Buzzcocks

Buzzcocks

L'amore al tempo del punk

Nata dal genio della coppia Shelley-Devoto, la band di Manchester ha di fatto inventato il punk-pop, con il suo mix esplosivo di chitarre iperveloci, bassi potenti, melodie accattivanti e testi sagaci, all’insegna di un romanticismo controcorrente e di un genuino sconcerto nei confronti del mondo moderno

di Claudio Fabretti

Pochi gruppi come i Buzzcocks hanno saputo interpretare appieno il loro genere abbattendone però al tempo stesso quasi tutti gli stereotipi. Anche per questo vanno annoverati tra i protagonisti più originali di un’intera stagione. Punk nell’animo, nell’approccio insolente, nella capacità di condensare rabbia e sentimento in schegge di canzoni liofilizzate da 2-3 minuti, i mancuniani erano però anche molto altro. A cominciare dal loro aspetto da studenti freak sbarbatelli, privi dell’attitudine vandalistica dei loro coetanei punk. “Siamo quattro bravi ragazzi, di quelli che potresti portare a casa e presentare ai genitori”, ironizzava Pete Shelley in una delle sue prime interviste. Del resto, lui e Howard Devoto, l’altro geniale co-fondatore del gruppo, sfuggivano al cliché del kid proletario annoiato in cerca di rissa o di nichilistica (auto)distruzione. Il primo, all’anagrafe Peter McNeish, era uno studente d’ingegneria appassionato di poeti romantici - non a caso, aveva scelto come nome d’arte quello del suo preferito: Percy Bysshe Shelley. Il secondo, invece, aveva ripudiato l’inglesissimo cognome Trafford per assumere quello più misterioso di Devoto, in linea con la sua passione per letteratura e filosofia, il cui studio alternava agli ascolti compulsivi di quel proto-punk di marca americana nato a cavallo tra la Detroit degli Stooges e la New York dei Velvet Underground e del Cbgb.

Ma a frantumare le convenzioni del punk era anche e soprattutto la loro musica. Era pop, per le melodie cristalline e i ritornelli-killer che i nostri riuscivano a sfornare con nonchalance, quasi come novelli Beatles o Kinks. Era post per l’attitudine art-rock (che Devoto avrebbe poi sviluppato più compiutamente nei Magazine) e per i testi arguti, che al posto del nichilismo dei Sex Pistols e degli assalti politici dei Clash, mettevano le frustrazioni adolescenziali, il sesso e, udite udite, l’amore, incluso quello bisessuale, apertamente decantato da Shelley. Ma era anche un primo embrione di indie: l’ Ep d’esordio “Spiral Scratch” (1977), pubblicato per la loro etichetta New Hormones, è infatti annoverato come il prototipo del DIY (do it yourself). Infine, c’è chi si è spinto ancora più in là, immaginando addirittura fantasiosi accostamenti con il jazz, come Paul Morley, corrispondente da Manchester di Nme, che rimase fulminato dai loro primi concerti: “Sembravano Ornette Coleman! Chitarra e basso erano guizzanti, la batteria era del tutto poliritmica, la voce una frusta. Se ti allontanavi di 5 centimetri pensavi: questo è il free-jazz”.

Meno blasonati di altri loro compari, i Buzzcocks sono però tra gli interpreti di quell’epoca che sono riusciti a lasciare un’impronta più profonda e duratura. Basti pensare anche solo a un album di Graham Coxon come “Love Travels All Illegal Speeds”, che rimanda palesemente alla loro musica, o a una celebre trasmissione radiofonica condotta da Henry Rollins sulle frequenze di Indie 103.1 di Los Angeles intitolata “Harmony In My Head” (titolo della sua canzone preferita di Shelley & C.). Il loro punk-pop resisterà all’usura del tempo: dall’era dei Ramones (forse i loro unici veri maestri putativi) a quella dei Nirvana (che li adotteranno come padrini, portandoli sul palco del loro ultimo tour, nel 1994) fino a quella dei Green Day, che ne semplificheranno la lezione traghettandola nel Duemila, e del revival punk-garage degli Strokes che impazzerà negli anni Zero. Del resto, era stato lo stesso Shelley a rivelarlo ambiziosamente a Nme: “Prima di fare una canzone, devo assicurarmi che possa superare la prova del tempo”. Paradossale, al tempo della più grande truffa del rock’n’roll e della rapida autodistruzione di Sex Pistols e compagni.

Never mind the Buzzcocks

Buzzcocks - Pete Shelley - Howard DevotoLa scintilla scocca nel 1975, quando i due studenti Pete Shelley e Howard Devoto si incontrano alla Società di musica elettronica del Bolton Institute of Technology, con il pretesto di una colonna sonora per un video artistico. Shelley, cresciuto a pane e kraut-rock, nonché provetto inventore (ha già costruito il suo primo oscillatore), con quelle partiture sperimentali va a nozze. Tra loro è sintonia al primo colpo: decidono di formare una band e le affibbiano l’impertinente nome di Buzzcocks, che in realtà altro non è che la crasi del tormentone in slang di una serie televisiva dell’epoca, “Rock Follies”: “That's the buzz, cocks”/ “Questa è la voce che gira, ragazzi” (ma buzz è anche il ronzio delle chitarre e cocks… beh, lo sappiamo). Nell’anno domini 1976, c’è soprattutto una voce che gira – anzi, dilaga - in Inghilterra: quella dei Sex Pistols. Pete e Howard, colpiti da una recensione di Nme, corrono a Londra a sentirli suonare. Pochi mesi dopo, insieme a Slaughter and the Dogs, apriranno per loro un epico concerto alla Lesser Free Trade Hall di Manchester, che sarà da molti considerato l’evento determinante per la scena locale. Tra gli spettatori, infatti, il produttore Martin Hannett, il conduttore televisivo Tony Wilson (futuro boss della Factory), un giovane Morrissey e tre quarti dei Joy Division: Ian Curtis, Peter Hook e Bernard Sumner.

