L'amicizia con Brian Eno, la provenienza dal mondo accademico delle belle arti, gli show astrattisti e sperimentali, sovente ai limiti del dadaismo, la ricerca dell'eleganza e dell'estetismo a tutti i costi, il minimalismo e la rimozione di ogni elemento superfluo in fase di composizione: furono questi i tratti salienti di una proposta unica, alla quale stuoli di musicisti si sono ispirati per anni. Una band che fece della coerenza la propria ragione d'essere, arrivando a pagare per ciò il prezzo della mancata affermazione oltre i circuiti di nicchia.
In auto con Brian Eno
Inghilterra, primi anni Settanta. Colin Newman è un giovane studente di disegno del Watford Art College. Ha però il vizio della musica, della sperimentazione sonora, in particolare. Per questo trascorre ore in laboratorio alle prese con nastri e diavolerie d'ogni sorta, e non si lascia sfuggire l'occasione di indimenticabili tragitti in auto a discettare di arte e musica con i suoi professori e un loro comune amico, tal Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno, meglio noto come Brian Eno.
E l'accademia d'arte di Watford è l'humus in cui prende vita il progetto-Wire. Il primo embrione nasce a nome Overload e comprende, oltre a Newman e al chitarrista George Gill, il tecnico audiovisivo Bruce Gilbert. Qualche tempo dopo, si aggiungono alla compagnia il drummer Robert Gotobed (alias Robert Grey, unico membro extra-art school) e il bassista Edvard Graham Lewis, neolaureato in tecniche della moda e stilista per le boutique di Londra. Perso Gill, la formazione si assesta in quartetto (Newman voce e "seconda" chitarra, Gilbert prima chitarra, Lewis al basso e Gotobed alla batteria), con la nuova sigla Wire. Un nome scelto per le sue proprietà grafiche e per le sue implicazioni semantiche (sottile e metallico, fili elettrici). "Era breve e secco, sarebbe risaltato sui poster anche se eravamo tra gli ultimi in cartellone!", spiegherà Newman.
Sull'onda della famigerata "Summer of Hate" del 1976, nasce quindi una band che, benché inserita a pieno titolo alla voce "punk", si mostra già notevolmente eterodossa: pur "non musicisti", per dirla con Eno, i quattro possono vantare una formazione accademica ben lontana dall'approccio "stradaiolo" in voga nel periodo, un'età media più alta e ambizioni assai più sofisticate rispetto alla concorrenza.
Come i Talking Heads sull'altra sponda dell'oceano, i Wire iniettano nella forza bruta del rock massicce dosi di materia grigia, ma - e qui sta il miracolo - senza mai indulgere in fredde pose intellettuali o onanismi cerebrali. Newman lo spiega così: "La nostra musica non era artistoide, cazzo, quello che facevamo era arte. Il punk era arte. Era tutto arte".
Sono anni di rapidi mutamenti, sociali e musicali. Il punk dilaga come un fiume in piena. E tutto avviene in fretta, "ora e subito". Così in pochi mesi del 1977 i Wire bruciano le tappe: debuttano al Roxy di Londra (febbraio), incontrano Mike Thorne della Emi che li seleziona per la compilation "The Roxy London WC2" e a novembre fanno già uscire il loro album d'esordio Pink Flag, anticipato dal singolo "Mannequin".
Ironia della sorte, a scritturarli è la Emi/Harvest, etichetta storica dell'odiato progressive e dei primi Pink Floyd - da qui il bizzarro nomignolo di "Punk Floyd" affibbiato loro dalla stampa britannica.
Prodotto da Thorne, sorta di "quinto elemento" virtuale della band, Pink Flag è un disco punk, eppure contiene già in nuce i germi della mutazione. L'immediatezza e l'urgenza dei Sex Pistols sono immesse in costruzioni oblique, sottilmente stranianti, che lasciano filtrare quel senso di angoscia e frustrazione che impregnerà l'era wave. Niente abuso dei soliti riff o ramalama vocali: Newman & C. giocano a spiazzare l'ascoltatore, forti di una inesauribile fantasia compositiva e di un un'ironia icastica, che mette alla berlina le convenzioni borghesi senza risparmiare colpi bassi ai "ribelli" dell'epoca.
Ventuno canzoni-bonsai per trentasei minuti complessivi (dodici tracce non durano più di novanta secondi!). Ventuno miniature sconnesse e frastornanti, imperniate sul canto alienato di Newman, su un basso abulico e su minimalistiche chitarre-rasoio. Le strutture, nette e geometriche, sono semplici solo in apparenza: in realtà ogni brano è un labirinto, un enigma che si dissolve sul più bello, come quei film che lasciano il finale sospeso, ammutolendo la platea. Il maître a penser, allora, non può non essere Brian Eno, con la sua idea dell'arte finalizzata a "esporre l'ascoltatore al disorientamento". Tutto concorre allo scopo: dai titoli assurdisti ("Ex-Lion Tamer", "Three Girl Rhumba") al grossolano accento cockney di Newman. Ricorrono sì alcuni temi tipici del punk - l'odio per i media ("Field Day For The Sundays"), le invettive politiche ("Reuters", "Pink Flag"), la sessuomania ("12XU"). Ma i testi - a cura di Graham Lewis - scivolano tutti irrimediabilmente nel nonsense ("106 Beats That" è costruita addirittura sull'idea di scrivere una canzone con cento sillabe!).
L'iniziale "Reuters" è il report di un immaginario corrispondente di guerra ("Prices have risen since the government fell/ Casualties increase as the enemy shells/ The climate's unhealthy, flies and rats thrive/ And sooner or later the end will arrive"), con la declamazione distaccata di Newman poggiata su un muro di percussioni e chitarre fuzz. E' l'intro-manifesto del disco, pur durando ben più della media (quasi tre minuti), al pari della distortissima title track, che riprende il concetto della vita in tempo di guerra, su cupe detonazioni di chitarra, culminando in una spaventosa accelerazione finale.
