time" e "Miss The Misery" sono  anthem catartici perfettamente studiati per le grandi platee. E quando i giochi sembrano terminati, proprio alla fine, ecco i fuochi d'artificio che prendono le sembianze del power rock di "Walk". Un suono che spacca e che ti torna a far sentire come un ragazzo al centro del mondo.
Grohl & Co. con "Wasting Light" mettono in riga stuoli di indie-rocker che hanno farcito gli ultimi due decenni di musica. E lo fanno evitando di prendersi troppo sul serio, con l'autoironia che da sempre li contraddistingue. Senza sentirsi costretti ad interpretare il ruolo dei disadattati problematici. Basti dare un'occhiata ai videoclip che stanno circolando, fra i quali spicca quello di "White Limo", con Lemmy (sì, proprio lui) nelle vesti di simpatico chauffeur pronto a scarrozzare in limousine la band per le vie di Los Angeles.
Wasting Light è un disco di una potenza entusiasmante, che riporta i Foo Fighters ai fasti degli esordi.

A testimonianza del momento d'oro attraversato dalla band ("Wasting Light" debutta al numero 1 della classifica Billboard, mai successo a Grohl & soci in quindici anni di carriera, e quasi tutte le tappe del tour mondiale registrano presenze record) ad aprile 2011 esce il film-documentario Back & Forth, che documenta la travagliata storia della band, dalla morte di Cobain, ai cambiamenti di formazione, alla registrazione di Wasting Light che sancisce una sorta di ritrovato equilibrio per tutti i componenti del gruppo. Cento minuti appasionanti ricchi di filmati di repertorio inediti e interviste, per la regia del premio Oscar James Moll ("Gli ultimi giorni"). Ad aprile dello stesso anno, in occasione del Record Store Day, viene pubblicata anche la raccolta Medium Rare che include quasi tutte le cover registrate dai Foo Fighters dal 1995. Zombies, Gary Numan, Prince, Pink Floyd, Ramones e Cream sono alcuni degli artisti omaggiati in questa bella compilation, che è anche un esempio dell'eclettismo e la varietà di influenze musicali della musica dei Foos.

Il 10 novembre 2014 viene pubblicato in contemporanea mondiale l'ottavo album dei Foo Fioghters: Sonic Highways. Il disco è associato ad una mini serie televisiva di otto puntate (dirette dallo stesso Grohl) che narrano la genesi di ogni singola composizione. Quello che troviamo dentro Sonic Highways non è però esattamente il meglio del repertorio dei Foo Fighters. Intendiamoci, tutto è scritto e suonato alla perfezione, ma tutto appare eccessivamente studiato, senza alcuno spunto davvero memorabile. Un diluvio di mainstream rock, gradevole e spedito, ma quasi mai lanciato davvero a briglie sciolte, che quasi mai assume le sembianze del frutto di una verace garage band quale i Foo Fighters vorrebbero dimostrare di essere. Dall’innocuo (o comunque tutto già sentito) crescendo di “Something For Nothing” (Chicago) agli archi che chiudono la super ballatona “I Am A River” (New York), non c’è granché per cui vibrare, giusto qua e là i languori di “Subterranean” (Seattle) dove emerge la solita spolveratina di ricordi, e le schitarrate da viaggio di “Outside” (Los Angeles), con ospite la sei corde di Joe Walsh. Pressoché inoffensivi tanto i power-pop “In The Clear” (New Orleans) e “Congregation” (Nashville), quanto il rockettone “The Feast And The Famine” (Washington); persino la cavalcata elettrica in due parti “What Did I Do? / God As My Witness” (Austin) paga dazio più al dozzinale FM 70’s rock dei Boston che non alla scena hardcore newyorchese alla quale Grohl sognerebbe di rifarsi.
Otto canzoni, per otto città, per otto documentari, per otto ospiti, per l’ottavo album dei Foo Fighters, sviluppato percorrendo in lungo e in largo le autostrade soniche degli Stati Uniti, con in copertina una metropoli immaginaria ricostruita con alcuni simboli dell’architettura americana, dallo Space Needle alla Statua della Libertà. Sonic Highways è un progetto con una forte idea caratterizzante di fondo e per questo sarà ricordato nel tempo, ma stavolta c’è molto più da discorrere del contorno che non della musica. Se vi piace il rock di matrice classica, magari ben fatto, un tantino patinato, sufficientemente rassicurante e con canzoni canticchiabili, fra questi solchi sarete senz’altro a vostro agio. Se invece dal rock continuate a pretendere spunti sbalorditivi e trame oblique, beh, state alla larga. Visto l’immane sforzo produttivo, l’imponente battage pubblicitario e le personalità coinvolte, questa volta era lecito aspettarsi davvero qualcosa di più.