Pete Shelley con la locandina del concerto alla Lesser Free Trade Hall di Manchester


Quel concerto è il battesimo del fuoco: i Buzzcocks sono pronti a fare sfracelli, guidati dal genio istrionico di Devoto e dal fascino decadente di Shelley. Con Steve Diggle al basso e John Maher alla batteria che si uniscono al duo, i nostri si mettono in moto e il 20 gennaio del 1977, grazie a qualche decina di sterline prestate dal padre di Pete, riescono a pubblicare il loro Ep d’esordio sulla loro etichetta discografica New Hormones.

BuzzcocksDura solo dieci minuti, Spiral Scratch (ristampato nel 2000 dalla Mute), ma segna l’inizio di un’epoca. Già dal primo brano, “Breakdown”, si avverte l’ovvia influenza dei Sex Pistols, filtrata però dall’atipico crooning teatrale di Devoto e da un approccio introspettivo, fin dal testo psicotico, che racconta di un crollo nervoso e dell’impossibilità di riuscire a contenersi (“If I seem a little jittery I can't restrain myself/ I'm falling into fancy fragments/ Can't contain myself/ I gotta breakdown”). Più scanzonata, “Time’s Up” ironizza sull’attesa (di una ragazza, ma anche del tempo necessario per cambiare la cose), mentre la tiratissima “Friends Of Mine” è un’ode all’esuberanza giovanile.
Ma il vero inno generazionale si chiama “Boredom”, con la straordinaria potenza del ritmo, l’assolo a due note monocorde e ostinato di Shelley e una linea melodica irresistibile, per quello che Simon Reynolds definì “un esercizio metapunk”, poiché “il tedio che esprimeva era autentico (“I’m living in this movie/ But it doesn’t move me”… “Vivo in questo film, ma non mi prende”) ma d’altra parte la noia era un argomento obbligato per le canzoni punk: un tema tanto prevedibile da diventare a sua volta noioso”.

E proprio la noia spingerà Devoto a mollare, a sorpresa, subito dopo l’uscita dell’Ep. Fedele, infatti, al camaleontico verbo bowiano “se una cosa funziona, buttala via”, l’ineffabile Howard abbandonerà i compagni, professandosi già “stanco del rumore e a corto di fiato”, ma soprattutto stufo della “natura inflessibile” del punk, con tutto il suo corollario di dogmi e approssimazioni. Devoto, del resto, guardava da sempre alla tradizione art-glam-rock della sacra triade Iggy Pop-David Bowie-Roxy Music, ma anche al kraut-rock più melodico e al lato più "glaciale" del funk e del soul. In più, da buon (ex) studente di filosofia, amava scrivere testi un po' più cervellotici della media del periodo. Troverà pieno appagamento per la sua vocazione avanguardistica alla guida dei Magazine, scrivendo un’altra memorabile pagina di rock britannico. Ma non mancheranno, negli anni, sporadiche rimpatriate col vecchio sodale Pete.
I demo registrati quando Devoto era nella band saranno successivamente editi su “Time's Up”, disco a lungo disponibile solo come bootleg, contenente le alternative take dei pezzi di Spiral Scratch più le prime versioni di canzoni poi incluse nell’album d’esordio e un’allucinata cover di “I Can’t Control Myself” dei Troggs.

Sneaking in the back door with dirty magazines
Now your mother wants to know 'bout all those stains on your jeans
(da "Orgasm Addict", 1977)

Malati di orgasmo

Pete Shelley con le foto dei compagni dei BuzzcocksIl colpo è quasi da ko. Ma Shelley si dimostra un ottimo incassatore. Toccherà a lui, infatti, il compito di portare avanti la saga dei Buzzcocks, con Diggle spostato dal basso alla chitarra e il nuovo bassista Garth Smith, presto rimpiazzato da Steve Garvey. Del resto, la strada è stata tracciata, non resta che imboccarla con decisione. Questa nuova line-up si imbarca – assieme a Jam, Subway Sect e Slits – nell’imponente White Riot Tour dei Clash. Quindi, forte ormai di un assiduo seguito di fan, firma con l’etichetta United Artists all’Electric Circus di Manchester: è il 16 agosto 1977, incidentalmente, il giorno della morte di Elvis Presley.
Il suggello al nuovo sodalizio arriva pochi mesi dopo, a novembre, con il primo di tanti fortunati 45 giri. Porta ancora la doppia firma Shelley-Devoto e ha un titolo che è tutto un programma: “Orgasm Addict”. I Buzzcocks prendono subito le distanze dal resto della combriccola: niente proclami politici o istinti autodistruttivi, meglio una sana dipendenza sessuale, come quella degli adolescenti divoratori di giornaletti porno (“Sneaking in the back door with dirty magazines/ Now your mother wants to know 'bout all those stains on your jeans”). Un’ode all’onanismo – altra faccia del do-it-yourself e antidoto alla solitudine - singhiozzata da Shelley nelle sue tonalità alte e melodiose, distanti anni luce dalle urla distorte di Rotten, Strummer & C., con le chitarre crepitanti di Diggle che si infrangono sulle linee di basso circolari di Smith e sul drumming forsennato di Maher. Quasi più glam che punk, nel suo farsi beffe dei cliché della mascolinità. La Bbc non gradirà, forse anche per via di quegli orgasmi femminili simulati, e farà calare la mannaia della censura. Da ricordare anche la copertina, un collage di Linder Sterling, a conferma di come i Buzzcocks prestassero sempre attenzione al lato grafico delle loro opere (le copertine dei primi tre album, curate da Malcolm Garrett, avranno sempre dei riferimenti geometrici e anche il logo del loro nome con le due “Z” resterà riconoscibilissimo).
Cinque mesi dopo, nel nuovo singolo “What Do I Get?”, Shelley si fa meno insolente, chiedendo quasi garbatamente “un amante come qualsiasi altro”, con un riff minaccioso a incalzare il suo lamento; Garvey e Maher imprimono un ritmo maniacale, mentre Diggle è un'ancora armonica costante senza la quale le canzoni dei Buzzcocks perderebbero gran parte del loro impatto fisico.

