Interpol

Interpol

L'onda lunga di New York

Mentre tanti compagni d'avventura si limitavano al copia-incolla dei maestri wave targati Ottanta, i newyorkesi Interpol riuscivano a ricreare maestose atmosfere, avvolte da chitarre tenebrose e da uno spleen decadente e malinconico. Retrospettiva su una delle band più amate e controverse degli ultimi vent'anni

di Alberto Asquini + AA. VV.

Paul Banks, Daniel Kessler, Carlos D., Sam Fogarino. In una parola, Interpol. Sono loro i più brillanti artefici del revival new wave che ha finito col dilagare - con alterne fortune - nella prima decade del Duemila. Emersi alla fine degli anni 90, nella solita New York preveggente, capace di intuire nuovi stili e tendenze, si sono presentati al grande pubblico come i degni eredi di quella tradizione musicale britannica di marca dark-wave che vedeva in gruppi come Joy Division, Cure, ma anche nella fucina di ballate pop degli Smiths, i suoi punti di forza. La band newyorkese fungerà da apripista a tutto un filone, che si rivelerà decisamente derivativo, ma non per questo disprezzabile, quantomeno nei suoi episodi migliori. Ma procediamo con ordine...

Il lato oscuro della Grande Mela

Tutto comincia durante gli anni dell'università, tra ideali autentici e rivoluzionari: volontà di cambiamento, amore per la musica e amicizia sono le molle decisive. Daniel Kessler e Greg Drudy, nella seconda metà degli anni 90,  sono compagni di università a New York, iniziano a frequentarsi e a coltivare l'idea di fondare un gruppo al quale si aggiungerà, da lì a poco, Carlos Dengler.
Il problema principale è la ricerca del cantante: alla fine, alla comitiva si aggrega il biondissimo Paul Banks. Ma questo primo embrione di band non si chiama ancora Interpol. "Las Armas", "The French Letters", "Cuddleworthy": queste le possibili denominazioni passate in rassegna. Poi Paul, ricordando come i compagni di scuola lo prendessero in giro sull'affinità del suo nome col termine "Interpol", propone quello che diverrà il monicker definitivo.

Suoni nero pece, lugubri, tutt'altro che razionali, romantici, fluttuanti. Ecco la prima formula firmata Interpol. Sin dai primi due Ep pubblicati, emerge la vena  decadente del quartetto. I problemi però non mancano. Greg Drudy, nel 2000, abbandona la band, al suo posto viene ingaggiato un potente batterista: Samuel Fogarino. La formazione definitiva annovera dunque Paul Banks (chitarra e voce), Daniel Kessler (chitarre), Carlos Dengler (basso e tastiere), Sam Fogarino (batterie). Con questa line-up, i waver newyorkesi iniziano a suonare in giro per l'America, fra cover e alcuni brani inediti dalle cadenze marcatamente eighties, finché la Matador decide di reclutarli fra le sue fila.
Iniziano così frenetiche prove e registazioni per quello che sarebbe stato il loro primo album.