I Wire si rivelano anche maestri nello scodellare hook da acchiappo immediato ("Ex Lion Tamer", "Fragile", "Mannequin", "The Commercial") usando il minimo degli accorgimenti. Nessuna canzone ha una nota in più del necessario, alcune sembrano persino abbozzi incompiuti. Eppure, la potatura totale di fronzoli non cancella le tracce di un repertorio più ampio, che omaggia - a modo suo - l'intera storia del rock: "Mannequin" è una versione liofilizzata dei Byrds di "Why", "Feeling Called Love" tenta di clonare a freddo i Troggs, il boogie di "Strange" strizza l'occhio ai Velvet Underground più torbidi, "Lowdown" guarda al funk e al blues e "Pink Flag" - per ammissione dello stesso Newman - è "Johnny B. Goode riscritta con un accordo solo".
Dulcis in fundo, quella "12XU" che rimarrà uno degli inni del gruppo: l'incalzante cavalcata punk si va a frantumare in una pantomima sessista (in ottica gay) per un minuto e 55 secondi di puro divertimento. Mentre la fulminante parabola dei Pistols volge al termine, i Wire sono già "oltre", e il distacco definitivo dal no future dei cugini si consumerà nei due, altrettanto leggendari, album successivi.
I "Punk Floyd"

Chairs Missing recide i residui legami col punk, volgendosi coraggiosamente verso nuovi orizzonti sperimentali, non troppo distanti dalla spettrale Berlino di Bowie & Eno. Si allunga la durata dei brani e si amplia lo spettro sonoro, con nuovi strumenti e una maggior cura per la produzione. Artefice principale della svolta è il "quinto uomo" Thorne, che introduce tastiere, sintetizzatori e trucchi avveniristici d'importazione americana: distorsori Mx-R, flanger e nuovi effetti sonori come delay, chorus, pedali. Ne scaturisce un sound molto più profondo, atmosferico e allucinato, che acuisce ancor più il senso di smarrimento, e che si riallaccia all'opera di altri pionieri wave come Magazine e Ultravox!.
Bastano poche note di "Practice Makes Perfect" e l'ascoltatore è già perso in questo vortice: un drumming cupo e ossessivo, gli accordi ostinati della chitarra ad assecondare il canto straniante di Newman, poi tutto si deforma come in una piéce dell'assurdo, tra urla sinistre e sghignazzate, e l'epilogo è puro deliquio. Una ragnatela di chitarre sinistre avvolge "French Film Blurred", che suggerisce però una via d'uscita, aprendosi in un refrain più arioso, di marca quasi barrettiana. Ma la litania catatonica di "Marooned" sprofonda di nuovo in una vertigine d'angoscia, quasi a mimare il lento affondare nell'Artico del naufrago protagonista ("As the water gets warmer, my iceberg get smaller"): pochi accordi abulici di chitarra, il canto fatalista, il basso freddamente metronomico. E' questo il mood dominante del disco, ribadito dall'intro plumbea di synth in "Being Sucked In Again", dalle pulsazioni convulse del basso a puntellare una cantilena morbosa alla Suicide in "Heartbeat" (che non passerà inosservata dalle parti dei Jesus & Mary Chain), e dalla filastrocca minacciosa di "Mercy", dove il fragore delle chitarre dissimula il senso di dramma incombente. Una tensione che tocca toni parossistici nel singolo "I Am The Fly", sardonica vignetta proto-industrial intonata da Newman con pacchiano accento cockney, su una lastra laminata di chitarre, handclap umanoidi e rumori assortiti, ad evocare l'insetto protagonista.
Le ritmiche nervose e petulanti di "Men 2nd", "Sand In My Joints" e "Too Late" restano il solo aggancio col punk stralunato della prim'ora. Il ritornello di "Outdoor Miner", invece, dimostra, una volta di più, come i Wire avrebbero anche potuto ritagliarsi una brillante carriera da popmaker.
Cruciale snodo nella evoluzione del punk in post-punk e gothic, Chairs Missing lascia spazio alla meditazione, alla silente elaborazione dei dettami rivoluzionari che saranno ancor più ostentati nel successivo 154. Per questo spiazzerà i punkster fedeli alla linea. "Sono regrediti da Pink Flag ai Pink Floyd" scriverà Monty Smith dell'Nme, in una delle loro storiche recensioni-cantonata. Era già iniziata la new wave e non se n'erano neanche accorti.
Dopo alcune date in Gran Bretagna, i Wire colgono al volo un'occasione irrinunciabile: supportare i Roxy Music nelle 16 date del loro tour primaverile in Europa. Le loro esibizioni sono pièce di gelida avanguardia, con i quattro abbigliati in bianco, nero o grigio, sotto le luci bianche dei riflettori. Newman incarna un frontman sui generis, ora immobile, sguardo perso nel vuoto, ora compreso nella parte della rockstar poseur e insincera. L'effetto è di grande suggestione e contribuisce ad alimentare il culto sotterraneo della band.
L'ultima tempesta
Il 1979 è un anno febbrile per i Wire. Di ritorno dal tour, in settembre, pubblicano il terzo capitolo della trilogia, 154. Altra copertina memorabile, stavolta su sfondo bianco, con un bel disegno astratto dai contorni netti e dalle tinte pastello. E' il disco con cui si compie il definitivo trapasso dallo "schema" punk a un suono altresì frastornato e decadente, ma con impensabili aperture d'avanguardia pop. Un'opera che "sfigura" il punk-rock trainandolo ai limiti della psichedelia industriale. Riecheggia il rombo di una tempesta inquinante in una civiltà decadente. Immensa, sconquassata opera d'arte, specchio spettrale di una generazione schiava della materia caduca.
