Pete Shelley & Howard Devoto, la strana coppia del punk. Due cani sciolti dal cui incrocio, nell’anno 1975, non poteva non nascere qualcosa di completamente inedito. Il primo, all’anagrafe Peter McNeish, è uno studente d’ingegneria appassionato di poeti romantici - non a caso, ha scelto come nome d’arte quello del suo preferito: Percy Bysshe Shelley. Il secondo, invece, ha ripudiato l’inglesissimo cognome Trafford per assumere quello più misterioso di Devoto, in linea con la sua passione per letteratura e filosofia, il cui studio alterna agli ascolti compulsivi di quel proto-punk di marca americana nato a cavallo tra la Detroit degli Stooges e la New York dei Velvet Underground e del Cbgb. Si incontrano alla Società di musica elettronica del Bolton Institute of Technology, con il pretesto di una colonna sonora per un video artistico. Shelley, cresciuto a pane e kraut-rock, nonché provetto inventore (ha già costruito il suo primo oscillatore), con quelle partiture sperimentali va a nozze.
Già, ma allora cosa c’entra il punk? Apparentemente nulla, fin qui. C’è solo quel nome sboccato in slang, Buzzcocks, che in realtà altro non è che la crasi del tormentone di una serie televisiva dell’epoca, “Rock Follies”: “That's the buzz, cocks” (“Questa è la voce che gira, ragazzi”). Ma è pur sempre il 1976 e la voce che gira in Inghilterra è quella dei Sex Pistols. Pete e Howard, colpiti da una recensione di Nme, corrono a Londra a sentirli suonare. Pochi mesi dopo, apriranno per loro un epico concerto al Lesser Free Trade Hall di Manchester. That’s punk, cocks.
Do it yourself
Il primo nucleo dei Buzzcocks, oltre ai due frontmen-cantanti (Shelley anche alla chitarra), comprende il bassista Steve Diggle e il batterista John Maher. Pur essendo tra i pionieri del punk, sono già qualcos’altro. Sono pop, per le melodie cristalline e i ritornelli-killer che sfornano con nonchalance, quasi come novelli Beatles o Kinks. Sono post per l’attitudine art-rock (che Devoto poi svilupperà più compiutamente nei Magazine) e per i testi arguti, che al posto del nichilismo dei Pistols e degli assalti politici dei Clash, mettono le frustrazioni adolescenziali, il sesso e, udite udite, l’amore, incluso quello bisessuale, apertamente decantato da Shelley. Ma sono anche i primi indie: il loro Ep d’esordio “Spiral Scratch” (1977), pubblicato per la loro etichetta New Hormones, è infatti annoverato come il prototipo del DIY (do it yourself). Infine, sono addirittura jazz, almeno stando alle parole di Paul Morley, corrispondente da Manchester di Nme, rimasto fulminato dai loro primi set: “Chitarra e basso erano guizzanti, la batteria sembrava del tutto poliritmica, la voce una frusta. Se ti allontanavi di cinque centimetri pensavi: questo è il free-jazz”.
Ma dopo quello storico Ep, il gruppo è già a un bivio. Fedele, infatti, al camaleontico verbo bowiano “se una cosa funziona, buttala via”, Devoto molla subito, professandosi già “annoiato del punk” e avviandosi a scrivere un’altra memorabile pagina di rock britannico alla guida dei suddetti Magazine. Toccherà così a Shelley portare avanti la saga dei Buzzcocks, con Diggle spostato dal basso alla chitarra e il nuovo bassista Garth Smith, presto rimpiazzato da Steve Garvey. Ma più che nel trittico di album del periodo d’oro (“Another Music In A Different Kitchen”, “Love Bites” e “A Different Kind Of Tension”), il meglio della band mancuniana sarà espresso da questa formidabile raccolta di singoli, quasi tutti mai incisi su Lp per scelta ideologica (ad eccezione di “I Don’t Mind”, “Ever Fallen In Love?”, “Autonomy” e “Just Lust”).