Dark-wave a luci accese 

Dopo due anni passati in studio, gli Interpol pubblicano finalmente Turn On The Bright Lights. Ed è il botto.
Undici tracce. Cinquanta minuti. L'essenza del nuovo filone wave è tutta condensata qui. Chitarre che si intersecano, increspature, battiti furenti, mood melanconici, voce distaccata e immagini chiaroscurali e offuscate. Eccoli qui, gli Interpol.
Il riferimento più immediato restano i Joy Division, soprattutto per via del baritono cupo di Banks. Mentre però la musica degli inglesi di Manchester era scarna e spettrale, il suono degli Interpol è più stratificato e pieno, merito soprattutto della chitarra di Kessler, magistrale nella capacità di creare riff in grado di dare sempre il tono giusto al brano, cambiandolo più volte, con risultati a volte epici, a volte ipnotici, con strati di semplici accordi ed effetti, sulla falsariga dei Cure di "17 Seconds", ma anche dei Sonic Youth, degli shoegazer e dei raga dei Velvet Underground. La sezione ritmica, pulsante e potente, completa degnamente il lavoro.
L'iniziale "Untitled" è già da antologia del rock: le chitarre si stendono, sezione ritmica che si innesta e il gelo del synth a ricordare che i New Order non sono ancora morti. La voce di Banks, apatica e profonda, rifluisce fra le anse di Kessler, autentico genio delle corde. La magistrale aggressività di "Obstacle 1", accompagnata da un bellissimo video a cura di Floria Sigismondi, riporta con la mente agli Strokes, ma in una versione più tesa e nevrotica.
E se il romanticismo notturno della favolosa "NYC" trasporta idealmente l'ascoltatore tra gli infiniti viali di Central Park, a contemplare la luna e le stelle, i saliscendi di "PDA" costituiscono la perfetta fusione tra una voce fredda e quasi atonale e uno strato di chitarre, magmatiche e abrasive, assecondati dal battito veloce e costante della sezione ritmica. Sono brani la cui portata si riuscirà a cogliere ancora meglio negli anni a venire. Un pezzo come "Say Hello To The Angels", ad esempio, dovrebbe indurre i Franz Ferdinand a ringraziare i quattro newyorkesi a vita. La successiva "Hands Away" giunge proprio a metà disco e ne rappresenta il fulcro: un mantra illuminato da un fluire lisergico di chitarre che si dissolvono in un paio di accordi, con la voce sussurrata che si confonde in una trance quasi mistica.
Dopo l'enfasi romantica e nebbiosa, gli Interpol si rigettano a piene mani nei riff spinti, nelle ritmiche serrate. "Stella Was A Diver And She Was Always Down" è un tour de force di quasi sei minuti e mezzo, nei quali Banks traccia perfetti saliscendi. E se "Roland" vola alto, fra riverberi noise e tratti hard, le sfuriate di chitarre e una coda decisamente rumorosa disegnano l'essenza di "New". Il lato intimista, nostalgico, della New York autunnale e deserta, riappare nella magistrale e conclusiva "Leif Erikson": tono stranamente caldo di Banks, che ricorda in maniera impressionante il canto declamato di Jim Morrison, chitarre che accompagnano, batteria che s'ode appena. E' la degna conclusione di un album che non sarebbe azzardato definire capolavoro: certamente è il più importante tassello di quella riscoperta del wave-sound che di lì a poco spopolerà sulle due rive dell'Atlantico, ma anche uno dei dischi più significativi post-2000.

Gli Interpol si dimostrano capaci di sintetizzare riferimenti musicali magari anche palesi, ma con una personalità e una abilità nella manipolazione del suono e nella scrittura tali da trasmettere sensazioni ed emozioni profonde, sia tramite melodie nevrotiche o malinconiche, sia tramite il loro suono etereo, potente o ipnotico. E il tempo è dalla loro parte. In epoca di incipiente revival wave, si avverte la necessità di un gruppo dotato di un potenziale commerciale maggiore, tale da far arrivare a un pubblico più ampio questa specie di movimento che sta animando l’inizio decennio. Gli Interpol hanno tutti i requisiti giusti, anche se escono per un’etichetta indipendente e restano ancora confinati nel ristretto giro underground. Ma il successo è dietro l'angolo.
Dopo un tour trionfale, costellato da decine di date in tutto il mondo, il quartetto torna in studio per preparare il successore. L'attesa, però, darà frutti acerbi.

