Esplosi in piena epopea nu new wave, gli scozzesi Franz Ferdinand sono i nuovi principi del remake-remodel degli anni Duemila. Il nome fa riferimento proprio all'arciduca d'Austria il cui assassinio, avvenuto a Sarajevo il 28 giugno 1914, diede inizio alla Prima Guerra Mondiale. Curioso, certo, e volto a rimarcare l'insostituibilità weberiana degli accadimenti storici, l'importanza di singoli piccoli eventi che cambiano il corso di migliaia di esistenze. Ma è il Dna musicale a caratterizzare i Ferdinand come una delle realtà pop-rock più interessanti degli ultimi dieci anni: una ritmica essenziale, plastica e oliata, le chitarre scatenate e perfettamente domate, i cori armonizzati a dovere, un'alternanza sapiente di pause e progressioni impetuose; su tutto si staglia la regia del finto dandy Alex Kapranos, vocalist e compositore di rara precisione ed efficacia. Un cocktail che riesce colpire per la sua freschezza, al punto da far addirittura credere che i rifacimenti possano essere migliori dell’originale.
I membri dei Franz Ferdinand possono vantare già una discreta esperienza maturata nel corso dei 90's, in formazioni come The Karelia, Yummy Fur, 10p Invaders ed Embryo. Kapranos, in particolare, si ritaglia un ruolo da songwriter dopo la militanza negli Yummy Fur e incontra nel 2001 il chitarrista Nick McCarthy. Sono loro l'asse attorno al quale, a Glasgow, si formano i Franz Ferdinand (con Robert Hardy - voce, basso, e Paul Thomson - batteria).
Nel maggio 2003 la band firma per la Domino Records e verso la fine dello stesso anno pubblica il suo primo Ep, Darts Of Pleasure, che ottiene un buon riscontro, raggiungendo la 43ª posizione nella Uk Chart e vincendo il "Philip Hall Radar Award" al Nme Awards nel 2004.
E' tempo di omaggi e citazionismo spinto. Un'onda lunga che giunge dall'America (Strokes, Kills, Interpol) nel solco della wave d'annata, ma tenta anche di elaborarne mutazioni genetiche (come nel caso dei Rapture, che provano a mescolare i Gang Of Four e la nuova dance). Revival modaioli per molti, ma di sostanza per altri, con l’anima di Ian Curtis e il cuore di Tom Verlaine che prendono forma. E allora avanti con la schiera del neo-punk-funk, declinato in tutti i modi possibili. Le classifiche si muovono eccome e così l’inizio degli anni Zero trasmuta in un florilegio di prime pagine dedicate alla wave big thing di turno. La Gran Bretagna del binomio musica-immagine non può certo stare a guardare, e infatti fa le cose in grande. Allora i nomi storici in parte già segnalati dagli Interpol (Psychedelic Furs, Chameleons, Teardrop Explodes e Josef K i più gettonati) riacquistano voce grazie alle note degli Editors, dei Bloc Party, dei White Lies, mentre inclinazioni più prossime ai Clash, agli Stranglers e ai Fall d’annata si rivitalizzano attraverso Art Brut, Kaiser Chiefs, Maximo Park, Arctic Monkeys, in un vigoroso gioco di riferimenti incrociati.
I Franz Ferdinand colgono l'attimo. E non sprecano il colpo in canna del debutto.
Per Kapranos e soci è già pronta la prima etichetta (delle tante), ovvero "la risposta scozzese agli Interpol". Eppure gli scozzesi marcano già la distanza dai compari nu-waver coniugando la lezione di maestri wave come Fall e Talking Heads con un'irruenza presa in prestito dal garage-rock e dal glam. Tutte caratteristiche che tornano nell'album d'esordio, Franz Ferdinand (2004), nato in Svezia da una collaborazione con i produttori dei Cardigans. Un disco che nella sua esuberanza compositiva, nella sottile ironia perversa dei testi, nella postura a tratti sprezzante del tessuto sonoro, appare essere uno spartiacque dell'anno, giano bifronte che raccoglie il passato contestualizzandolo e aprendo la strada al futuro.
La storicità, già evidenziata dal nome scelto dalla band, resta un tratto dominante dell'album, attraversato, tuttavia, da una inafferrabile e quasi nietzscheana volontà di superamento, di abbattimento di ogni inutile nostalgia elegiaca in nome di un robusto sound che epicamente attraversa la storia musicale del secolo scorso superandola: i Sixties, rappresentati dalla roboanti chitarre di metallo, i Seventies dalle accentuazioni glam del ritmo (basso-batteria a unire le forze creando un effetto di magniloquenza e imponenza come il Bowie di "Low" e "Heroes"), gli Eighties dalle melanconiche tastiere così lontane eppur così vicine, i Nineties da certa stravaganza sboccata e naif che ricorda i Pavement più anarchici e irriverenti.