154 è tutto ciò che sarà poi il dark morbido dei Cure di "17 Seconds" o il noise-pop dei Sonic Youth di "Dirty" e "Washing Machine". Ma è anche ciò che sono state prima alcune trovate elettroniche dei Neu! e dei Kraftwerk o certi tappeti uniformi di Velvet Underground e Television. La formula resta quella di canzoni concise e scabre, ma cresce ancora l'armamentario strumentale, che si arricchisce di flauto, corno inglese e viola elettrica.
Un cupo giro di basso e una chitarra quasi reggae à-la Clash sospingono l'ouverture di "I Should Have Known Better", animoso atto di contrizione affidato al baritono di Lewis, protagonista anche in "The Other Window", dove una chitarra effettata e un drumming greve allestiscono un clima asfissiante (e il testo non è da meno, trattando di un viaggiatore che si sposta verso "un altro finestrino" per non assistere all'agonia di un cavallo rimasto impigliato nel filo spinato).
"A Touching Display" è già piena dark-wave, oscuro anfratto di chitarre arpeggiate e straziate in feedback, di tamburi tribali e declamazioni desolate. E il coro degli zombie di "Indirect Enquiries" precorre anni e anni di stregonerie gotiche.
Alle semplici, martellanti melodie di "The 15th", "Map.Ref.41 Degrees North 93 Degrees West" e "Blessed State", si contrappongono gli ostinati studi di "A Mutual Friend", con recitativo di Newman su tappeto psichedelico di organo e chitarra, o "Once Is Enough", dinamite rock avvolta in nubi di rumori e caligini industriali tra Pere Ubu e Throbbing Gristle. Sono brani di laico misticismo e di sensibili tensioni, schizoidi pièce da "day after" del rock. Il commiato di "40 Versions" lascia in dote una melodia, ma anche cospicue dosi d'inquietudine.
L'approccio medio alle composizioni è intellettuale, sussurrato, ironico e opprimente, ma va a completarsi in strutture formali quasi sempre lineari e "comprensibili". I Wire compiono il passo decisivo nel raggiungimento della perfezione lirica e strumentale, si affacciano sulle tenebre inebriandole con dolci fotoni di naturale "facilità". Difficile trovare una tale sequenza di canzoni irreprensibili, sotto tanti aspetti, che rendono il disco paradossalmente unico a tratti. E' cioè, una rappresentazione frenetica di elementi ripetuti a determinati intervalli, spezzati da trambusti di sporche recitazioni od ossessivi riff chitarristici e giri di basso.
Colin Newman assurge al rango di oratore della disperazione figlia della luce, di vate dei precetti programmatici di una corrente che conterà su proseliti quali Robert Smith, Thurston Moore e Steve Albini. La straordinaria versatilità dei musicisti e il "baccano" di generi fanno di 154 un registro contabile delle transazioni di vent'anni di musica, ponendolo nel mezzo di questo lasso temporale.
La diaspora
All'apice della creatività, però, la band entra in rotta di collisione con la Emi sulle strategie di promozione di 154. I Wire, lungimiranti anche in questo, vogliono puntare sull'aspetto visivo. "Vendere musica in televisione è impossibile, ci abbiamo provato", la secca replica della Emi. Il divorzio è alle porte. L'ultimo atto va in scena alla Electric Ballroom, nel febbraio 1980: Newman & C. suonano di fronte a un'orda di punk, ma spiazzano l'audience inscenando deliranti pantomime dadaiste, tra capre, stufe a gas e razzi gonfiabili. Il pubblico è inferocito e piovono bottiglie sul palco. Resterà l'ultimo concerto dei Wire per cinque anni e sarà immortalato su Document And Eyewitness (1981).
I quattro trovano provvisoriamente rifugio presso la Rough Trade, che nel mese di settembre pubblica il singolo "Our Swimmer/ Midnight Banhof Café". Ma a lacerarli sono anche le tensioni interne tra l'anima "pop" di Newman e il contingente "noise" (Gilbert e Lewis). Pur non sciogliendosi ufficialmente, quindi, la band si divide in questi due tronconi, con il leader che si mette in proprio e i due compari a portare avanti progetti paralleli e performance multimediali.

Un Lp da dodici tracce che si discosta con classe dalle peripezie del gruppo madre. Intriso di forti tinte di rivolta stilistica, l'album si fa apprezzare negli episodi più movimentati, in cui la voce di Newman dipinge episodi di mirabile new wave stizzita ("& Jury"), sempre contrassegnata da un'ombra tenebrosa che veleggia sopra le strutture gracili e sorrette sovente da pochi elementi.
La voglia di esporre anime represse si fa strada nei frangenti in cui l'oscurità prende piede ("I've Waited Ages", "Alone"), ed è proprio qui che le contrazioni ritmiche opposte a un stridio lontano sorprendono per fantasia e acume compositivo. L'inno a tratti sciamanico di "Order For Order" esalta con grande vigore, prima che si sprofondi in un'atmosfera plumbea e asfittica con "Image".
Il forte contrasto fra la sgangherata schizofrenia della parte centrale e certi episodi più azzardati dal punto di vista compositivo non stridono minimamente, così ben inseriti in un contesto di follia controllata. Risalta un vero gioiello, la splendida "Troiseme": avvolta da una membrana sognante, intrisa da timbri decisi, si discioglie in una miriade di linee melodiche, condotta poi alla fine da un flebile costrutto ritmico. Parte integrante di un corpo esile, sul finire di questo lampo che è A-Z, si piazza la lunga "Second To Last", con una coda strumentale a suggellare un momento di inimmaginabile bellezza. Forte di un inventario musicale molto vario, il disco si conclude in un baleno con le ultime tre tracce ("Inventory", "But No", "B") che scorrono via pungenti e immediate, in chiaro stile 154.
