È il 1979: nella discografia degli Wire si compie il trapasso dallo "schema" punk a un suono altresì frastornato e decadente, ma con impensabili aperture d'avanguardia pop. Già all'indomani dell'uscita di quel "Pink Flag" nel 1977, i critici avveduti notarono che del movimento punk medesimo il gruppo conservava solo la ritmica nervosa e petulante insieme al classico diluvio di brevi canzoni (21). Il resto osava prendere decise distanze dal filone, e l'aura sonora mostrava inconsuete digressioni verso territori inesplorati. Fu così che l'anno successivo il materiale divenne ancor più "ibrido" e non identificabile a pieno grazie a "Chairs Missing", un disco di transizione, con pillole di sperimentazione anche più ardita a sostegno di una pur sempre evidente intelaiatura monolitica, tipica del periodo. L'album lasciava spazio alla meditazione, alla silente elaborazione cioè, dei dettami completamente rivoluzionari "ostentati" nel successivo "154". Opera, questa, che "sfigura" il punk-rock trainandolo ai limiti della psichedelia industriale, opera in cui riecheggia il rombo di una tempesta inquinante in una civiltà decadente; immensa, sconquassata opera d'arte, specchio spettrale di una generazione schiava della materia caduca.
"154" è tutto ciò che sarà poi il dark morbido dei Cure di "Seventeen Seconds" o il noise-pop dei Sonic Youth di "Dirty" e "Washing Machine". Ma è anche ciò che sono state prima alcune trovate elettroniche dei Neu! e dei Kraftwerk o certi tappeti uniformi di Velvet Underground e Television. Alle semplici, martellanti melodie di "The 15th", "Map. Ref. 41 Degrees North 93 Degrees West" e "On Returning" si contrappongono gli ostinati studi di "A Mutual Friend" o "Once Is Enough", brani di laico misticismo e di sensibili tensioni.
L'approccio medio alle composizioni è intellettuale, sussurrato, ironico e opprimente, ma va a completarsi in strutture formali quasi sempre lineari e "comprensibili". "Two People In A Room" si srotola in un segmento, piazzando un rullante a scandire i ritmi di un pezzo hardcore, ma ricalca fedelmente ciò di cui prima: è un emblematico punto d'equilibrio tra forma e sostanza, è punk non punk che la voce di Colin Newman sposta nell'oltretomba. "Blessed State", sullo stesso filone, sembra uscita dal lato c di "Tommy", ferme restando le timbriche addirittura glam del canto.
Gli Wire compiono così il passo decisivo nel raggiungimento della perfezione lirica e strumentale, si affacciano sulle tenebre inebriandole con dolci fotoni di naturale "facilità". Difficile trovare una tale sequenza di canzoni irreprensibili, sotto tanti aspetti, che rendono il disco paradossalmente unico a tratti. È cioè una rappresentazione frenetica di elementi ripetuti a determinati intervalli, spezzati da trambusti di sporche recitazioni od ossessivi riff chitarristici e giri di basso.
Colin Newman assurge al rango di oratore della disperazione figlia della luce, di vate dei precetti programmatici di una corrente che conterà su proseliti quali Robert Smith, Thurston Moore e Steve Albini. La straordinaria versatilità dei musicisti e il "baccano" di generi fanno di "154" un registro contabile delle transazioni di vent'anni di musica, ponendolo nel mezzo di questo lasso temporale.
Consigliate le ristampe in Cd pubblicate fra il 1987 e il 2005, perché contengono altre piccole grandi delizie che paiono incastonarsi perfettamente nel mosaico del disco. "Song 1" è un pezzo freak, degno del Frank Zappa colto-demente dei tempi del Synclavier. Ma ancor più "spaziale" è la successiva stasi piano-flautistica di "Get Down (Parts I + II)", incredibile panoramica su atmosfere che evocano onde di risacca, di certo un sottile, tacito richiamo alle immaginazioni di Pere Ubu e Throbbing Gristle. "Let's Panic Later" e "Small Electric Piece", con il tiro rivolto alla quiete della fine, reciterebbero benissimo la parte di una vera, amara scena conclusiva.
14/11/2006