Dicono tutti che le canzoni punk non sono fatte per parlare d’amore.
Beh, io non sono d’accordo, quindi perché dovrei sottostare alla regola?
(Pete Shelley a Melody Maker)

I Buzzcocks in cucinaA marzo del 1978, è già pronto il primo album, Another Music In A Different Kitchen, che incarna la pura essenza del punk, con strutture secche, ritmi indiavolati e cantato spesso demenziale, mostrando però un suono già inconfondibile, in cui la grezza esuberanza si sposa a una genuina fragranza melodica, le chitarre abrasive si saldano a ritornelli accattivanti e sentimentali, con testi che sono spesso sincere invettive adolescenziali contro la società dell’omologazione e della sopraffazione. Come ad esempio, “Fast Cars” - con un inizio praticamente identico a quello di “Boredom” - implacabile denuncia del classismo e della cultura dell’apparenza (ispirata a un incidente d’auto occorso a Diggle); oppure “No Reply”, che dietro il passo energico cela tutta la desolazione di chi resta a marcire accanto a un telefono senza poter ottenere neanche una semplice risposta.
Ma, come si diceva, Shelley non ha alcun pudore a portare tematiche sentimentali nell’arena del punk. “La gente è solita dire cose tipo ‘le canzoni punk non sono fatte per parlare d’amore’. Beh, io non sono d’accordo, quindi perché dovrei sottostare alla regola?”, confiderà a Melody Maker. Ed ecco allora “You Tear Me Up”, interpretata con tonalità morbide per svelare – quasi per contrasto - le sofferenze di un amore rude, violento e sporco. O ancora due tentativi di corteggiamento senza mezzi termini come “Get On Yor Own”, con vocalizzi impostati su toni sempre più alti, e “Love Battery”. E poi l’idillio romantico di “Fiction Romance”, minato dai dubbi e dalla disillusione, e lo smarrimento surreale dell’amante deluso di “I Don’t Mind” (“I don't know if I'm an actor or ham”… “Non so se sono un attore o un prosciutto”), condensato in melodie di marca quasi sixties che nascondono però progressioni di accordi nient’affatto elementari, degne del miglior Ray Davies. Decisamente più dissoluta, invece, “I Need”, dove il verbo del sesso, droga e rock’n’roll si coniuga con una cantilena infantile alla Ramones e con un incendiario assolo di chitarra.
Non mancano episodi più duri, come “Autonomy”, dal groove quasi trashy, e “Sixteen”, che procede a passo di marcia cambiando bruscamente tono con una parentesi distorta noise degna dei futuri Sonic Youth, per poi tornare alla forma iniziale. Chiude il disco l’insolitamente lunga “Moving Away From The Pulsebeat”: sette minuti all’insegna di un suono rock più sperimentale, con un modo di condurre la voce che ricorda i Beatles (citati da Diggle come massima influenza del gruppo assieme a Ramones, Bowie e Bolan) e con un assolo sfibrante di chitarra.

Aspetta prima di innamorarti di qualcuno di cui non dovresti
(Viviane Blaine a Marlon Brando in "Guys and Dolls")

Innamorarsi della persona sbagliata

BuzzcocksMa facciamo un passo indietro. Novembre 1977: i Buzzcocks sono in tour nel Regno Unito. Prima di un concerto al Cavendish Ballroom di Edimburgo, si ritrovano alla Blenheim Guest House, davanti a pinte di birra, mentre in tv stanno trasmettendo il musical “Guys and Dolls”. A un certo punto, uno dei personaggi, Adelaide (Viviane Blaine) si rivolge al personaggio di Marlon Brando (Sky Masterson) chiedendogli: “Aspetta prima di innamorarti di qualcuno di cui non dovresti”. Shelley non ci pensa un attimo e vi costruisce attorno una canzone che resterà, forse, il suo capolavoro definitivo: una melodia tra le più memorabili di una stagione intera con il refrain-scioglilingua del cantante, puntellato dai cori dei compari, a planare su un magma ribollente di chitarre, mentre la batteria tiene un ritmo indiavolato. Resterà anche la loro massima hit (n.12 in Uk), rilanciata nel 1987 da una cover di successo dei Fine Young Cannibals. Una prodezza che segna anche uno spartiacque rispetto ai cliché della mascolinità tipici del punk. Dietro il gioco divertente del titolo, infatti, “Ever Fallen In Love (With Someone You Shouldn't've)” sdrammatizza il dolore per la storia di Pete con Francis Cookson, suo compagno nel side-project Tiller Boys, con il quale ha vissuto per 7 anni prima che questi si andasse a sposare in Svizzera. Sulle orme dei suoi idoli Bowie e Reed, Shelley abbraccia una sessualità fluida, indefinita: “Ho cercato di essere il più neutro tra i sessi nello scrivere canzoni, perché per me avrei potuto usare la stessa canzone per entrambi i sessi”, spiegherà. Raramente il punk si mostrerà così candido e vulnerabile, seppur sotto strati di salace ironia.