La ristampa del 1988 aggiungerà tre tracce edite nei singoli usciti negli anni e due inediti rimasti nel cassetto dalla presentazione dell'album, appunto nel 1980. La buffa e quasi comica "Classic Remains", insieme al piccolo bozzetto pianistico "Alone On Piano" sono estratti dal singolo "B" uscito nel 1980. Il beat metallico di "This Picture" seduce, fra nebbie e riverberi poco rassicuranti, estratto anch'esso da una pubblicazione datata 1981. I due inediti prima menzionati ("Not Me", "Don't Bring Reminders") si barcamenano con tatto tra territori post-punk al vetriolo e pop distorto.
Newman è ormai un guru, "un Barrett tecnologico, la cui pazzia è ora prigioniera delle macchine e di un'alienazione ben più devastante e ben meno poetica", come sarà definito dalla stampa inglese.
Passato alla 4AD, Newman pubblica altri due album nello spazio di sei mesi. Provisionally Entitled The Singing Fish è un'unica suite strumentale in dodici parti, e si presenta come un chiaro omaggio all'ambient-music di Eno. Interamente composto e suonato da Newman, il disco si segnala soprattutto per gli scampoli di psichedelia barrettiana in "Fish 1", il rockabilly androide di "Fish 5" e le spezie orientali di "Fish 7".
Not To, invece, recupera il formato-band: torna Gotobed al drumming, mentre Simmons sostituisce Thorne agli arrangiamenti. Ne nasce un pot-pourri più confuso, ma non privo d'interesse, dove reiterati loop di chitarra si intrecciano con le cupe linee di basso e con i vocalizzi riverberati di Newman. Alcune tracce sono rivisitazioni di outtake dei Wire del 1980 ("Safe", "We Meet Under Tables", "You, Me and Happy"), fuori fuoco la cover della beatlesiana "Blue Jay Way", più suggestiva la strumentale "Indians", dove compare anche Bruce Gilbert.
Nel frattempo, Newman produce il capolavoro dei Virgin Prunes "...If I Die, I Die" (1982), scrive "Not Me" per i This Mortal Coil di "It'll End In Tears" e torna in cabina di regia per "Raging Souls" dei Minimal Compact, la cui cantante, Malka Spigel, diverrà sua moglie.
Sull'altro fronte, Gilbert e Lewis portano alle estreme conseguenze le intuizioni sperimentali dei Wire, ricercando nuove contaminazioni tra musica industriale ed elettronica. Sia i loro lavori solisti, sia quelli a nome Dome si propongono di riportare in auge i paesaggi amorfi e rarefatti di Eno, esplorando le nuove ricerche su suoni sintetizzati e tecniche di registrazione.
I Dome, in particolare, abbandonano il formato-canzone in favore di un groviglio di rumori meccanici, musique concrète e beat anemici, in cui restano solo esigui frammenti melodici manipolati in studio.
3R4 è una sorta di lunga suite ambientale in quattro parti, sul modello della drone-music, Dome è un'avanguardistica sinfonia per rumori e strumenti processati, che sarà sostanzialmente replicata l'anno dopo nel successivo capitolo Dome 2 (1981), mentre Dome 3 (1981) infiltra stille di psichedelia, scorie noise e sprazzi di drumming tribale.
L'atto finale, Will You Speak To This World: Dome 4 (1983), è una nuova zuppa di droni ambientali, che combina il minimalismo dei primi lavori con le sfumature etniche del terzo capitolo. Ne scaturisce una sorta di concept progressive, quantomeno singolare per dei punkster della prim'ora. La prima facciata è interamente occupata dalla suite "To Speak": dopo un avvio suggellato dai violini arabeggianti e da un sax atonale, interviene una chitarra acustica, sostenuta da un drone di batteria tribale, fino allo sfilacciamento del suono in tessiture che sfociano in un'elettronica aliena. Il secondo lato presenta invece sei tracce che alternano ritmi di batteria e rumori assortiti, generati da una congerie di strumenti.
I 71 minuti di 8 Time assemblano il contenuto di 3R4 con due singoli realizzati a nome Cupol.
Le ambizioni dei due si spingono fino ai progetti sperimentali di Mzui/Waterloo Gallery, l'album realizzato con l'artista Russell Mills che studia le relazioni tra suono e ambiente, e raccoglie rumori occasionali registrati in una galleria d'arte londinese.
Il progetto Duet Emmo, invece, è frutto di una collaborazione con Daniel Miller, capo della Mute Records, (il nome è l'anagramma di "Dome" e "Mute"). Il suo unico lascito resterà Or So It Seems, che oscilla tra collage elettronici atonali e pulsazioni synth-funk di scuola D.A.F.
Lewis si dedica anche al progetto audiovisivo He Said al fianco del produttore John Fryer, in bilico tra ambient-music e vocalizzi eterei. Ne scaturiscono due album, Hail (1985, con Brian Eno "guest star"), e Take Care (1988, con la sorpresa rap di "A.B.C. Dicks Love").
Gilbert, invece, sforna una serie di album solisti, alternando sperimentazione tecnologica e musica per balletti. This Way è una composizione per il coreografo Michael Clarke (già al fianco di Fall e New Order), forte della suite in tre parti "Do You Me? I Did", aritmica e dissonante, accompagnata da altri due brani elettronici che fluttuano fuori sincrono.