Scosse d'assestamento

A due anni di distanza dal big bang dell'esordio, gli Interpol ci riprovano con Antics (2004). E la prima sensazione è che qualcosa si sia perso per strada, anche se il nuovo album è meglio prodotto del precedente, ed è possibile ascoltarlo anche a fari accesi, per via di testi meno ermetici, volentieri riscaldati da impasti sonori più rassicuranti che potrebbero far davvero breccia anche fra il grosso del pubblico.
Il singolo apripista, "Slow Hands", seppure orecchiabile e accattivante, non regala particolari sussulti, con i suoi riff ruvidi, accompagnati da slanci più marcatamente rock. L'overture è affidata alla liturgica e cadenzata "No Exit": suono curato e il canto di Banks che appare ora più caldo e avvolgente. Ma è il basso di "Evil" ad aprire ufficialmente le danze, con le chitarre che si inerpicano grintose sulle solide strutture dettate dalle bacchette di Fogarino. La wave nuda e cruda, unita a vaghi e poco sorprendenti echi Echo & The Bunnymen, riemerge in "Take You On A Cruise". E' così una traccia come "Not Even Jail", col suo incedere pop, a regalare nuove emozioni, rivelandosi episodio di assoluto valore nella discografia del gruppo: Kessler dosa sempre con attenzione accordi e slanci, Fogarino scalda i piatti con dolcezza e Banks sussurra delicatamente, con il basso che ondeggia armonico.
La parentesi della sesta traccia, così come quella della settima (con la sezione ritmica prepotente), cedono presto il posto alla delusione: sia "A Time To Be So Small" che "C'mere", infatti, paiono semplici riempitivi, atti ad assolvere il compitino di turno. Discorso diverso merita invece l'epica "Lenght Of Love": ancora le chitarre prepotenti a prorompere sulla scena, regalando note ruvide a piene mani.

Cadenze stabilite, ritmi geometrici, razionalità. Pare essere questa l'essenza di Antics. Una formula che svilisce parzialmente il brillante eclettismo di Turn On The Bright Lights. Il gioco pare troppo spesso piatto, autoreferenziale e monocorde.
Un lavoro essenzialmente di maniera, dunque, lontano dai magici riverberi dell'esordio, e che tuttavia conferma la solidità e l'affiatamento raggiunto dal gruppo, regalando anche più di un saggio di bravura. Dal buio disperato di Turn On The Bright Lights, Banks e compagni ci conducono alla struggente e melanconica penombra di Antics, perdendo qualche colpo, ma lasciando intravedere ancora un potenziale di tutto rispetto.