If passion is a fashion
Then emotion is a curse
(da "Just Lust", 1978)

Pete Shelley - BuzzcocksForte di questo formidabile singolo-rompighiaccio (uno dei pochi a essere stato incluso in un successivo Lp), Love Bites (1978) consolida il mito dei Buzzcocks, seppur con un suono in costante evoluzione e con canzoni che si fanno più lunghe e strutturate. Restano i sagaci commentari sociali, a un passo dai Jam, come la forsennata “Just Lust”, dove Shelley si sfoga contro l’aridità di chi usa le persone solo per possederle e gettarle via, in una sorta di “consumismo emotivo” (“You're driven to possess, it hurts, it's so unjust… If passion is a fashion/ Then emotion is a curse”). È il ritmo a tenere banco anche su “Operator’s Manual”, che invoca ironicamente un manuale per affrontare le situazioni difficili o imbarazzanti; mentre l’innata capacità melodica di Shelley & C. trova il nuovo suggello nella brillante “Nostalgia”, alla quale bastano pochi accordi per immergere in un abisso di malinconia, e nella più scanzonata “Sixteen Again”, che offre altri frammenti di filosofia di vita ben assemblati.
Mr. Shelley, il più romantico dei punk, discetta di bugie d’amore (“Love Is Lies”) immergendosi in atmosfere più tenere che ricordano gli Who in versione acustica (con Diggle al canto) e non rinuncia ancora una volta a esporsi, mettendo a nudo tutte le sue cicatrici sentimentali in “Nothing Left”, dove un amante abbandonato singhiozza senza pace: “I've lost a lover/ And I am certain/ I'll get another/ So why'm I hurtin'?/ 'Cause I've nothing left at all”. Infine, i due strumentali (“Walking Distance” e “Late For The Train”) lasciano intravedere tutto il potenziale sperimentale del gruppo, specie il secondo, con una chitarra elettrica che aggiunge un tocco di psichedelia e una sezione ritmica, ancora una volta, esemplare.
Fulminei inni punk-pop, insomma, che Shelley traduce in performance vibranti sul palco, con il suo tipico canto strascicato e il suo mix di rabbia e sentimentalismo che gli si legge negli occhi, mentre fissa ostinatamente la telecamera, quasi a voler flirtare con essa.

Buzzcocks


Pretty girls, pretty boys
Have you ever heard your mommy say
Noise annoys
(da "Noise Annoys", 1978)

La bibbia del punk-pop

BuzzcocksMa ancor più che negli album, il meglio della band mancuniana sarà espresso dai singoli, quasi tutti mai incisi su Lp per precisa scelta ideologica (ad eccezione di “I Don’t Mind”, “Ever Fallen In Love?”, “Autonomy” e “Just Lust”). Per questo Singles Going Steady (1979) rappresenta non solo la loro opera migliore, ma anche la testimonianza più rappresentativa di un’intera stagione. Griffato da una copertina che omaggia apertamente i Beatles di “Let It Be”, l’album esce come antologia degli 8 singoli pubblicati fino ad allora dai Buzzcocks, più, nella seconda facciata, i relativi lati B. Nelle intenzioni della United Artists, dev’essere il loro passepartout per l’America, visto che si tratta della loro prima uscita ufficiale oltreoceano (due anni dopo sarà stampato anche in Uk). Fallirà l’ingresso nelle classifiche, ma ci sarà tempo per le rivincite. Perché le sedici perle pop-punk ante-litteram in esso contenute sono scritte per resistere all’usura degli anni.
Se la già esaminata (e memorabile) tripletta “Orgasm Addict”-“What Do I Get?”- “Ever Fallen In Love” aveva messo in luce tutta la creatività della band di Manchester, le altre canzoni non fanno che confermare la stupefacente capacità di Shelley di comprimere un intero campionario di cuori infranti, addii struggenti, infatuazioni timide e desideri non corrisposti in brevi motivetti scanzonati, che occhieggiano apertamente al pop degli anni 60 (le varie “I Don’t Mind,” “Love You More”, “Promises” e “You Say You Don’t Love Me”) senza però disdegnare costruzioni armoniche raffinate e complesse. Ed è tutto così straniante che sembra quasi di cogliere venature psichedeliche tra i riff taglienti di “Everybody's Happy Nowadays” (praticamente i Beach Boys in un trip acido assieme ai Wire), dove il cinico disincanto propulso a mo’ di mantra ossessivo (“Life’s an illusion/ Love is the dream/ But I don’t know what it is”) e l’esuberanza di un ritornello spiritato (in falsetto) celano un senso di straziante terrore.
Una stratificazione di stili che riaffiora nei riff duri di “Harmony In My Head”, dove è Diggle a impugnare il microfono con il suo calore aspro a far da contraltare ai cori fanciulleschi di Shelley in un affresco urbano caotico, nonché nel boogie decadente di “Something's Gone Wrong Again”, già proiettato in piena era post-punk, con una tastiera tintinnante, le linee di basso melodiche di Garvey, le cadenze mostruose di Maher e un Diggle scatenato alle chitarre, tra squisiti ricami e un assolo tentacolare. E anche un apparentemente innocuo lato B (di “Promises”) come “Lipstick”, con quel riff lacerante di chitarra, usato anche da Devoto nella storica “Shot By Both Sides” dei Magazine, non fa che consolidare l’impressione che i Buzzcocks fossero già “oltre”.
Ma c’è anche solo punk per il gusto del punk, come la deliziosa “Noise Annoys” – quasi Blur ante-litteram con quello scanzonato ritornello distorto (“Pretty girls/ Pretty boys/ Have you ever heard your mommy say/ Noise annoys”) - o come quel lampo di canzone di “Oh Shit!”, condensato pungente di rabbia e recriminazioni in un solo minuto e 35 (ma basterà per una nuova censura). E non mancano nemmeno toni da commentario sociale alla Jam. Ad esempio, in quel pugno allo stomaco di nome “What Ever Happened To?” (la B-side di “Orgasm Addict”), col reiterato giro di basso introduttivo di Smith a precedere l’esplosione delle chitarre distorte di Diggle e Shelley in un’invettiva nostalgica sull’Inghilterra corrosa dal morbo del consumismo.
Unica eccezione alla rigida concisione dei brani è il tour di force di 6’36’’ della dissoluta “Why Can’t I Touch It?” (scritta dall’intera band): un serrato corpo a corpo tra i riff di Diggle e Shelley in una jam session punk atmosferica che fa un po’ il verso ai duelli chitarristici tra Tom Verlaine e Richard Lloyd nei Television.
Riedito in versione cd nel 2001 con 8 extra tracks, Singles Going Steady resterà il testo sacro del punk-pop, nonché uno dei documenti più rappresentativi di un’intera epoca.