Orgasmo-dipendenza
Griffato da una copertina che omaggia apertamente i Beatles di “Let It Be”, “Singles Going Steady” esce nel 1979 come antologia degli otto singoli pubblicati fino ad allora dai Buzzcocks, più, nella seconda facciata, i relativi lati B. Nelle intenzioni della United Artists, dev’essere il loro passepartout per l’America, visto che si tratta della loro prima uscita ufficiale oltreoceano (due anni dopo sarà stampato anche in Uk). Fallirà l’ingresso nelle classifiche, ma ci sarà tempo per le rivincite. Perché le 16 perle punk-pop ante-litteram in esso contenute sono scritte per resistere all’usura degli anni: dall’era dei Ramones (forse gli unici veri maestri putativi del gruppo) a quella dei Nirvana (che adotteranno Shelley & C. come padrini, portandoli sul palco del loro ultimo tour, nel 1994) fino a quella dei Green Day, che ne semplificheranno la lezione traghettandola nel Duemila, e del revival punk-garage degli Strokes che impazzerà negli anni Zero. Del resto, era stato lo stesso Shelley a rivelarlo ambiziosamente a Nme: “Prima di fare una canzone, devo assicurarmi che possa superare la prova del tempo”. Paradossale, al tempo della più grande truffa del rock’n’roll e della rapida autodistruzione di Sex Pistols & C..
Con il primo 45 giri, “Orgasm Addict” (a firma Shelley-Devoto), i Buzzcocks prendono subito le distanze dal resto della combriccola: niente proclami politici o istinti autodistruttivi, meglio una sana dipendenza sessuale, come quella degli adolescenti divoratori di giornaletti porno (“Sneaking in the back door with dirty magazines/ Now your mother wants to know 'bout all those stains on your jeans”). Un’ode all’onanismo – altra faccia del do-it-yourself e antidoto alla solitudine - singhiozzata da Shelley nelle sue tonalità alte e melodiose, distanti anni luce dalle urla distorte di Rotten, Strummer & C., con le chitarre crepitanti di Diggle che si infrangono sulle linee di basso circolari di Smith e sul drumming forsennato di Maher. Quasi più glam che punk, nel suo farsi beffe dei cliché della mascolinità. La Bbc non gradirà, forse anche per via di quegli orgasmi femminili simulati, e farà calare la mannaia della censura.
Cinque mesi dopo, in “What Do I Get?”, Shelley si fa meno insolente, chiedendo quasi garbatamente “un amante come qualsiasi altro”, mentre un riff punitivo minaccia di sopraffare il suo lamento; Garvey e Maher imprimono un ritmo maniacale, mentre Diggle è un'ancora armonica costante senza la quale le canzoni dei Buzzcocks perderebbero gran parte del loro impatto fisico. Canzoni che condensano angoscia e tormenti amorosi in tre minuti. Come la splendida “Ever Fallen In Love” (1978), in cui l’atipico punk Shelley getta definitivamente la sua maschera romantica arrovellandosi attorno all’amletico dubbio “Ti sei mai innamorato di qualcuno di cui non avresti dovuto?”. Il titolo – estrapolato da un dialogo tra Vivian Blaine e Marlon Brando nel musical “Guys and Dolls” – sdrammatizza il dolore per la storia di Pete con Francis Cookson, suo compagno nel side-project Tiller Boys, con il quale ha vissuto per sette anni, prima che questi si andasse a sposare in Svizzera. Sulle orme dei suoi idoli Bowie e Reed, Shelley abbraccia una sessualità fluida, indefinita: “Ho cercato di essere il più neutro tra i sessi nello scrivere canzoni, perché per me avrei potuto usare la stessa canzone per entrambi i sessi”, spiegherà. Raramente il punk si mostrerà così candido e vulnerabile, seppur sotto strati di salace ironia. E la melodia di “Ever Fallen In Love” resterà una delle più memorabili di una stagione intera, con la cantilena-scioglilingua di Shelley puntellata dai cori dei compari a planare su un magma ribollente di chitarre, mentre la batteria tiene un ritmo indiavolato. Canzone praticamente perfetta, che resterà anche la loro massima hit (n.12 in Uk), rilanciata nel 1987 da una cover di successo dei Fine Young Cannibals.