Ricomincio da tre

A tre anni di distanza da Antics, gli Interpol tornano in studio per incidere il loro terzo lavoro sulla lunga distanza, Our Love To Admire.
Rilancio o appiattimento sugli standard ormai consolidati? La notizia del passaggio della band sotto l'egida di una major faceva temere il peggio. E il precedente dei Sigur Rós di "Takk" non appariva certo incoraggiante in tal senso. Tuttavia, almeno la prova del rinnovamento è superata. Il nuovo disco, infatti, si differenzia in maniera sostanziale dal predecessore.
Niente svolta radicale nella carriera del gruppo, comunque. Piuttosto, Our Love To Admire pare un chiaro omaggio degli Interpol alla loro indimenticabile opera prima. Gli standard pop-rock-wave di Antics, infatti, vengono parzialmente messi da parte. Banks e compagnia tolgono la polvere alle tastiere, i bassi e le chitarre paiono nuovamente luccicare. Il mood piuttosto monocorde, anche se mai noioso, della seconda prova viene qui accantonato, per dar vita a tracce piuttosto differenti le une dalle altre, con qualche caduta di stile, anche piuttosto vistosa, ma con la volontà di uscire dall'impasse usando le armi dell'eterogeneità e del dinamismo. Una sfida da considerarsi superata solo parzialmente, con un "rimandati al prossimo".
"Pioneer To The Falls", minimale e malinconica, si propone in avvio come una delle tracce più azzeccate. Un Banks quasi atonale,  accompagnato da chitarre mai invadenti e da un Fogarino (ancora) sugli scudi, adombra atmosfere fumose degne dei migliori Joy Division, chiudendo la traccia con un magistrale incedere di batteria e tastiere, in un finale epico. E se "No I in Threesome" è la solita, classica canzone-Interpol, con un basso iniziale da brividi, "Scale", con quei riverberi noise degni dei primi U2, introduce al singolo "Heinrich Maneuver", che sfrutta la scia catchy e orecchiabile della "Slow Hands" del disco precedente (ad accompagnarlo, un video a dir poco orrido).
Lo scoglio delle prime tracce è dunque superato con disinvoltura, ma addentrarsi nella parte centrale del disco può riservare più di una delusione. Tanto "Mammoth" e "Pace Is the Trick" quanto "All Fired Up" appaiono prive di mordente, monocordi sin dall'attacco di chitarra, e si trascinano stancamente sino alla fine. Tutt'altro discorso va fatto per gli oltre cinque minuti di "Rest My Chemistry", segnata da un inizio spiazzante, quasi gothic, sul quale vanno a innestarsi le chitarre che crescono, imbastendo autentici wall of noise. Qui c'è l'essenza degli Interpol più rock, quelli più legati alle radici anni 80. E se la nona traccia, "Who Do You Think?", si rivela puro riempitivo, ecco che sia "Wrecking Ball" sia "Lighthouse" delineano scenari inediti per il quartetto. Un celestiale fluire di chitarre, la voce di un Banks disturbata, la chiusura lenta e cadenzata in un finale da camera e il mantra psichedelico dell'ultima traccia sono forse il manifesto di quello che gli Interpol potrebbero iniziare a essere, un possibile punto di svolta per un suono che, dopo cinque anni di successi, inizia un po' a mostrare la corda.
Un'altra prova sufficiente, dunque, eppure sospesa a mezz'aria, indefinita nel suo voler omaggiare il passato ammiccando a un futuro possibile.


Quadri foschi


A distanza di tre anni da Our Love To Admire, gli Interpol tornano a calcare le scene, con un album omonimo che segna nel contempo un passo avanti e uno indietro, o se preferite un atteggiamento decisamente più dark, che tuttavia cozza con un'ispirazione e una capacità di dare lustro alle canzoni sempre più affievolite.

Venuto meno dopo le registrazioni il contributo dello storico bassista Carlos D., rimpiazzato in sede live dall'onnipresente David Pajo, la band licenzia un disco che recupera lo spleen decadente dell'esordio, ma lo fa senza una costruzione precisa, graffiando poco nel complesso. Uno degli elementi che maggiormente salta all'orecchio è la voce di Banks, invecchiata, non più tonante e imperiosa. E i tagli di chitarre e la batteria di Fogarino marcano il disagio di una forma canzone che quasi mai arriva a toccare vette importanti, perdendosi in meandri un po' impalpabili.
Benché buoni episodi non manchino, non vi sono più climax verticali e impennate emozionali dalle quali lasciarsi trascinare. Non c'è una "Pda", una "Obstacle 1", né un riff davvero indimenticabile o un basso da incorniciare. Un'aura di anonimato permea i tre quarti d'ora del lavoro. Il mood cupo e risoluto si illumina in "Lights", ove emerge con forza uno spleen tiepido dall'incedere lento, che allunga la falcata come nei tempi migliori. Il secondo singolo scelto, "Barricade", sembra uscito dalle b-side di Antics, "Safe Without" e "Sucess", pur non malvage, viaggiano su binari già battuti senza davvero riuscire a coinvolgere.
"Summer Well" riesce a farsi canticchiare, con un azzeccato giro di basso e un bel lavoro al drumming, ma la vera sorpresa di questo "Interpol" è senza dubbio l'affascinante "Always Malaise (The Man I Am)": elegia declamata quasi in spoken word nel ritornello, archi in accompagnamento, basso febbrile, pianoforte a tratti e un effetto straniante complessivo. Gli scuri landscapes di "All Of The Ways", non prima del convincente incedere di "Try It On", aprono le porte alla conclusiva "The Undoing", che non riesce a eplodere, perdendosi in una magniloquenza fine a se stessa.
La sensazione generale è quella di una band che, sebbene riesca ancora a tirare fuori ottime canzoni, abbia l'acqua alla gola. L'album più scuro e introspettivo della sua carriera non fa altro che acuire la sensazione di una band che è riuscita a vivere di rendita rispetto allo sfavillante esordio, senza mai licenziare dischi veramente brutti, ma altresì senza riuscire più elevarsi al di sopra di una sufficienza o giù di lì.