I'm not expecting things to be perfect
But a high success rate would be nice
(da “I Don’t Know What To Do With My Life”, 1979)

Pre-decennium Tension

Pete Shelley - BuzzcocksTerzo e ultimo album ufficiale prima dello scioglimento di due anni dopo, A Different Kind Of Tension (1979) è il più frammentario dei tre, con un mix un po’ schizofrenico di brani punk old school ed esperimenti più ambiziosi, che lottano contro il tempo che passa e, inesorabilmente, cambia mode e suoni. Si parte forte con l’energica “Paradise”, tutta giocata sulla linea di basso, con testo sardonico sul paradiso dove sembra andare tutto bene ma poi “i coltelli volano di sabato sera” (“Why are things so nice? Is this the place that they call paradise… Don't tell me what's wrong and what's right/ 'Cause a knife fight on Saturday night”). Decisamente più morbida l’angosciosa “You Say You Don't Love Me”, altra novelty romantica di Shelley sul tema dell’amore non corrisposto, con una melodia trasognata dal sapore 50’s. Le fa da contraltare “edonista” l’altra ode sui piaceri del sesso di “You Know You Can’t Help It”, inevitabilmente trascinata al galoppo dalla sezione ritmica in pieno territorio punk. Sempre puntuale alla chitarra, Diggle sale in cattedra nelle accelerazioni di “Sitting Round At Home”, con la sua voce distorta tra scansioni lente e lampi di thrash ultraveloce, e nell’altrettanto forsennata “Mad Mad Judy” in cui il suo vocione scorticato grida: “Non è rimasto niente in questo mondo tranne la follia e la diversità”. Da qui la conclusione amara di “I Don’t Know What To Do With My Life”, altro fulmine punk con assolo bonsai incluso, in cui il nichilismo dei Sex Pistols si tinge di connotazioni autoironiche che, quantomeno, aprono qualche spiraglio alla speranza (“I can't wake up in the morning/ And I can't get to sleep at night/ I'm not expecting things to be perfect/ But a high success rate would be nice”).
Figlia dei Devo, che un anno prima avevano pubblicato il loro miliare debutto “Q: Are We Not Men? A: We Are Devo”, è l’alienata title track, con il canto robotico di Shelley a vomitare ossessivamente slogan, sfregiato dai riff acuminati di Diggle su un ritmo marziale e implacabile, mentre le doti di equilibrista del leader si confermano in “Raison d’Etre”, dove l’esistenzialismo del testo si sublima in una dinamitarda carica punk e in un bell’assolo di chitarra sfumato.
E se “Hollow Inside” mostra ancora il talento della band nel mascherare sconfinati baratri psicologici e sentimentali dietro ritornelli appiccicosi, la lunga cavalcata di “I Believe” (7 minuti) condensa le ambizioni più sperimentali dei Buzzcocks di fine decennio 70, con l’elenco recitato da Shelley delle cose in cui crede bruscamente interrotto dalla frase “There is no love in this world anymore”, scandita a mo’ di ossessivo mantra elettronico, mentre la band spinge al massimo dei giri. Il tutto prima che il breve frammento radiofonico di “Radio Nine” riporti alla luce beffardamente il refrain di “Everybody’s Happy Nowadays”, chiudendo il disco in un senso di straniamento totale.
Rinunciando in parte all’efficacia melodica che li aveva fin qui contraddistinti, i Buzzcocks dimostrano, specie nella seconda metà dell’album, di sapersi immergere in suoni più stratificati e temi più complessi, con tanto di accenni politici e citazioni dello scrittore William S. Burroughs, mettendo un piede nell’ormai fiorente scena post-punk.

Nel 1980, la Liberty Records ingaggia la band, pubblicando tre singoli che però deludono le attese (solo uno dei tre, “Why She's A Girl From The Chainstore”/“Are Everything” entra nella top 75), così nel 1981 la band tira le somme e decide di sciogliersi.
Shelley inizia a gettare le basi per una carriera solista, Diggle e Maher formano i Flag of Convenience, che pubblicheranno diversi singoli tra il 1982 e il 1989, mentre Garvey prima dà vita ai Motivation, quindi si unisce ai Blue Orchids, trasferendosi a New York. Ma non finisce qui.

Turn the television on
You've been reading too long
Turn your radios on
And I'll sing you a song
(da "TTT", 1993)