Eppure, insorge la sensazione di percepire qualcosa che va ben oltre tutto ciò, svelando dietro l'orecchiabilità più classicamente rock dei pezzi una complessità sonora ignota ad altre formazioni a cui il quartetto potrebbe essere paragonato (Strokes, Kills) e figlia della migliore tradizione albionica: Smiths, Bauhaus, Clash, oltre a certe deliziose intrusioni elettroniche di matrice dance. Il tutto al servizio di una party-music irresistibile, di cui è paradigma ideale il fortunatissimo singolo "Take Me Out", ad esempio, è una vorticosa progressione, che parte piano e decolla con un travolgente ritmo disco in levare e con un refrain appiccicosissimo.
I testi poi, danzanti sulla musica come se attraversati da un'ineluttabilità fatale ("devono stare lì e non altrimenti"), si legano tra loro attorno al tema portante della follia creativa generata dall'amore nelle sue più sataniche e brumose forme, così da ricordare tanto le trasgressioni perverse di Mick Jagger quanto i dirupi dell'animo del primo Nick Cave: ascoltare per credere le discese agli inferi di "Matinee" e "This Fire", scandite da un ritmo impetuoso e da chitarre, al solito, implacabili.
Ci scontriamo con la potenza quasi nullificante dello sguardo dell'altro (Sartre) in "Jacqueline", con la solitudine rassegnata di "Tell Her Tonight", con la dannazione eterna scaturita dal peccato di "Auf Achse" ("It's with your sins that you have killed me"), con la libidine platonica di "Darts Of Pleasure", con l'amore lussuriosamente omosessuale della trascinante "Michael".
Domina un suono robusto, imperiosamente ondivago e mai stanco, megalomaniacamente pago e soddisfatto di sé. Anche se loro dicono di essere soltanto un gruppo che vuole “far ballare le ragazze”... Ma conviene non stare a sentire né loro, né tutti coloro che un po' spocchiosamente diranno che l'originalità latita in Franz Ferdinand, coniando persino nuove etichette come "emul-rock". Mentono. Non hanno scorto l'infinito oltre la siepe, o per lo meno i delimitati ma emozionanti spazi di là da quella.
Fatto sta che il disco spopola, salendo fino alla terza posizione nella Uk Chart e vende oltre un milione di copie anche negli Usa, ricevendo il Disco di Platino, oltre a svariati riconoscimenti internazionali, come il Mercury Music Prize, Ivor Novello Award, due Brit Awards e un premio come miglior video da Mtv per "Take Me Out".
Complessivamente, Franz Ferdinand venderà più di tre milioni e mezzo di copie: uno dei rari botti da ricordare in questi tempi di chart da vacche magre, ma anche un successo che cresceva in misura direttamente proporzionale ai mugugni di chi annusava, tardivamente, l'inequivocabile (?) sentore della vituperata operazione commerciale.
Il 17 febbraio 2005, agli Nme Awards, Kapranos ringrazia le "grandi band" che hanno ispirato le composizioni dei Franz Ferdinand, citando (un po' a sorpresa) Oasis, Depeche Mode, New Order e Pet Shop Boys.
A ottobre dello stesso anno, arriva nei negozi l'atteso atto secondo, You Could Have It So Much Better (2005), che marca subito le distanze dal fortunatissimo predecessore: laddove Franz Ferdinand era bonariamente chiassoso, questo è più controllato, laddove risiedevano mescolamenti di rock e di dance dai confini poco definiti, ritroviamo canzoni dall'identità più marcata (e attenzione, spuntano persino due ballate!), mentre in luogo dell'aplomb furbescamente trasandato, c'è ora la cura maniacale della produzione. Anche la scrittura prende altre strade, ed è per questo che occorre qualche ascolto in più per realizzare che le hit ci sono ancora, solo che paiono studiate per raggiungere un pubblico il più vasto possibile.