Paul Banks aka Julian Plenti sin dal 1996 aveva iniziato a comporre delle brevi canzoni e a suonarle in alcuni club della sua città, ma solo dieci anni dopo, grazie all'acquisto di un software per comporre musica, il Logic Pro, ha potuto avere un controllo creativo totale e concentrarsi così, nelle pause concesse dal gruppo madre, nella realizzazione di un disco solista. Solo nell'agosto del 2009, così, è stato dato alle stampe Julian Plenti Is... Skyscraper, prodotto dallo stesso artista con l'aiuto di Peter Katis, ingegnere del suono dei primi due album degli Interpol.
Rispetto al rock dark, veloce e ad effetto della band, l'esordio di Plenti predilige un folk-alt-post-rock, ottenuto con l'ausilio di più strumenti, soprattutto archi, e di un po' di synth Morse Code.
Saltano subito all'orecchio, i pezzi più simili a quelli degli Interpol: le nervose ed efficaci "Fun That We Have" e "Fly As You Might", e l'ottimo singolo "Games For Days", dove si sente la batteria potente e metronomica di Sam Fogarino, suo compagno nella band d'appartenenza. Le composizioni che si rivelano più avvincenti sono però "Only If You Run", che cattura con un suono di chitarre stratificato, "Skyscraper", una meravigliosa ballata acustica solo in apparenza innocua e ripetitiva, perché basa la melodia portante su un pugno di note e su un breve e ossessivo refrain, e la dolce ninna nanna di "On The Esplanade", abbreviata rispetto alla versione originale.
Plenti ottiene un risultato positivo anche con pezzi come la conclusiva e riflessiva "H", dal sapore orientaleggiante, e la danzereccia "Unwind", entrambe arricchite dal suono di una tromba, mentre vengono lasciati da parte viola e violino, presenti invece in quasi tutti gli altri brani.
Stupisce l'assenza finale all'interno del disco di canzoni inizialmente previste nella tracklist, come le lente e soavi "The Larynx That You Have" e "Cellophane", che sarebbero forse state più gradite rispetto alla sdolcinata e banale "Girl On The Sporting News".
In definitiva, non un'opera epocale, come si è potuto anche notare dall'accoglienza non proprio entusiasta di critica e pubblico, ma un disco comunque piacevole, che riesce a distaccarsi dall'esperienza degli Interpol.