Più vicino all'approccio-Dome è The Shivering Man, raccolta di frammenti sonori prevalentemente strumentali, alcuni dei quali commissionati dall'artista Angela Conway, ballerina dell'Opera di Parigi, nonché cantante per He Said e A.C. Marias.
This Way To The Shivering Man è una compilation che racchiude circa la metà delle tracce dei primi due album di Gilbert, mentre Insiding contiene due pièce per i balletti del coreografo Ashley Page.
In repertorio, anche un album a nome P'O (Whilst Climbing Thieves Vie For Position).
Robert Gotobed, infine, oltre alle sue partecipazioni ai dischi di Newman, suona con i Fad Gadget su "Incontinent" (1981), componendo anche il brano "Manual Dexterity".
Dugga time: il ritorno

Edito dalla Mute, Snakedrill sfodera un nuovo sound, che fa ampio ricorso al sampling e a un ritmo para-funk ribattezzato dalla band "dugga". Ne è un saggio devastante il singolo "Drill", che sarà poi riproposto dai Wire in nove versioni diverse nel monotematico The Drill del 1991 e verrà reinterpretato da una pletora di artisti-fan nel bizzarro disco-tributo "Dugga Dugga Dugga".
I tempi sono maturi per un nuovo album. The Ideal Copy (Mute, 1987) esce ad aprile del 1987. A dispetto del titolo che allude alla copia del Dna, il suono di questi Wire è davvero poco cerebrale rispetto alla trilogia iniziale, di cui non resta che il gusto per la ricerca del ritmo (qui molto meno spigoloso e più ballabile). I nuovi Wire si adeguano alla moda e si rilanciano con un suono da discoteca, patinato, con la voce di Newman vellutatissima e suadente à-la Dave Gahan.
La ricercatezza non manca ("Point Of Collapse" è new wave di gran classe, il singolo "Ahead" è una hit estremamente trascinante), ma presto il disco mostra segni di stanchezza, tra synth-pop senza mordente ("Madman's Honey", "Still Shows") e rievocazioni dei momenti più avanguardisti di 154 ("Feed Me"). Fortuna che a sollevare il livello medio provvedono due validissimi pezzi: "Ambitious" - tutta giocata sulla ripetitività - e "Cheeking Tongues", con una melodia solida e inserti di elettronica.
The Ideal Copy inaugura una svolta forse necessaria per il loro percorso, aggiornando il suono ai tempi di allora (una new wave danzereccia, piena di elettronica e con atmosfere futuristiche), ma di sicuro per nulla rilevante in senso assoluto, specie in confronto ai fasti della trilogia iniziale.
Un anno dopo esce il singolo "Kidney Bingos", all'insegna di un pop ilare e scanzonato, a far da traino al nuovo album A Bell Is A Cup Until It Is Struck. Nonostante testi cervellotici da stream-of-consciousness e una produzione che tende a sottolineare le atmosfere a scapito delle melodie, il disco è soprattutto un nuovo saggio delle capacità pop del combo, qui enfatizzate da strati di chitarre più soffici, trattate ed espanse in flussi sonori puntellati dal basso martellante di Gilbert e dal drumming ormai quasi dance di Gotobed.
Ecco allora sbocciare ritornelli ariosi ("Silk Skin Paws", "Come Back In Two Halves"), vignette psichedeliche ("The Finest Drops"), esercizi di decostruzione pop ("Follow The Locust"), ma anche nuove litanie depresse, come "A Public Place" e "The King Of Ur And The Queen Of Um", che alludono alla decadenza culturale del Regno Unito.
Pur mancando dello spessore della magica trilogia iniziale, il disco conferma comunque il nuovo affiatamento raggiunto dal gruppo, anche rispetto all'opera precedente.
Non paghi di aver lasciato ai posteri uno dei live più sconcertanti di sempre, i Wire si concedono un ulteriore sfregio dei cliché degli album dal vivo con It's Beginning To & Back Again (1989), in cui le performance originali vengono smontate e ricostruite in studio mediante le più avanzate tecnologie. Nel frattempo fanno uscire un altro singolo dance, "Eardrum Buzz", bissato pochi mesi dopo da "In Vivo".
Nel frattempo, quasi a voler rievocare una fase ormai irrimediabilmente tramontata, la Harvest pubblica l'antologia On Returning (1977-79), con brani dai tre capolavori degli esordi.
Ma il presente è la computer-music di Manscape (1990), ormai completamente sganciata dal post-punk degli anni d'oro e svuotata del fascino malato che aveva reso grande il gruppo. Beat sincopati, synth e riff di sequencer sono la portata principale, mentre Lewis si ritaglia uno spazio maggiore al canto. Pur sofisticati, brani come "Life In The Manscape", "Small Black Reptile" e "Torch It" non riescono a graffiare.
Gotobed non gradisce la svolta e lascia la band, sostituito malinconicamente da una drum-machine nel tour successivo, in cui i Wire si trasformano in un guitar-trio d'assalto, programmando anche le parti di basso.
Ricomincio da tre: i Wir
A suggellare il nuovo assetto del gruppo, giunge l'elisione della "e" finale e la trasformazione in "Wir", così "spiegata" da Lewis: "Eravamo ormai una nuova entità, nel senso che eravamo rimasti in tre a preoccuparci del progetto. Altre parti dovevano essere generate, avevamo bisogno di reinventarci costantemente".
E in effetti The First Letter (1991) svela se non altro un soprassalto d'inventiva. I tre riversano le loro chitarre nel sistema Midi, creando loop digitali strutturati come canzoni. Le parti vocali sono ormai relegate sullo sfondo, in favore di soundscape sintetici lambiccati ("Take It", "So And Slow It Goes", "Ticking Mouth") che non faranno presa sul pubblico, ma quantomeno aiuteranno Newman a sviluppare una nuova carriera alla guida di una etichetta techno, la Swim (con artisti come Ronnie & Clyde, Lobe, dol-lop, Pablo's Eye).