You Could Have It So Much Better resta in ogni caso un prodotto assai ruffiano. Anzitutto perché sono parecchie le band da Olimpo del pop-rock a essere omaggiate con esplicite citazioni, se non almeno con una benevola strizzatina d'occhio, e poi perché il filo conduttore predilige il disimpegno festaiolo, vero marchio di fabbrica dei ragazzi di Glasgow, a qualsivoglia velleità intellettuale. Così se sono i Blur vestiti easy a far capolino nell'iniziale "The Fallen", è il groove wave-funk che va tanto per la maggiore a permeare "The Boy", mentre i Pulp di "Different Class" vengono presi per i capelli nell'accattivante levare di "Walk Away" ma ancor di più in "I'm Your Villain", che trova il modo di menzionare persino i Rolling Stones più cazzoni di "Miss You" col riff della chitarra.
Gli espliciti riferimenti alla 60's British Invasion del ritornello di "Well That Was Easy" vengono appena dissimulati da quei cambi di tempo che riportano, questa volta sì, alle fortunate vicende del debutto, mentre è sfacciata la contaminazione kinks-beatlesiana che inonda le note di "Eleanor Put Your Boots On" e di "Fade Together"(quale romanticheria di titolo!), che ciononostante rimangono due ballate di gran classe. Nel bailamme dei ringraziamenti trovano ancora posto nella title track i Fall in una versione nemmeno troppo light nonché, in "Outsiders", i sempreverdi Talking Heads, già più volte tirati allegramente in ballo nel primo disco.
Solo sbiaditi cloni-imitatori, vi chiederete infine? Nossignori, i Franz Ferdinand un bel po' di stoffa propria la posseggono eccome, che poi possa piacere senza riserva alcuna è tutto un altro discorso.
Nel complicato mercato discografico odierno, insomma, Kapranos e soci si sono trovati nella corrente giusta e hanno avuto un discreto successo, dividendo gli appassionati riguardo i propri meriti reali. Amati dai sostenitori della musica vera e odiati dai sostenitori della musica vera - concetto che evidentemente si presta a più interpretazioni - gli scozzesi hanno continuato a remare contro i canoni contemporanei, prendendosi una lunghissima pausa proprio nel loro momento d'oro.
Tonight: Franz Ferdinand (2009) è il frutto della pulsione autodistruttiva dei Nostri, che, consapevoli della pericolosità di cantarsi addosso, cercano di fornire al pubblico sollecitazioni nuove. Geometrizzare il chiasso dell'esordio, trovare un suono che sia qualcosa di diverso dal puro schitarrare, evitare l'effetto-zibaldone di You Could Have It So Much Better: i Franz Ferdinand versione 2009 non sono più quattro ragazzini con la chitarra, ma veri musicisti che hanno trovato compattezza, sia come affiatamento sia come corposità di suono. La novità più evidente è il massiccio uso dell'elettronica, ma a essere cambiato non è solo questo. Sostanzialmente Franz Ferdinand resta una rock party band un po' atipica, perché a segnar punti più che il groove è sempre la mano pesante sulle corde. E' venuta meno però quella certa predominanza chitarristica del passato e il piglio s'è fatto molto più funky.
Il nuovo album, poi, vanta arrangiamenti interessanti e ben curati. Certo, la ricerca dell'impatto immediato resta prerogativa indefettibile: la coralità nell'uso delle voci e il passo danzereccio della bomba d'apertura "Ulysses" danno vita a un tre minuti sfacciato come pochi. Il punto è che i Franz Ferdinand oggi non sono più solo questo: la delicata melodia da spiaggia "Send Him Away" - su arpeggi di chitarra elettrica e tastiere - e quella saporitamente british e sopra le righe di "Twilight Omens" - giro di piano tenebroso e scariche di chitarra - col rock hanno null'altro che una parentela. Fra gli svariati progressi tecnici, necessario plauso merita la voce di Kapranos: aspra, ammiccante, ricca di sfaccettature (su tutte "Ulysses" e "What She Came For"). La padronanza acquisita dal gruppo è palese, laddove si noti come suoni ancora spigoloso pur avendo trovato una forma levigata ("Bite Hard", esplosiva cavalcata su spintoni di elettrica e synth, con tanto di assolone finale) e come la miscela renda allettanti idee non proprio di primo pelo (il disco-funky tribale "Can't Stop Feeling"). I limiti della formula emergono solo allorquando i territori si allontanano dal solido sostrato rock: la disco di "Live Alone" ha un che di precotto, mentre suona ancora pretenziosa l'epopea di "Lucid Dreams", che pure porta in dote una buona coda elettronica.
Il bilancio complessivo, nonostante un calo nella seconda parte dell'album dovuto alla presenza di canzoni meno valide, è soddisfacente: gli scozzesi tirano fuori un lavoro solido, tanto eclettico da andare da un pastorale voce e acustica ("Katherine Kiss Me") a un velenoso e sensuale funky elettrico ("Turn It On") senza per questo disunirsi e perdere in coesione interna.
