"Read & Burn" è un progetto giunto al terzo capitolo (i primi due risalgono ad inizio decennio) che segnala il ritorno sulle scene di una delle band più influenti di tutti i tempi. Si tratta di quattro tracce che dovrebbero preludere a un nuovo album previsto per i prossimi mesi, il primo da quattro anni a questa parte (l’ultimo fu l’onestissimo "Send", targato 2003).
I Wire rappresentano un piccolo miracolo: emersi nell’indimenticabile ’77, diedero vita a tre dischi ("Pink Flag", "Chairs Missing" e "154") considerati unanimemente un must del periodo punk/post punk; oggi restano fra i pochi superstiti di uno degli ultimi periodi realmente creativi della musica rock.
L’amicizia con Brian Eno, la provenienza dal mondo accademico delle belle arti, gli show astrattisti e iper-sperimentali, sovente ai limiti del dadaismo, la ricerca dell’eleganza e dell’estetismo a tutti i costi, il processo di eliminazione di tutto ciò che fosse musicalmente inutile in fase di composizione: questi furono i tratti salienti di una proposta assolutamente unica e originale, alla quale stuoli di musicisti si sono ispirati per anni. Una band che fece della coerenza la propria ragione d’essere, una coerenza che divenne la propria arma principale, ed allo stesso tempo la ragione della mancata affermazione oltre i circuiti di nicchia.
"Read & Burn" non aggiunge nulla a un percorso stilistico che vede ovviamente posizionarsi altrove le vette più imponenti; rappresenta comunque lo stato dell’arte dei Wire, oggi all’interno di un percorso in costante evoluzione e sempre assolutamente interessante.
Attendiamo chi sarà pronto ad obiettare quanto "23 Years Too Late", la traccia iniziale, sia inutilmente lunga (e per dei sostenitori ad oltranza del minimalismo i quasi dieci minuti sembrano voler rinnegare un modus operandi), ci aspettiamo che qualcuno evidenzi come "Our Time" si ponga in maniera pedante, con quell’eccesso di marzialità tanto nella struttura musicale che nella cadenza della voce; in realtà "Read & Burn" sottolinea la presenza e la vitalità della band anche nel Ventunesimo secolo, nonché il coraggio di voler esistere per piacere non necessariamente a tutti, senza inutili strombazzamenti mediatici.
Le quattro tracce dell’Ep si pongono esattamente a metà strada fra i pruriti elegant-punk di "Pink Flag" e gli estetismi dark di "154", senza le distorsioni e la rabbia che davano maggiore caratterizzazione ai precedenti due capitoli, ma con intatta raffinatezza e maniacale cura dei suoni.
Magari band come Interpol o Editors oggi riescono ad attualizzare meglio per il grande pubblico i suoni di derivazione new wave, e riescono a farlo con un’immagine più forte ed energica, maggiormente in grado di bucare gli schermi.
Ma qui siamo al cospetto della leggenda e non è possibile negare tutti gli elogi del mondo a un quartetto che da trent’anni (pur con gli inevitabili periodi di assenza dalle scene) ci regala emozioni indicibili, dando a chiunque lezioni di modernariato.
Spendiamo anche un piccolo applauso per "Desert Diving", uno di quei brani che sembrano costruiti per decollare e per spaccare il mondo, ma Newman e soci non si smentiscono e di proposito rinunciano per l’ennesima volta a creare l’hit, lasciando la traccia deliberatamente senza quel finale in crescendo a tutto pathos che l’avrebbe fatta diventare un anthem generazionale.
I Wire son fatti così, prendere o lasciare, coerenti sino alla morte, e come al solito riusciremo a comprenderli pienamente solo a distanza di anni luce, quando loro saranno già altrove, molto molto più avanti.
13/12/2007