Così, mentre il gruppo si affievolisce, tornano in primo piano i progetti solisti e paralleli.
Newman, in realtà, non ha mai interrotto la sua attività in proprio. Nella seconda metà degli Ottanta ha dato alle stampe Commercial Suicide (1986) e It Seems (1988), mostrando il suo lato più romantico e decadente, con una serie di raffinati acquerelli à-la Japan, impreziositi da inediti timbri elettronici e da interventi vocali della moglie Malka Spiegel, ritmici di Gotobed, e fiatistici di Luc Van Lieshout (Tuxedomoon) e Marc Hollander.
Seguono le produzioni a nome Oracle e Immersion, l'Ep Voice e l'album Bastard, sempre strumentale, dove però riaffiorano linee melodiche e pattern chitarristici, e le pulsazioni techno degli ultimi Wire si fondono con un'elettronica più soffusa e atmosferica ("May", "Spaced In"), tangente quasi il trip-hop ("The Orange House").
Gilbert e Lewis rinnovano il sodalizio Dome con Yclept (1999), dove ai ritmi industrial di "Virtual Sweden" si affiancano il possente loop di basso condito da rumorismi vocali di "Vertical Seeding" e i loop noisy di "Virtuous Speed", oltre ad alcune rarirà storiche della band. 8 Time, invece, contiene materiale registrato da altri side-project dei due (Cupol, 3R4, P'O).
Lewis conia le nuove sigle elettroniche HALO e Ocsid, e si unisce al duo d'avanguardia svedese degli Omala nel progetto elettronico He Said Omala in Catch Supposes (1997).
Gilbert, invece, alternerà la sua attività di dee-jay nei club londinesi, con una serie di opere dai contenuti più disparati, dalla dance di Music For Fruit al monolite di Ab Ovo, dalle sessioni di Ordier, incise nel 1996 e pubblicate otto anni dopo, alle pièce ambient di Orr, frutto del sodalizio con Robert Hampson e Paul Kendall. Tra le opere "minori", un mini-cd rumorista (The Haring) e un lungo tema strumentale su In Esse (1998).
Nel 1995 il nome dei Wire torna alla ribalta quando le Elastica usano un sample di "Three Girl Rhumba" per la loro hit "Connection".
E a dimostrazione della loro vastissima influenza sulla generazione successiva, c'è il disco tributo dall'esplicito titolo Whore - Various Artists Play Wire, pubblicato nel 1999, a cui partecipa un cast d'eccezione di band alternative. Oltre ai più ovvi (Mike Watt, che già li ha più volte tributati nei suoi concerti), troviamo nomi di punta dello shoegaze (My Bloody Valentine, Lush) fino a sorprese vere e proprie (i Main con una fantastica "Used To" in chiusura, Lee Ranaldo con una "Fragile" accelerata, per non citare i Godflesh!).
Le cover equivalgono raramente gli originali in termini di qualità (i Bark Psychosis, ad esempio deludono, rovinando la strepitosa "Three Girl Rhumba"), ma in ognuna si può notare come la lezione dei Wire sia stata appresa da gruppi di ogni scena, siano i Fudge Tunnel o i Band Of Susans. A questo tributo va affiancato il più recente A Houseguest's Wish: Translations Of Wire's "Outdoor Miner", in cui diverse formazioni reinterpretano la stessa canzone ("Outdoor Miner", per l'appunto), nonché tutte le cover dei Wire realizzate dagli artisti più disparati (negli anni 80 i Big Black ripresero "Heartbeat", i Rem "Strange"...).
Il fuoco del Duemila

In tempo di dilagante revival wave, i Wire vanno a riprendersi lo spazio che appartiene loro, facendo mangiare la polvere a tanti giovani e arroganti emuli.
I due Ep (2002) sono cristallini e inscalfibili mattoni di punk sposato con l'elettronica, persino stupefacenti per la chiarezza di intenti e scelte musicali. Tornano i pattern minimali che li hanno resi celebri, gli sciami chitarristici di Gilbert ("The Agfers of Kodack"), ma certi maelstrom ("I Don't Understand", "Comet") strizzano l'occhio anche al rock duro contemporaneo di band come Ministry e Nine Inch Nails.
A celebrare ufficialmente la resurrezione è Send (Pinkflag, 2003), che raccoglie molti brani presenti nei due Ep, più quattro inediti. La prima novità, dopo l'iniziale "In The Art Of Stopping" (tre-accordi-tre al fulmicotone), che apriva già il primo "Read And Burn", è "Mr Marx's Table", un gioiello di tensione che si accumula via via, con un ritmo serrato e un'atmosfera che ricorda in parte l'alienazione di 154. E' la cifra stilistica che accompagna tutto l'album. "Comet", "Nice Streets Above" e "Spent" sono inesorabili esempi di cyber-punk che sconfinano in territorio Ministry. Le chitarre sparano riff ipersaturati, il ritmo è secco, marziale, spesso lanciato a tutta velocità, condito da un'elettronica che si esprime tramite una mistura di droni, vapori industriali e atmosfere plumbee. Le voci di Newman e Gilbert si alternano, con esiti che sfociano spesso in frasi secche e rabbiose, filtrate ed elaborate in maniera da fondersi nel muro sonoro.
Chiude l'album la splendida "99.9", che inizia in maniera cupa e minacciosa con un sordo pulsare di basso e synth, scalfito da echi di distorsioni e droni elettronici, ma si dispiega con un accumularsi di rabbia vocale e musicale intensissima.
I Wire non fanno sconti a se stessi e si rimettono in gioco in maniera onesta e coraggiosa, in pratica ripartendo come attitudine dal loro esordio del 1977.