Test di riunificazione

Pete Shelley con Kurt CobainInaspettatamente, i Buzzcocks si riuniscono nel 1989. I pilastri restano Shelley e Diggle, che richiamano i compari Maher e Garvey per un tour mondiale. Maher viene rimpiazzato per un breve periodo da Mike Joyce, ex-batterista degli Smiths, quindi, nel 1992, subentrano definitivamente Tony Barber al basso e Phil Barker dietro i piatti. Sarà questa line-up a partecipare come gruppo-spalla all’ultimo tour dei Nirvana, nel 1994. E in dote porterà le canzoni di un nuovo album…
Sospeso tra la celebrazione dei vecchi tempi e la rivendicazione della primogenitura sulle successive generazioni wave (e, ora, anche grunge), Trade Test Transmissions (1993) mostra il tandem Shelley-Diggle in buona forma, supportati da una sezione ritmica valida, benché meno potente di quella originaria. Domina il lato punk-pop su quello post-punk, con brani prevalentemente brevi e accattivanti, che accantonano in buona parte le tentazioni sperimentali dell’ultima fase dei primi Buzzcocks.
Ecco allora il punk-rock senza tempo di “Do It”, con ritmo saltellante e un nuovo testo sardonico: “My only consolation is that someday you'll care/ Perverse sophistication, you won't get far if you're going nowhere”. Tornano anche le specialità della casa di Shelley: adrenalinici rock’n’roll (“Never Gonna Give It Up”, “Energy”), acrobazie vocali sul filo di tonalità acute (“Smile”, “Who’ll Help Me Forget?”), ritornelli spensierati in stile sixties (“369”), tormenti amorosi più o meno disperati (“Innocent”, “All Over You”, “The Last To Know”) e riflessioni sulla solitudine (“Isolation”), camuffati sotto strati di melodie sbarazzine e convulse sferragliate chitarristiche.
Anche Diggle si ritaglia il suo spazio, mettendo il suo vocalismo rugginoso al servizio delle scudisciate della quasi psichedelica “Alive Tonight”. La title track, abbreviata in “TTT”, riapre invece le stanze della schizofrenia psicotica alla Devo, con un basso pulsante e un ritmo ossessivo ad assecondare il demenziale incipit: “Turn the television on/ You've been reading too long/ Turn your radios on/ And I'll sing you a song”. Lo spasso, infine, è assicurato da “Palm Of Your Hand”, una “Orgasm Addict” per gli anni 90, con la nuova ode alla masturbazione giocata sul titolo della loro hit più celebre (“Ever fallen in love with the palm of your hand”).

I nostri, insomma, ci riprendono gusto. E così tre anni dopo pubblicano All Set (1996) che paga pegno, però, a una certa stanchezza, con un suono più pop ma meno carico e, soprattutto, meno fresco rispetto ai predecessori. Shelley cerca di uscire dalle secche dell’autocitazionismo (palese nel lick di chitarra di “Point Of No Return” che riecheggia quello della vecchia “Harmony In My Head” e nel ritmo bislacco à-la “Sixteen” di “Pariah”), ad esempio inserendo un tocco di organo Hammond nella tenera "Hold Me Close" e inseguendo vibrazioni psych-pop anni 60 (“Give It To Me”, “Your Love”), mentre Diggle sfodera un robusto attacco rock per “Playing For Time” e “What Am I Supposed To Do”, inventandosi poi un dialogo tra una chitarra acustica e gli archi sintetici nella ballata “Back With You”.
“Suonano ancora come i Beatles in overdose di caffeina”, scriverà di loro Ali Sinclair di Westnet, ma questi simpatici musicisti di mezza età a caccia dell’elisir di eterna giovinezza suscitano un po’ di malinconia, se non apertamente noia (“Totaly From The Heart”, “Some Kinda Wonderful”). E anche i testi perdono buona parte della loro incisività, divenendo meno pungenti e più retorici.

Eravamo stanchi di essere una rock band, così ci siamo detti:
perché annoiarci, diventiamo più moderni
(Pete Shelley)

Modern love

Pete Shelley - BuzzcocksTre anni dopo è la volta di Modern (1999), dove a rinverdire il suono del gruppo provvede una massiccia iniezione di elettronica. È la loro concezione di “modernità”, espressa a modo suo dall’ineffabile Shelley: “Abbiamo provato a non fare un album rock, tentando un approccio più basato sullo studio di registrazione. Eravamo stanchi di essere una rock band quando tutti cercavano di esserlo, così ci siamo detti: perché annoiarci, diventiamo più moderni!”.
Resta l’approccio conciso, spigoloso e nevrotico del punk, ma sigillato in una nuova confezione sintetica in cui sintetizzatori e drum machine convivono con le solite chitarre insinuanti. In pratica, è la new wave fuori tempo massimo, e si ha proprio l’impressione che i Buzzcocks abbiano idealmente ripreso dall’anno del loro scioglimento (1981) quando il punk stava rapidamente mutando pelle. Ne scaturisce qualcosa a metà strada tra i Magazine dell’ex-compare Devoto e il disco solista di Shelley del 1983 (“XL1”). Ma è pur sempre il 1999, e questi nostalgici pastiche art-punk-wave appaiono irrimediabilmente datati.
Non mancano, in ogni caso, episodi gradevoli, come l’iniziale “Soul On A Rock”, con un incedere quasi dance-rock; il power-pop alla Blondie per coretti e chitarre sfrigolanti di “Rendez-Vous”; la più canonicamente rock “Speed Of Life” di Diggle (con coretti alla Who), la schizoide “Why Compromise?” (con il basso che torna in primo piano, un bel riff secco di chitarra e il cantato sinistro di Shelley); la nuova filastrocca sixties di “Phone”, immersa in un magma di elettronica e chitarre distorte. E Shelley conferma tutta la peculiarità del suo stile vocale che continua a turbare la simmetria del pop più convenzionale, riversando nuove ondate di disagio e frustrazione (si prendano ad esempio le due singalong di “Runaround” e “Thunder Of Hearts”).
Altrove invece (“Doesn’t Mean Anything”, “Stranger In Your Town”, “Choises”) gli innesti elettronici appaiono un po’ più posticci, finendo con lo snaturare il sound del gruppo. Resta comunque il coraggio di aver voluto voltare pagina, seppur attingendo a un nobile modernariato, più che al suono del presente (e del futuro).
Curiosi i due omaggi, più o meno espliciti, di “Speed Of Life” e “Don't Let The Car Crash” che riecheggiano due titoli di “Low” di David Bowie (“Speed Of Life” e “Always Crashing In The Same Car”), sicuramente uno dei dischi di riferimento per questa sorta di ibrido art-punk elettronico celebrato in Modern.