Il ritorno alle origini

Poi arriva il 2014 e un singolo che lascia molti a bocca aperta. “All The Rage Back Home” è un misto di rabbia repressa e risputata fuori con violenza, un brano che pare riprendere lo stile unico del debutto, filtrandolo attraverso le esperienze positive (e non) che hanno contraddistinto gli Interpol nel corso di questi dodici anni. In molti gridano al miracolo, convinti di un prepotente ritorno da protagonisti eppure ancora una volta non manca chi non è per nulla convinto neanche di questa traccia apparentemente inattaccabile. El Pintor (anagramma di Interpol e titolo del disco) scorre via che è un piacere, attraverso i soliti echi di wave anni Settanta e post-punk. Nella prima parte, dall’opening e singolo già citato fino a “Same Town, New Story”, sono suggerite le stesse identiche atmosfere da big apple fumosa e disperata che avevano fatto la fortuna di Turn On The Bright Lights ed è qui che El Pintor finisce per farsi ammirare con più enfasi, calando poi nella parte centrale e tornando con insolenza nel finale (con "Tidal Wave", brano quasi pop-wave e forse unica vera variante stilistica dell’album e "Twice as Hard").
Paul Banks è in formissima e lo dimostra anche in brani più sommessi come la leggiadra “My Blue Supreme”, e lo stesso possiamo dire di Daniel Kessler, che con la sua chitarra dipinge dei riff cupi e potenti come non mai, e di Sam Fogarino, un vero caposcuola nel fabbricare ritmiche trascinanti.
Sotto l’aspetto lirico, Banks edifica nuovamente un immaginario fatto di romanticismo moderno e decadente, di trepidazioni talvolta malate e profonde, di storie che sfiorano la tragedia umana o emozioni gonfie d’una malinconia devastante. Temi d’un avvolgente calore naturale che in parte cozzano con la freddezza della musica.
Non è la fine e neanche un nuovo inizio ma solo un disco che merita qualche ascolto ma che non vi regalerà più di quello che potete immaginare. Gli Interpol hanno detto tutto quello che avevano da dire e ora stanno solo ribadendo con forza il concetto.

“The Rover”, primo singolo designato dagli Interpol per anticipare la loro sesta fatica, si dimostra però una scelta volutamente rivelatoria. Un riff di chitarra secco e sferzante, la sezione ritmica compressa, praticamente schiacciata dalla produzione di Dave Fridmann, e la voce tesa di Paul Banks presentavano una asciuttezza inedita per la band di Manhattan. Gli antipati successivi, “Number 10” e “If You Really Love Nothing”, quest’ultima una pop ballad cinica con la chitarra che si tuffa ripetutamente nel buio, spingevano meno ostinatamente in questa direzione, rimanendo però ben distanti dalle aperture ariose, talvolta epiche, cui gli Interpol  ci hanno abituati in ormai venti anni di carriera.
Anche la copertina del nuovo album Marauder (2018) è eloquente. Quell’uomo vestito di grigio, ritratto in una sala conferenze fredda e disadorna, è il procuratore generale Elliot Richardson, l’integerrimo funzionario che si oppose alle pressioni di Nixon durante lo scandalo elettorale. Un artwork del genere è una scelta che non solo traccia un agghiacciante paragone tra il clima politico odierno e il passato del Watergate, ma che dichiara forte indipendenza e decisione a procedere per la propria direzione – ostinata e contraria come si dice dalle nostre parti. In Marauder trovano infatti posto brani ostici, soffocanti, plumbei, spesso privi di veri e propri ritornelli, roba davvero difficile da immaginare nei vecchi dischi degli Interpol.
“Complications”, ad esempio, graffiata com’è da una chitarra ferrosa e decisa a non esplodere mai, è intenzionata ad accumulare tensione e non scaricarla. In “Stay In Touch”, che avanza ineluttabile sospinta da un basso borbottante e da un riff ispido, Banks nemmeno canta: ciancica tra sé e sé, ogni tanto sbotta e sale repentinamente di tono. Improvvisi interventi di chitarra dissonante rendono il brano ancora più inafferrabile e difficile. Certo, un paio di pezzi da cantare ai concerti non mancano. “Flight Of Fancy”, ad esempio, che con quel ritornello chiaro e scattante favorirà la ritenzione dei fan meno aperti alle novità, ma anche “Mountain Child”, un gran bel numero indie ricamato da Daniel Kessler con uno dei suoi riff più pimpanti degli ultimi tempi.
Peccato per qualche riempitivo – “Party’s Over” che non decolla come vorrebbe o lo stesso singolo “Number 10” - altrimenti invece che di un ottimo punto di ripartenza staremmo a parlare uno dei migliori dischi post-punk degli anni 10.