Per riabilitare quel lavoro, e per rimpinzarne il minutaggio un po’ risicato, a novembre 2015 esce l'Ep autoprodotto Saint Cecilia, cinque buone tracce che aggiungono qualità alla produzione recente del gruppo, tanto per consolidarne la fama di rocker patinati riempi stadi. C’è un brano in particolare che conferisce valore a queste nuove composizioni, una botta fra capo e collo che farà leccare i baffi a tutti i nostalgici hardcore, “Saviour Breath”, una sorta di “White Limo II”. C’è una ritrovata urgenza in queste canzoni, autoprodotte, registrate di getto durante una session particolarmente fruttuosa a Austin, e distribuite gratuitamente nei giorni successivi agli attentati parigini, quasi a voler portare conforto al mondo con la propria musica.
Un’urgenza che si riscontra nei riffoni tritatutto di “Sean” e “The Neverending Sigh”, nel classic rock alla Tom Petty di “Saint Cecilia” (non soltanto un omaggio alla protettrice dei musicisti, ma anche il ricordo dell’hotel dove la band ha alloggiato ad Austin), e persino nella raffinatissima ballatona elettroacustica “Iron Rooster”. Pare sempre che i Foo Fighters si stiano divertendo un mondo e, al di là delle trovate perfette per far parlar di sé, si sono da tempo guadagnati sul campo il diritto ad accedere nel gran libro delle migliori band della nostra epoca, riuscendo senza grossi sforzi a mantenere i gradi, e al contempo a contagiare le nuove generazioni, continuando ad ampliare una platea sempre attenta e fedele.

Lo step successivo è Concrete And Gold, pubblicato il 15 Settembre 2017, album che vede la partecipazione di Paul McCartney in “Sunday Rain”, brano che per quattro minuti scarsi sancisce anche il passaggio del microfono da Dave Grohl al drummer Taylor Hawkins. La presenza di Sir McCartney potrebbe aver influenzato la stesura di “Happy Ever After (Zero Hour)”, o forse il baronetto avrà dato il nulla osta per il giochino di richiami beatlesiani nel quale si rincorrono mezze citazioni di “Blackbird”, “She Came In Through The Bathroom Window”, “Across The Universe” e “Octopus’s Garden” (ma magari voi ne sentirete altre…). McCartney ospite è una gran notizia, potere delle multinazionali del disco, ma dentro Concrete And Gold c'è la possibilità di incrociare anche Alison Mosshart dei Kills, Shawn Stockman dei Boyz II Men, il sax di Dave Koz e persino Justin Timberlake (!!!), se solo riuscite ad accorgervene senza leggere il booklet. Sì, perché la loro presenza passa assolutamente inosservata, senza che nessuno degli intervenuti venga messo nelle condizioni di portare un po’ di farina del proprio sacco: ascoltare per credere gli impercettibili interventi della Mosshart in “The Sky Is A Neighborhood” e “La Dee Da”. Fra le rotondità alt-pop di “Dirty Water” si nota invece un filino di più Inara George, colei che gestisce i Bird And The Bee in comproprietà con Greg Kurstin, fresco di Grammy Award 2017 come Best Producer. A lui Grohl ha affidato la produzione dell’intero album, scritto in solitudine all’indomani dell’incidente sul palco che due anni fa lo costrinse a terminare il tour seduto su un trono. A quell’evento doveva seguire un periodo di volontario stop, ma quando ha sottoposto i brani di “Concrete And Gold”  al resto della truppa, la voglia di tornare subito in pista è stata troppo forte, anzi, ha persino deciso di allargare la line-up a sei membri, includendo in maniera ufficiale il tastierista Rami Jaffee, di fatto con loro già dal 2005.
Concrete And Gold, pur ponendosi come lavoro gradevole e molto potente nei suoni, si conferma il solito progetto iper convenzionale dei Foo Fighters: una sequenza di canzoni prevedibili (vedi “Arrows”) nelle quali il simpatico Dave preferisce continuare a salutare il mondo dal proprio confortevole orticello piuttosto che provare a sparigliare le carte. Ci sono però spunti interessanti, come l’iniziale “T-Shirt” che in un minuto e mezzo centrifuga soul in falsetto e FM rock, oppure come l’impatto devastante della successiva “Run”, capace di mutare continuamente scenario, passando dagli arpeggi acustici al growling, attraverso una ritmica degna dei vecchi Queens Of The Stone Age. Rispetto al dozzinale “Sonic Highways” (i documentari erano interessanti però…) le cose vanno molto meglio e stavolta Grohl si è per fortuna ricordato di scrivere le canzoni. Ma l’urgenza, l’energia e la sorpresa che riuscì a destare con il lavoro d’esordio, all’indomani della disintegrazione dei Nirvana, non è stata più replicata. I chitarroni non mancano di certo (“Make It Right”), così come il giusto livello di epicità (“The Line”, un grande pezzo, non c’è che dire) e la voglia di far qualcosa che si discosti dal resto delle portate, come la vaga aria pinkfloydiana (versante Gilmour) conferita alla title track, dall’atmosfera insolitamente psichedelica.
Queste nuove undici composizioni saranno più che sufficienti per lanciare di nuovo i Foo Fighters in cima alle chart internazionali di mezzo mondo e per giustificare un nuovo tour che andrà rapidamente sold out ovunque: Concrete And Gold è il nuovo trattato di marketing musicale scritto dalla più grande mainstream stadium rock band del globo. A voi la scelta di amarlo o detestarlo.