Newman intanto prosegue la sua frenetica attività parallela, unendosi alla Spigel e a Robin Rimbaud (aka Scanner) nei Githead.
Nel 2007, Read & Burn 03 non aggiunge novità eclatanti, ma rappresenta bene lo stato dell'arte dei Wire, in costante evoluzione da ormai trent'anni.
Le quattro tracce dell'Ep si pongono esattamente a metà strada fra i pruriti elegant-punk di Pink Flag e gli estetismi dark di 154, senza le distorsioni e la rabbia che davano maggiore caratterizzazione ai precedenti due capitoli, ma con intatta raffinatezza e maniacale cura dei suoni.
La traccia iniziale "23 Years Too Late", di quasi dieci minuti, sembra voler provocatoriamente rinnegare il loro modus operandi. "Our Time" pecca forse di un eccesso di marzialità, tanto nella struttura musicale che nella cadenza della voce. La vera gemma è allora "Desert Diving": pare uno di quei brani costruiti per decollare e spaccare il mondo, ma Newman e soci non si smentiscono e di proposito rinunciano per l'ennesima volta a creare l'hit, lasciando la traccia deliberatamente senza quel finale in crescendo a tutto pathos che l'avrebbe fatta diventare un anthem.
Passa un anno, ed ecco un nuovo album, Object 47. Già dal titolo, i Wire sembra vogliano evidenziare la longevità del proprio percorso: è infatti il loro 47° lavoro. Priva del chitarrista Bruce Gilbert, la band confeziona uno degli album più solari e melodici della sua lunga discografia.
Il trip-hop centrifugo di "Hard Currency" evoca quasi dei Massive Attack in anfetamina. L'iniziale "One Of Us" è un'evidente dichiarazione di intenti, dove pennellate limpide vengono stese su una tela che sa tanto di reminescenze wave. "Perspex Icon" è un altro momento contagioso, con la voce di Colin Newman disposta a farci intravedere miraggi del glorioso passato. Newman come al solito si alterna al microfono con Graham Lewis, che è grande protagonista in "Four Long Years".
Non mancano anche momenti funk-oriented, come nel caso di "Mekon Headman" e "Are You Ready?". Più trascurabili "Patient Flees" e la circolare "Circumspect", mentre la conclusiva "All Fours" è un riuscito esempio di rock anthemico da stadio, basato su riff semplici ma di grande efficacia.
Lezioni di rock alle nuove generazioni
Nel 2011 è l'ora di un nuovo album, Red Barked Tree, nel quale la band si ripresenta fresca e nuova come non mai, con alcune caratteristiche peculiari ben consolidate, ma con un piglio da gruppo emergente che rende tutto estremamente contemporaneo.
Eleganti e ricercati, come nell'iniziale "Please Take", ritmicamente proteici, come nella successiva "Now Was", o malinconicamente power-rock come in "Adapt", che potrebbe assurgere al ruolo di nuovo inno ufficiale della band, i Wire si confermano gruppo di statura superiore. Le traiettorie musicali sono eterogenee: si passa dai granitici riff di "Two Minutes", una rasoiata rimasta ferma nei cassetti da quasi dieci anni, all'occasione mancata di "Clay", che ci implode fra le mani proprio quando poteva diventare un'apocalisse shoegaze, alle veloci rotondità di "A Flat Tent".
"Smash" giunge verso la fine e riesce nella complicata missione di permettere all'insieme il definitivo salto di qualità, conferendo all'album la giusta dose di orecchiabilità, senza mai scadere nella faciloneria da quattro soldi. Il finale è lasciato a due tracce più lente, e per questo il lavoro assume un tono più lirico rispetto alla media degli Wire. E se "Down To This", potrebbe risultare un po' tediosa, la title track chiude i giochi in maniera sublime, con il suo incedere psych-folk e le inaspettate chitarre acustiche.
I testi, modernisti e metropolitani, mai banali, ci parlano di cambiamenti climatici, fallimento dei mercati finanziari, cinismo, inadeguatezza dei mezzi di trasporto inglesi ("Bad Worn Thing" è quasi il resoconto di un difficile viaggio per le terre britanniche), disfunzioni urbane, disastri tecnologici. Visioni realistiche della società contemporanea calibrate con estrema attenzione.
Nel 2013 Newman, Lewis, Grey e Matthew Simms, che ha sostituito Gilbert, mettono mano a vecchie bozze risalenti a session del periodo 1979/1980, mai edite.
Quel materiale, opportunamente riregistrato, va a costituire le tredici tracce di Change Becomes Us. Raffrontati all’inarrivabile trilogia iniziale degli Wire, questi pezzi perdono drammaticamente il confronto con quei monumenti, e lo perdono anche con molte brillanti prove successive. Prendete ad esempio la chitarra da stadium rock di “Adore Your Island”, e notate quanto paia oggettivamente fuori contesto, nonostante venga inframezzata da incitamenti al pogo. Ma anche i languori di “Re-Invent Your Second Wheel” più che proporre nuove direzioni artistiche sembrano voler proclamare l’età pensionabile.
Va meglio con l’incedere punk di “Stealth Of A Stork”, un chiaro outtake di “Pink Flag”, oppure con gli spunti decadenti di “B/W Silence” e “Time Lock Fog”: entrambe avrebbero trovato appropriata collocazione fra le pieghe di 154 e non a caso vengono poste in sequenza a metà tracklist, quasi a volerne riconoscere la centralità in questa operazione.
Per il resto si viaggia fra alti e bassi, muovendosi fra soluzioni rotonde (“Magic Bullet”) e poco consistenti marzialità post-punk (“Eels Sang”), con qualche lacrimuccia che solca il viso, in ricordo di una gioventù ormai andata.