La dignità artistica mostrata dai Franz Ferdinand in Tonight è un bello schiaffo in faccia a tutti i detrattori preconcetti.
Trascorrono altri quattro anni e, con Right Thoughts, Right Words, Right Action (2013), Kapranos & C. ristampano per l’ennesima volta il dizionario dei sinonimi e dei contrari del pop ballabile, riposizionando le chitarre in prima fila, dando una lustrata ai classici coretti irresistibili, rimettendo in moto la macchina della citazione, escamotage che in mano a quelli bravi si tramuta nell’esatto contrario della scopiazzatura. Può bastare una mezzoretta abbondante di ammiccamenti, ritornelli, dududu e dadada (e tutti a spernacchiare quell’antipatico di Sting, 33 anni orsono), danze rese in maniera efficace e spartana dall’egregio tempismo di Paul Thomson che, dietro le pelli, riporta definitivamente alla luce il batterista funky-dance sintetico, cancellando le malefatte disordinate dei britpop-pari. E allora ecco che, come un rullo infinito, si susseguono i saltelli di “Right Action”, la rivisitazione arguta degli Specials di “Evil Eye”, i ritmi robotici di “Love Illumination” con gustoso contorno di synth, i riffetti compulsivi di “Stand On The Horizon”, lo scatenamento progressivo e poi via via sempre più febbrile di “Bullet” e “Treasons! Animal”, il romanticismo malinconico e ingenuamente anni 60 di “Fresh Strawberries” e “Brief Encounters”.
Sarà pure la replica della solita vicenda, ma i Ferdinand si confermano maestri del remake-remodel, grazie soprattutto alla mano sicura del Kapranos mascherato da compagnone di sbronze che alla fine saluta gli invitati, amanti e amici; e l’arrivederci spetta a un giochino che poggia su una doppia base, chitarre alla “The Passenger” e rumori hip-hop, con drone in sottofondo, mentre il titolare afferma sogghignante "Don’t play pop music, You know, I hate pop music", e tutto intorno, si passa con puntuale sarcasmo, dalla ballata al coro da stadio, tra accelerazioni e momenti di quiete; un vero e proprio sunto della festa che qualcuno giura possa durare un po’ più del previsto, in barba ai soliti vicini noiosi.
Poi esci alle prime luci dell’alba e corri verso l’agognato caffè: un Franz Ferdinand senza zucchero, tanto non serve, più ne butti giù e più ti tira su. E il giro ricomincia.
Nel 2015 arriva la collaborazione che non t'aspetti. Tutto nasce da un incontro casuale a Los Angeles: Alex Kapranos si imbatte nei maestri di una vita, i fratelli Ron e Russell Mael, per gli amici Sparks. “For fuck’s sake!” (ecchecazzo, all’incirca) potrebbe essere proprio l’espressione sfuggitagli di bocca in quel frangente fatale. Abbreviata in “FFS”, diventerà il titolo del primo disco targato Franz Ferdinand + Sparks. Quasi un sogno della vita, se si pensa che fu proprio da una (tentata) cover di “Achoo” degli Sparks che gli scozzesi mossero i primi passi.
I due gruppi si scambiano nastri a seimila miglia di distanza, avanti e indietro da Londra a Los Angeles. Alla fine ne escono fuori 12 canzoni prodotte da John Congleton (St. Vincent, Anna Calvi, David Byrne) e incise ai Rak Studios di Londra.
La fusione a freddo di FFS, va detto subito, è riuscita. Certo, i Franz Ferdinand pagano pegno ai fratelli Mael, a quel loro rutilante cabaret del nonsense, fatto di pantomime glam e parate broadwayane. Ma il balsamo degli Sparks restituisce vitalità a una formula che, dopo lo scintillante esordio, aveva perso un po’ di smalto. Più delle singole tracce, a brillare è il sound, un amalgama tra glam, synth-pop, art-rock e (nu?) new wave, in cui traspare il clima divertito e goliardico che ha animato l’intero progetto. Non mancano comunque le canzoni da ricordare. A cominciare da quella "Johnny Delusional", estratta come primo singolo, in cui le due anime sembrano davvero fondersi in modo perfetto: il teatro dell’assurdo dei genii di “This Town Ain't Big Enough For Both Of Us” e le progressioni ubriacanti alla “Take Me Out”, tastiere sature e chitarre graffianti a incorniciare la storia di un romantico loser. Fusione che si rinnova in modo ancor più ardito nell’ircocervo di “Save Me From Myself”: metà melodramma sparksiano (l’intro, i coretti, le aperture art-rock), metà party a casa Kapranos (il ritmo saltellante, le chitarre nevrotiche, il canto a squarciagola).