A 28 anni dalla loro nascita, Shelley e compagni si confermano orgogliosamente sulla breccia, pubblicando il loro primo album omonimo, Buzzcocks (2003). Deposti gli orpelli elettronici del predecessore, i mancuniani tornano a fare quello che sanno fare meglio, da sempre: schegge di pop-punk tutto quattro-quarti pimpanti, ritornelli cantabili e chitarre robuste. Anche se lo smalto, inevitabilmente, non è più quello degli anni d’oro, ma la carica e la passione tengono a galla un pugno di nuove canzoni tanto oneste quanto non sorprendenti.
L’ipercinetica “Jerk”, con sezione ritmica incendiaria, riporta alla mente i Bad Religion e tutta l’ondata del punk californiano. Il ritmo resta vertiginoso anche in “Wake Up Call”, sorta di chiamata alle armi a suon di mitragliate di chitarra, nella non meno frenetica “Friends” e nella conclusiva “Useless”. in cui Pete sfoga tutta la sua rabbia e la sua visione pessimistica del mondo. Torna anche la vocazione per il divertimento (lo sgangherato boogie di “Up For A Crack”, con un bell’intreccio di accompagnamenti vocali) mentre, all’opposto, “Sick City Sometimes” avanza minacciosa riff dopo riff, sciogliendosi poi in una suggestiva apertura melodica.
Più anonimi episodi abbondantemente già sentiti, come “Keep On”, “Driving You Insane”, “Certain Move” e “Lester Sands”, dove si ha l’impressione che la band abbia davvero perduto il bandolo della matassa (e del tempo).
Ma la vera chicca è la traccia numero 8, che segna lo storico ritorno di Devoto al fianco del compare Shelley dopo l’esperienza del loro album Buzzkunst del 2002 (a metà tra punk ed elettronica): viste le premesse, si poteva sperare in qualcosa di più, ma “Stars” sprigiona una bella potenza di fuoco, condensata in un paio di minuti d’assalto al calor bianco, con una interessante coda chitarristica distorta che ricorda, ancora una volta, il Duca Bianco berlinese.

Nello stesso anno i Buzzcocks vengono invitati ad aprire i concerti di un’altra leggenda grunge, dopo i Nirvana: i Pearl Jam di Eddie Vedder. È il coronamento di una seconda giovinezza della band, divenuta ormai un riferimento imprescindibile non solo per i cultori delle sonorità punk e wave, ma, in generale, per tutti gli appassionati di rock.

All of my hopes, dreams and desires
Assembly required
That's flat-pack philosophy
(da "Flat-Pack Philosophy", 2006)

Filosofia dell’impacchettamento

Pete Shelley - Steve Diggle - BuzzcocksTre anni dopo, è un’etichetta di culto della scena indie come Cooking Vinyl a pubblicare il loro nuovo album, Flat-Pack Philosophy (2006), con Danny Farrant a prendere il posto di Barker alla batteria. Niente di nuovo sotto il sole, per una band che da trent’anni fa la stessa cosa (il pop-punk che ha contribuito a inventare), ma che da almeno venti non la fa meglio di chiunque altro. Eppure il disco riserva più di una sorpresa: le canzoni funzionano e fanno il loro porco dovere. Anzi, dopo qualche ascolto ce n’è anche un gruzzolo che resta impresso. Anzitutto la grintosa title track, “Flat-Pack Philosophy”, termine che indica il modo di comprare gli oggetti acquistando i pezzi impacchettati separatamente (compressi in piccole scatole, come quella raffigurata in copertina) da assemblare a casa; un concetto che la band di Manchester applica ai propri sogni, desideri, pensieri, alla vita e quello che dovrebbe/potrebbe essere ("All of my hopes, dreams and desires/ Assembly required/ That's flat-pack philosophy").
Lasciano il segno anche “Wish I Never Loved You”, ennesima recriminazione amorosa senza filtri su tappeto power-pop, “Reconciliation”, con tanto di coretti “oh oh oh”, “I Don’t Exist”, con quello swing che più inglese non si può, e “Dreamin’”, due minuti e quaranta degni dei vecchi tempi. Per farla breve, parliamo dei pezzi in cui si sentono la mano e la voce ormai consumata di Pete Shelley.
Diggle, invece, impugna il microfono nel singolo “Sell You Everything” (con tanto di videoclip girato a Las Vegas), ennesima invettiva contro le tentazioni effimere del consumismo, tema che ricorre anche in “Credit”. Il chitarrista mette la propria firma pure sul trittico “Soul Survivor”-“Big Brother Wheels”- “Sound Of A Gun”, mettendo in mostra un buon mestiere – anche come interprete - ma poca inventiva. A volte il fantasma degli emuli Green Day appare dietro l’angolo, ma i Buzzcocks lo schivano con i loro guizzi di spiazzante autoironia.
Nel complesso Flat-Pack Philosophy è un album senza pretese, che però mantiene molto più di ciò che sembra promettere.