“Doubles & Trebles”, “Keep Exhaling”, le orecchiabili “Love Bends” e “As We Go” sono buoni pezzi, ma nulla di più, in grado di sottolineare soltanto l’incapacità di tornare a stupire davvero.
Piuttosto, l’accoppiata finale “& Much Besides” / “Attractive Space” è un egregio modo per terminare i giochi, miscelando leggerezza e drammaticità, e introdursi magari verso il prossimo progetto della band.
Ad aprile del 2015 esce il quattordicesimo album in studio, e la prima cosa che colpisce è la scelta di intitolare il disco con il nome del gruppo, soluzione che se da un lato può apparire banale per degli intellettuali conclamati, dall’altra sottolinea l’importanza che riveste questo album per il quartetto, come se si trattasse di una nuova partenza. La tracklist ha il pregio di far convivere in maniera del tutto naturale episodi brevi e orecchiabili come “In Manchester” con altri decisamente più compositi: la sontuosa conclusiva “Harpooned” supera gli otto minuti riversando in salsa psichedelica tutto il Wire sound, “Sleep-Walking” trasuda tensione in maniera palpabile, risultando a tratti persino angosciante (sì, questi signori sono ancora capaci di arrivare a tanto!). E se qualcuno potrebbe aver da ridire sull’eccessiva iper-produzione riservata a “Shifting” e “Burning Bridges”, in tanti sobbalzeranno sulla sedia al cospetto delle ritmiche serrate di “Joust & Jostle”, alle schitarrate smithsiane di “Octopus”, e al riuscito starting point affidato a “Blogging”.
Wire aspira a essere un progetto avente la finalità di mettere d’accordo tutte le generazioni di fan che si sono succedute nel tempo, anche se pretendere di ritrovare fra questi solchi le rivoluzioni punk di “Pink Flag” o il decadentismo new wave di 154 sarebbe pura follia.
Dodici mesi dopo il gruppo torna a sorprendere il suo pubblico pubblicando un nuovo progetto. Nocturnal Koreans (2016), con i suoi ventisei minuti di durata, può essere facilmente classificato come un mini-album, ma per il gruppo inglese queste otto creature tenute fuori dalle atmosfere concilianti di Wire, sono espressione di un situazionismo creativo che sfida le regole della progettualità.
Spigoloso, schietto, misterioso, Nocturnal Koreans è più affine alle stranianti torture elettroniche di Chair Missing e di 154 che non alle sontuose architetture pop che hanno nobilitato la loro produzione dalla resurrezione artistica di Send.
La band mette da parte l’enorme patrimonio melodico e gioca con riff esili, mai armonicamente completi, e li getta in un'orgia di suoni in cui la densità delle chitarre e delle tastiere è pari alla forza del ritmo e al groove quasi noir del basso.
Otto brani apparentemente inconciliabili e diversi, eppure tutti proiettati verso una musicalità più emancipata: lo stridente uptempo minimalista di “Numbered” e il possente vigore dei tre accordi di “Still” sono due facce di una stessa medaglia.
Gli Wire sono ridiscesi negli inferi per rubare al diavolo le sue canzoni più belle, e lo hanno fatto senza paura di sporcarsi le mani. Il pop-beat-twist in chiave elettronica della title track è una rilettura surreale delle loro ultime creazioni, un punto di approdo per i fan più giovani e una scossa emotiva per chi fu folgorato da Pink Flag.
Il tono epico e guerriero della krautiana “Internal Exile”, l’indolente dismissione stilistica di “Forward Position” e la luccicante grazia naif di “Dead Weight” spazzano via con un sol gesto anni e anni di tentativi d’imitazione, confermando che il ritorno targato 2015, più che un semplice attestato di buona salute, è una vera e propria dichiarazione di guerra alla mediocrità e alla routine.
La celebrazione dei quarant'anni di attività discografica viene sancita con nuovo album, corredato da una lussuosa edizione limitata. Silver/Lead può essere liquidato come il loro album più romantico e vellutato, ma questa chiave di lettura assume senso solo se riferita a quell’insolita e inattesa vibrazione emozionale che permea l’intensa performance vocale di Colin Newman in “Forever & A Day”.
I Wire hanno in verità solo modificato la loro attenzione al dettaglio, sviluppando quelle variazioni micro-tonali che spesso separano la malinconia dalla noia.
La quarta decade della storia del gruppo inglese non poteva essere inaugurata in maniera migliore, l’energica “Short Elevated Period” e il synth-pop di “Diamonds In Cups” sono tra le canzoni migliori scritte dai tempi di 154, ed è proprio in questa dimensione proto-pop la nuova identità stilistica della band.
La consapevolezza e la padronanza sono parte fondamentale della filosofia lirica di Silver/Lead, un album forse privo di sorprese, apparentemente innocuo e indolente.
Viene da chiedersi:quante band neo-psichedeliche bramerebbero aprire un loro album con la stessa genialità dell’introduttiva “Playing Harp For The Fishes” e quanti gruppi pop venderebbero l’anima al diavolo per canzoni come “An Alibi” e “Sonic Lens” (peraltro i due episodi più “deboli” del disco)?
Contributi di Alessandro Biancalana ("A-Z"), Alessandro Nalon ("The Ideal Copy", "Whore - Various Artists Play Wire"), Angelo Franzese ("154"), Paolo Sforza ("Send"), Claudio Lancia ("Read & Burn 3", "Object 47", "Red Barked Tree", "Change Becomes Us", "Wire"), Gianfranco Marmoro ("Nocturnal Koreans", "Silver/Lead", "Mind Hive")
Bibliografia:
Simon Reynolds - Post-punk 1978-1984 (Isbn)
Ira Robbins - Trouser Press