Ecco a nemmeno un anno di distanza da "Marauder" l'Ep "A Fine Mess". Ancora affiancati da Dave Fridmann e con l'aggiunta di Kaines & Tom A.D, i tre musicisti si chiudono in studio nei pressi dello stato di New York e incidono cinque inediti. Il senso di "casino" è ricreato fin da subito nell'artwork che accompagna l'opera: una serie di fotografie sviluppate da un vecchio rullino abbandonato in una stazione di polizia di Detroit in disuso. Ma se tale contesto visivo e il titolo possono suggerire un caos non proprio "fine", l'atmosfera generale dell'Ep è a tratti euforica: per quanto possano esserlo gli Interpol, sia chiaro. "Well, if the mood's right, there's some hype, some currency" e che sia una partner o un compagno di battaglia, Banks è chiaro fin dai primi battiti dell'opener "Fine Mess": "You and me make a fine mess". Musicalmente, troviamo la grezza potenza degli esordi più calibrata, con la voce inizialmente sgranata e impastata insieme al ruggito degli altri strumenti. Un mood sonoro e compositivo che lega questa e l'altra anteprima "The Weekend" nel solco di "Marauder" per freschezza e impatto. L'arrivo di un riff ben noto ai fan anticipa l'intensa "Real Life", pezzo già presentato negli ultimi show, la cui incisione rende altrettanto bene. Il trascinante intreccio di chitarra della movimentata "No Big Deal" ci accompagna "from the beach to the strip club", mentre spetta alla potente e tormentata "Thrones" chiudere degnamente le danze. Gli Interpol con "A Fine Mess" aggiungono ai positivi esiti di "Marauder" altre cinque tracce a conferma di un attuale stato di forma vitale e ispirato.

Vulnerabilità noir: The Other Side Of Make-Believe

Togliamoci subito il dente: il nuovo album degli Interpol è divisivo. C’è chi lo ama perché diverso da quanto ci si aspettava dai newyorchesi e chi, proprio per questo, lo trova indigesto, se non addirittura insulso. La verità è che The Other Side Of Make-Believe (2022) è un lavoro non immediato, che richiede all’ascoltatore un’attenzione costante e svariati ascolti per poter essere compreso. Solo allora sarà possibile coglierne la bellezza tra le crepe, piccole miniature solo in apparenza insignificanti su cui riversare attese, idee, speranze. Ma, più di ogni altra cosa, The Other Side Of Make-Believe è un lavoro imperfetto. Le melodie sono disadorne e spezzate, tant’è che alcuni brani sembra siano il frutto di ritagli e sforbiciate (“Greenwich” in modo particolare) e tutto è carico di uno spleen inestricabile. C’è un qualcosa di tragico nel modo in cui suona la voce di Paul Banks qui, nella rivendicazione orgogliosa della sua vulnerabilità. Ma quello che poteva essere un punto di forza diventa una debolezza a causa del mix, che vede gli strumenti troppo alti rispetto alle tracce vocali, il che rende l’ascolto a tratti caotico; su speaker, la voce grave del cantante sembra ridursi a un mugugno indistinto registrato nella stanza accanto. Un problema non indifferente per il pubblico non audiofilo.
Già con “Toni”, primo singolo rilasciato ad aprile, gli Interpol avevano dichiarato di voler giocare a carte scoperte: pianoforte, sezione ritmica in primo piano, cantato crepuscolare e una melodia spoglia in cui la forma canzone viene parzialmente destrutturata. Sicuramente più vicino al repertorio classico della band, invece, l’altro singolo “Fables”, che pure introduce qualche elemento di novità e si fregia di uno dei testi più belli e puri del lotto.  
Potrà sorprendere, ma il referente più evidente del disco sembra essere il jazz: lo si sente negli slapback delay presenti sia in chitarra che in batteria e nell’impostazione mid-tempo di gran parte dei brani. Non sorprende dunque che i pezzi che funzionano meglio siano proprio le ballate, da “Something Changed”, icastica rappresentazione della malinconia che non sfigurerebbe in un album dei National alla richiesta d’aiuto di “Passenger”, passando per l’incantevole “Into The Night” e lo sfolgorio noir di “Big Shot City”.
Tra i pezzi più dinamici, spicca “Gran Hotel”, che riesce nell’intento di portarci tra le strade di Cozumel insieme a Paul Banks - qua finalmente più energico -  e di infondere alla sua (e nostra) malinconia una nuova tenacia.
“Mr Credit”, con il riff rubato a “Rest My Chemistry”, sembra già essere uno dei brani più amati del disco, ma qua Kessler, pur se sempre impeccabile con i consueti riff staccati, mostra una ripetitività già presente in altri momenti del disco. Vicina alle sonorità di “Antics” e senza disdegnare echi dei Pixies, fa meglio l’ottima “Renegade Heards”. 