Segue, stavolta, una lunga pausa durante la quale le chance di un ritorno discografico del gruppo sembrano affievolirsi. Ma a venire in soccorso ai Buzzcocks è una nuova risorsa: il fundraising. Attraverso la piattaforma PledgeMusic, infatti, riescono a pubblicare The Way (2014), nono album in studio della gloriosa ditta e ultimo, purtroppo, con Pete Shelley. Ed è proprio lui, l’inguaribile romantico del punk, a formulare un nuovo impertinente quesito - “Are you smiling? Are you frowning?” - in apertura di disco, nell’energica "Keep On Believing". In fondo, è ciò che hanno sempre fatto i Buzzcocks: sorridere e aggrottare le sopracciglia, senza contraddizioni di sorta, spesso anche all’interno della stessa canzone, alleggerendo il punk della sua patina più ideologica e barricadera e nutrendolo di una irresistibile ironia British, senza tuttavia rinunciare a denunciare tutto il loro sconcerto per i mali del mondo.
Con una sezione ritmica ora composta da Chris Remington e Danny Farrant, il gruppo di Manchester rispolvera il consueto armamentario di chitarre taglienti e ritornelli facili, ma a latitare sono soprattutto gli hook, i ganci melodici a presa rapida. Così nuove schegge punk-pop come “The Way”, “Out Of The Blue” “It’s Not You” disperdono il loro potenziale adrenalinico evaporando in fretta. Meglio, semmai, la nuova invettiva di “Virtually Real” – stavolta contro la disumanizzazione operata dai social network – che piazza un bel riff distorto a sfregiare il lamento di Shelley.
Altalenanti le prove di Diggle: sicuramente più a suo agio nella ringhiosa “Chasing Rainbows/Modern Times” - con tanto di citazione del celebre riff pop-punk di “Blitzkrieg Bop” dei Ramones - e nel garage irruento di “Third Dimension”, il chitarrista non riesce a riscattare dalla mediocrità numeri rock bolsi come “In The Back” o “People Are Strange Machines” (che ricicla il titolo della celebre hit dei Doors), smarrendosi poi nel velleitario tour de force finale di “Saving Yourself”, cui fa difetto anche la proverbiale irriverenza autoironica della band.
Al contrario di una formazione quasi coetanea come i Wire, che ha fatto dell’avvicinamento al pop una (parzialmente riuscita) missione senile, i Buzzcocks di The Way sembrano quasi prigionieri dell’asprezza selvaggia delle loro radici e finiscono con lo smarrire per strada l’efficacia bubblegum delle loro storiche melodie sentimentali.

Oh, shit – L’epilogo

Pete Shelley - BuzzcocksCome detto, purtroppo, non potremo più ascoltare l’inconfondibile voce sottile e tormentata di Pete Shelley. Lo storico frontman dei Buzzcocks è morto il 6 dicembre 2018 all’età di 63 anni, nella sua casa di Tallinn, in Estonia, e se non ci fosse da piangere, verrebbe quasi da sorridere a pensare a quanto punk sia stata, in fondo, anche la scelta di una residenza così insolita per una rockstar. Ma questo era Peter McNeish: genio, sregolatezza e un’istintiva repulsione per tutte le convenzioni. Incluse quelle del punk. Lascia un patrimonio di fulminanti istantanee in formato canzone a firma Buzzcocks, oltre a sei album solisti, l’ultimo dei quali, di chiara ispirazione cinematografica, inciso due anni prima (Cinema Music And Wallpaper Sounds).

La morte di Shelley pone fine nel modo più triste alla lunga epopea dei Buzzcocks, anche se Diggle non pare ancora intenzionato a mollare. Nell’estate del 2020 la band ha organizzato, alla Royal Albert Hall di Londra, un tributo per il compianto membro fondatore, al quale hanno partecipato membri dei Damned, oltre a Thurston Moore, Pauline Murray, Peter Perrett e Tim Burgess. E nello stesso anno è uscito su Cherry Red Records un nuovo singolo 7" con due brani a firma del gruppo: “Gotta Get Better”, rifacimento di un pezzo solista dello stesso Diggle, e la B-side “Destination Zero”. Diggle e soci hanno dichiarato di voler continuare a esibirsi dal vivo in tour. Nel nome di Pete e dell’inossidabile marchio Buzzcocks.

Contributi di Valentina Vodovar e Luca Fusari

Buzzcocks

Discografia

BUZZCOCKS
Spiral Scratch (Ep, New Hormones, 1977)

6,5

Another Music In A Different Kitchen (United Artists, 1978)

7

Love Bites (United Artists, 1978)

7,5

Singles Going Steady (antologia, IRS, 1979)

9

A Different Kind Of Tension (United Artists, 1979)

7

Time's Up (ristampa di demo, Domino, 1991)
Trade Test Transmissions (Castle Music UK, 1993)6,5
All Set (IRS, 1996)

6

Modern (Go Kart, 1999)

6,5

Buzzcocks (Cherry Red / Merge Records, 2003)

6

Flat-Pack Philosophy (Cooking Vinyl, 2006)

6

The Way (PledgeMusic, 2014)5
PETE SHELLEY
Sky Yen (Groovy, 1980)

Hangahar (with Sally Smmit,Groovy, 1980)

Homosapien (Genetic-Island/Arista, 1981)

XL1 (Island/Arista,1983)
Heaven And The Sea (Mercury, 1986)

Cinema Music And Wallpaper Sounds (Caroline True, 2016)

SHELLEYDEVOTO
Buzzkunst (Cooking Vinyl, 2001)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Boredom
(live da Spiral Scratch, 1977)

Breakdown
(live da Spiral Scratch, 1977)

Autonomy
(live da Another Music In A Different Kitchen, 1978)

I Don't Mind
(live da Another Music In A Different Kitchen, 1978)

Ever Fallen In Love (With Someone You Shouldn't've)
(videoclip da Love Bites, 1978)

Sixteen Again
(live da Love Bites, 1978)

 

Promises
(videoclip da Singles Going Steady, 1979)

 

What Do I Get
(videoclip da Singles Going Steady, 1979)

 

Everbody's Happy Nowadays
(live da Singles Going Steady, 1979)

 

Harmony In My Head
(live da Singles Going Steady, 1979)

 

Lipstick
(live da Singles Going Steady, 1979)

 

Something's Gone Wrong Again
(live da Singles Going Steady, 1979)

Orgasm Addict
(
live da Singles Going Steady, 1979)

You Say You Don't Love Me
(live da A Different Kind Of Tension, 1979)

Access All Areas - Buzzcocks - Live
(Full Live Show, 1989)

Buzzcocks - Access All Areas Town & Country Club
(Full Live Show, 1992)

Do It
(videoclip da Trade Test Transmissions, 1993)

Jerk
(live da Buzzcocks, 2003)

Flat-Pack Philosophy
(live da Flat-Pack Philosophy, 2006)

 

Gotta Get Better
(videoclip, 2020)

 

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