Dave Grohl. Alzi la mano chi avrebbe scommesso su una carriera tanto longeva e densa di soddisfazioni ai tempi di “Nevermind”. Consumata la tragedia di Kurt Cobain, il batterista silente imbracciò la chitarra e divenne un frontman, in un nuovo progetto, oltre che ambitissimo sessionman. E dopo aver dimostrato di esser più forte anche degli infortuni sul lavoro, è arrivato al capitolo numero dieci (senza contare Ep, live e raccolte) di una saga che non conosce pause. I Foo Fighters oggi sono una delle più remunerative arena rock band dei nostri tempi: ogni aspetto della loro organizzazione è minuziosamente programmato per raggiungere il massimo risultato possibile. Persino la line-up è concepita con chirurgica precisione: in grado di appagare tanto gli irriducibili del punk (per la presenza di un mostro sacro come Pat Smear) quanto le adolescenti a caccia di bellocci (e in questo caso anche tecnicamente molto bravi), come il biondissimo drummer Taylor Hawkins, uno che avrebbe potuto intraprendere la carriera di modello senza alcun tipo di problema.
“Medicine At Midnight” non è un “Covid-record”: essere stato scritto e completato prima della pandemia (e rimasto poi in stand-by il più possibile per ovvi motivi promozionali) lo ha aiutato a non saturarsi di malessere e depressione, finendo al contrario per suonare come uno dei lavori più solari e positivi nell’intera carriera dei Foos. Grohl gestisce una macchina perfetta, che non può evitare di puntare al primo posto nelle chart di mezzo mondo, ma al contempo sente il peso di dover costantemente convincere tutti di non essersi svenduta alle multinazionali. Ne deriva il perenne equilibrismo che a volte funziona (in tempi recenti è il caso di “Wasting Light”), mentre altre volte risulta meno convincente. In “Medicine At Midnight”, la strada percorsa replica la formula dell’attenta alternanza fra brani intelligentemente radiofonici (“Shame Shame”) e sincere mazzate post-hardcore (“No Son Of Mine” questa volta è la più appuntita), fra ballad melliflue (la plasticosa “Waiting On A War”, l’intrigante “Chasing Birds”, dal forte sapore seventies) e cavalcate dal tiro prepotentemente elettrico (la deriva simil-funk “Cloudspotter”), con i cori al femminile (opera anche di Violet, la figlia di Grohl) nell’opening song “Making A Fire” che da subito ammorbidiscono l’atmosfera generale.
Tutto di un’immediatezza che fa impressione, per compiacere al primo colpo, seppur (come spesso accade in questi casi) correndo il rischio di stancare altrettanto rapidamente. Ma la capacità di manovrare il formato canzone è un merito che non è possibile disconoscere a questi signori, che con “Medicine At Midnight” (la title track, non a caso posta a metà scaletta) mettono a segno un colpo da maestri. E’ l’unica traccia davvero inattesa, un classic rock piacevolmente retrò, che richiama sia i primi Talking Heads che il Bowie periodo “Let’s Dance” (Grohl l’aveva preannunciato, e non ci aveva preso per i fondelli…). Brani come questo o come la conclusiva - e banalotta - “Love Dies Young” (ma anche come “Holding Poison”, della serie “quel rockettino che punge ma non fa male a nessuno”), conferiscono all’intero disco un taglio sbilanciato verso il “pop”, ma un pop come quello che possono suonare i Foo Fighters dentro uno stadio stracolmo di persone (magari fosse possibile!).
Detto questo, l'album funziona e raggiunge gli obiettivi per i quali è stato concepito. Anche se per ogni fan che griderà di nuovo al miracolo, ce ne sarà un altro che avrebbe apprezzato soluzioni più avventurose, anche azzardate. Del resto per i Foo Fighters questa è una zona troppo confortevole per poter decidere di uscirne.
05/02/2021