Su The Other Side Of Make-Believe si stagliano, per certi versi, le ombre del dimenticato self-title del 2010: esattamente come accadeva in Interpol, infatti, le canzoni si muovono orizzontalmente, non vanno alla ricerca di climax, di picchi emotivi e musicali vertiginosi. La loro costruzione incede per piccoli suggerimenti, tant’è che a tratti sembrano girare in tondo senza una meta precisa, pur se guidate da una pervicace armonia interiore lontana da didascalismi e stilemi consolidati. Eppure non si può non riconoscere ai newyorkesi il coraggio di uscire dal seminato e di essere ancora in grado di scrivere canzoni decadenti e sbilenche, fedeli a quel leitmotiv ripetuto fino alla spasimo in “Renegade Hearts” e soffocato in un guitar noodling assordante: “make escape art”.

Muzz è un super-trio formato dal leader degli Interpol alla voce e chitarra, il batterista dei Jonathan Fire Eater e annessa/successiva incarnazione The Walkmen Matt Barrick e il polistrumentista Josh Kaufman, sempre alle sei corde. A testimonianza della lunga frequentazione c'è un'imperdibile foto pubblicata sul profilo Twitter ufficiale della band, dove due poco più che adolescenti Banks e Kaufman pongono ironicamente le basi del progetto niente meno che nel 1994. Dopo aver incrociato brevemente le strade nei rispettivi percorsi, con i Muzz i tre amici e colleghi newyorkesi uniscono le forze per un lavoro impeccabile negli arrangiamenti e nella produzione, in cui si passa con padronanza di mezzi dall'art-rock al folk. Il gioco dei rimandi con gli altri progetti ha vita breve - soprattutto per chi voleva qualcosa di simil-Interpol - poiché i riferimenti dichiarati sono Leonard CohenNeil YoungRolling Stones e Bob Dylan. Si parte con "Bad Feeling": un'intro impreziosita dai caldi fiati finali intrecciati con la voce femminile, scelta anche come prima anticipazione dell'opera, e la seguente "Evergreen", entrambe dolenti e delicate. Con "Red Western Sky" il ritmo si fa più sostenuto e la voce e le liriche del cantante (scritte insieme agli altri due musicisti) dipingono ancora più nettamente lo scenario sentimentale su cui si muove l'opera. Alle trame di pianforte di "Broken Tambourine" segue la coinvolgente "Knuckleduster", una delle vette del lotto. Ulteriori passaggi degni di nota sono "Everything Like It Used To Be", bella, semplice ed efficace, e la sopracitata "How Many Days", dal bel drumming e dall'assolo distorto. Non spiccano altri particolari momenti durante l'ascolto di un disco ben fatto ma privo del mordente capace di catturare davvero l'ascoltatore. "Muzz" è un gradevole episodio da inserire nella costellazione discografica dei protagonisti, ma definirlo imprescindibile sarebbe troppo.


Contributi di Paolo Sforza, Marco Bercella, Paolo Agnoletto, Silvio Pizzica, Michele Corrado, Alessio Belli, Giulia Quaranta