Concepito prima della pandemia, e rimasto in stand by il più possibile per ovvi motivi promozionali, il 5 febbraio 2021 esce Medicine At Midnight, uno dei dischi più solari e positivi mai concepiti dai Foo Fighters. Grohl gestisce una macchina perfetta, che non può evitare di puntare al primo posto nelle chart di mezzo mondo, ma al contempo sente il peso di dover costantemente convincere tutti di non essersi svenduto alle multinazionali. Ne deriva il perenne equilibrismo che a volte funziona, e altre un po' meno. In Medicine At Midnight la strada percorsa replica la formula dell’attenta alternanza fra brani intelligentemente radiofonici (“Shame Shame”) e sincere mazzate post-hardcore (“No Son Of Mine” questa volta è la più appuntita), fra ballad melliflue (la plasticosa “Waiting On A War”, l’intrigante “Chasing Birds”, dal forte sapore seventies) e cavalcate dal tiro prepotentemente elettrico (la deriva simil funk “Cloudspotter”), con i cori al femminile (opera anche di Violet, la figlia di Grohl) nell’opening song “Making A Fire” che da subito ammorbidiscono l’atmosfera generale.
Tutto di un’immediatezza che fa impressione, per compiacere al primo colpo, seppur (come spesso accade in questi casi) correndo il rischio di stancare altrettanto rapidamente. Ma la capacità di manovrare il formato canzone è un merito che non è possibile disconoscere a questi signori, che con “Medicine At Midnight” (la title track) mettono a segno un colpo da maestri. E’ l’unica traccia davvero inattesa, un classic rock piacevolmente retro, che richiama sia i primi Talking Heads che il Bowie periodo “Let’s Dance” (Grohl l’aveva preannunciato, e non ci aveva preso per i fondelli…). Brani come questo, o come la conclusiva - e banalotta - “Love Dies Young” (ma anche come “Holding Poison”, della serie “quel rockettino che punge ma non fa male a nessuno”), conferiscono all’intero disco un taglio sbilanciato verso il “pop”, ma un pop come quello che possono suonare i Foo Fighters dentro uno stadio stracolmo di persone (magari fosse possibile!). Detto questo, l'album funziona, e raggiunge gli obiettivi per i quali è stato concepito. Anche se per ogni fan che griderà di nuovo al miracolo, ce ne sarà un altro che avrebbe apprezzato soluzioni più avventurose, anche azzardate. Del resto per i Foo Fighters questa è una zona troppo confortevole per poter decidere di uscirne.

Il 17 luglio 2021, in occasione del Record Store Day, i Foo Fighters pubblicano a nome Dee Gees Hail Satin', vinile in edizione limitata con sul Lato A quattro cover dei Bee Gees e una del fratello minore Andy Gibb. Sul Lato B prendono invece posto cinque tracce riprese da "Medicine At Midnight" registrate live presso gli studi 606, il quartier generale della band.
Dave Grohl realizza anche un fenomenale best seller librario, confezionando la vendutissima autobiografia intitolata "The Storyteller", nella quale si sofferma in particolare sulla parte iniziale e formativa della propria carriera, e sugli incredibili incontri che la sua professione gli ha consentito.

Nel 2022 un paio di dolorosi lutti si abbattono su Dave. Anzi tutto la drammatica e improvvisa scomparsa di Taylor Hawkins, non semplicemente il batterista dei Foo Fighters, ma anche l’amico più caro del frontman, compagno di mille avventure e stravizi. L’altra nota drammatica, questa più personale, riguarda la perdita della mamma, alla quale era particolarmente legato. Dall'elaborazione dei due lutti emergono le dieci canzoni che danno vita a But Here We Are, pubblicato all'inizio di giugno 2023, nel quale Dave torna a suonare lo strumento che lo ha reso un'icona.
But Here We Are è un disco costruito da chi sa bene come scrivere canzoni di successo, studiate per scalare le chart internazionali ed essere suonate nelle grandi arene. Dal vivace stadium rock testosteronico della doppietta iniziale (“Rescued” / “Under You”), passando per la più malinconica (ma sempre accompagnata da chitarre roventi) “Hearing Voices”, la prima parte dell’album si consuma tutta d’un fiato, nel più classico dei canovacci mainstream rock di matrice Foo Fighters. Nella seconda parte il disco tende ad ammorbidirsi, ma la ricerca della dinamicità produce anche un paio di riempitivi (“The Glass”, “Beyond Me”). In “Show Me How” compare la voce della figlia di Grohl, Violet, gli oltre dieci minuti della strutturata "The Teacher" sono dedicati alla memoria della mamma di Grohl, mentre a “Rest” è affidato il compito del sentito congedo, un classicone che parte acustico per poi deflagrare sul finale. Nel nuovo tour alla batteria si accomoderà Josh Freese e lo spettacolo potrà continuare…

Contributi di Claudio Lancia: "Wasting Light", "Sonic Highways", "Saint Cecilia Ep", "Concrete And Gold", "Medicine At Midnight", "Hail Satin'", "But Here We Are"