Punk senza frontiere
C’è un che di stupefacente nella capacità di Shelley di comprimere un intero campionario di cuori infranti, addii struggenti, infatuazioni timide e desideri non corrisposti in motivetti sbarazzini, di marca quasi sixties (le varie “I Don’t Mind,” “Love You More”, “Promises” e “You Say You Don’t Love Me”) che nascondono però progressioni di accordi nient’affatto elementari, degne del miglior Ray Davies. La grezza incisività del punk si sposa a una genuina fragranza melodica, le chitarre abrasive si saldano a ritornelli accattivanti e sentimentali. Ed è tutto così straniante che sembra quasi di cogliere venature psichedeliche tra i riff taglienti di “Everybody's Happy Nowadays” (praticamente i Beach Boys in un trip acido assieme ai Wire), dove il cinico disincanto propulso a mo’ di mantra ossessivo (“Life’s an illusion/ Love is the dream/ But I don’t know what it is”) e l’esuberanza di un ritornello spiritato (in falsetto) celano un senso di straziante terrore.
Una stratificazione di stili che riaffiora nei riff duri di “Autonomy”, dal groove quasi trashy, di “Harmony In My Head”, dove è Diggle a impugnare il microfono con il suo calore aspro (frutto di 20 sigarette fumate prima di cantare, secondo la leggenda) a far da contraltare ai cori di Shelley in un affresco urbano caotico, nonché nel boogie decadente di “Something's Gone Wrong Again”, già proiettato in piena era post-punk, con una tastiera tintinnante, le linee di basso melodiche di Garvey, le cadenze mostruose di Maher e un Diggle scatenato alle chitarre, tra squisiti ricami e un assolo tentacolare. E anche un apparentemente innocuo lato B (di “Promises”) come “Lipstick”, con quel riff lacerante di chitarra che sarà clonato da Devoto nella futura (e storica) “Shot By Both Sides” dei Magazine, non fa che consolidare l’impressione che i Buzzcocks fossero già “oltre”.
Ma c’è anche solo punk per il gusto del punk, come la deliziosa “Noise Annoys” – quasi Blur ante-litteram con quello scanzonato ritornello distorto (“Pretty girls/ Pretty boys/ Have you ever heard your mommy say/ Noise annoys”) - o come quel lampo di canzone di “Oh Shit!”, condensato sagace di rabbia e recriminazioni in un solo minuto e 35 (ma basterà per una nuova censura). E non mancano nemmeno toni da commentario sociale alla Jam. Ad esempio, in quel pugno allo stomaco di nome “What Ever Happened To?” (la B-side di “Orgasm Addict”), col reiterato giro di basso introduttivo di Garth Smith a precedere l’esplosione delle chitarre distorte di Diggle e Shelley in un’invettiva nostalgica sull’Inghilterra corrosa dal morbo del consumismo (“Your passion is a product of highlight and detail… Your emotions are cheap, cut-price cash-and-carry/ You wear your heart on your sleeve for any Tom, Dick or Harry… Your pasteurized life so fit for consumption”). Un tema che ricorre, seppur in chiave più personalistica, su “Just Lust” dove Shelley si sfoga contro l’aridità di chi usa le persone solo per possederle e gettarle via, in una sorta di “consumismo emotivo” (“You're driven to possess, it hurts, it's so unjust… If passion is a fashion/ Then emotion is a curse”).
Unica eccezione alla rigida concisione dei brani è il tour di force di 6’36’’ della dissoluta “Why Can’t I Touch It?” (scritta dall’intera band): un serrato corpo a corpo tra i riff di Diggle e Shelley in una jam session punk atmosferica che fa un po’ il verso ai duelli chitarristici tra Tom Verlaine e Richard Lloyd nei Television.
Oh, shit! L’epilogo
Si conclude l’ascolto ancora ebbri di chitarre e ritornelli, con l’unico rammarico dell’esclusione di “Boredom”, l’epico inno firmato Shelley-Devoto su “Spiral Scratch”. Poco dopo la pubblicazione di questa raccolta, nel 1981, la band si scioglierà per poi tornare in attività più avanti, spinta dal crescente culto delle nuove generazioni attorno al suo nome, ma con una line-up rimaneggiata e risultati non sempre all’altezza, finché la morte di Shelley (il 6 dicembre 2018 a Tallinn, in Estonia, all'età di 63 anni) porrà fine nel modo più triste alla loro epopea, sebbene Diggle non sembri ancora intenzionato a mollare.
“Singles Going Steady”, riedito in versione cd nel 2001 con 8 extra tracks, resterà il documento più prezioso della loro stagione d’oro. Uno scrigno di perfette punk-song che merita appieno un posto in un ideale podio al fianco di capolavori come “Never Mind The Bollocks” dei Sex Pistols e “London Calling” dei Clash.
10/05/2020