Più tipicamente FF la baldanzosa "Call Girl", dove gli scozzesi salgono in cattedra con un loro tipico numero ballabile a tutta birra, e la non meno briosa "Police Encounters", impreziosita dal bel dialogo tra le due voci nel refrain. È invece tutta griffata Mael la pantomima di "Dictator's Son", sardonica parabola di un rampollo di despota esotico.
Ma la joint venture non restituisce solo la somma dei due addendi. Affiorano, infatti, risultati anche del tutto originali, come "Little Guy From The Suburbs", una di quelle ballate atmosferiche nero pece che ai Tindersticks non riescono più da tempo. O come "So Desu Ne", un frankenstein in laboratorio di un “Kimono My House” stravolto in salsa elettropop e imbottito di ecstasy. Ma il culmine dell’audacia sperimentale è proprio la mini-opera "Collaborations Don't Work", quasi sette minuti di puro delirio che sembrano usciti fuori da un musical off degli anni 70: si spazia da abulie soft a vertiginosi "staccato", da aperture orchestrali art-rock a pastiche jazz-funk, da synth pulsanti alla delicata coda di piano finale di Ron, con quel ritornello "I'm gonna do it all by myself" che risuona beffardo più che mai. Così come beffardo è l’epilogo di “Piss Off”, un inno alla vita appartata e anticonformista, che suona quasi come un manifesto dell’intera carriera degli Sparks.
FFS indica una strada nuova da percorrere alla band scozzese, con il piccolo aiuto dei vecchi amici californiani, con i quali hanno anche intrapreso un tour. Starà a loro decidere di seguirla anche nei loro prossimi lavori.
Il passo successivo a questo bel progetto collaborativo è un cambio della lineup, sia come composizione che come struttura. Nick McCarthy, infatti, comunica la decisione di dedicarsi alla famiglia e ad un piccolo progetto musicale con la moglie dal nome Box Codax, e viene sostituito da Dino Bardot e Julian Corrie, il primo alla chitarra proveniente dai 1990s, mentre il secondo, già titolare del progetto electropop Miaoux Miaoux, aggiunge un tastierista permanente alla band. Dopo un 2017 caratterizzato da molte date live, il 9 febbraio 2018 esce Always Ascending.
Gli avvenimenti di cui sopra hanno inevitabilmente influenzato la natura di questo quinto album, non solo nel suono, ma anche nella struttura compositiva delle canzoni. Questi 10 brani, infatti, hanno un respiro più ampio sotto entrambi questi punti di vista. Il suono è molto più contaminato dall’elettronica rispetto al passato e mette in mostra molte più sfumature, varietà e cura dei dettagli, anche per quanto riguarda la parte ritmica; il songwriting gira sempre attorno alla forma canzone classica, ma non vi aderisce mai completamente, presentando alcuni episodi nei quali strofa e ritornello sono solo una parte di tutto il discorso, e altri che somigliano più a dei veri e propri flussi di coscienza in melodia.
Accanto a questi cambiamenti, alcune caratteristiche ancora ben presenti qui fanno sì che risulti facile ricondurre il disco ai Franz Ferdinand. Il toco melodico, il timbro vocale e l'interazione tra chitarre e sezione ritmica sono tali per cui si può parlare di rinnovamento nella continuità per il gruppo.
L’ampliamento delle prospettive sonora e compositiva ha senza dubbio fatto bene alla band, non solo perché, come detto, c’è una maggior ricchezza di spunti e di idee, ma soprattutto perché, qualitativamente, il risultato è sempre all’altezza. Ogni canzone ha determinate caratteristiche che si fanno invariabilmente apprezzare e rendono l’ascolto del disco un’esperienza piena di diverse situazioni e stati d’animo. Ci si ritrova subito a battere il piede e a muovere la testa a tempo sull’iniziale title track, ci si lascia trasportare dal languido crescendo della successiva “Lazy Boy”, si ondeggia piacevolmente nell’insieme tra tastiere rinfrescanti e intreccio di linee vocali che caratterizza “Paper Cages”, si apprezza col sorriso sulle labbra la carezza rotonda e armoniosa che è “The Academy Award”, ci si perde altrettanto volentieri nell’enigmatico andamento di “Lois Lane”, e così via.
Dopo tanti anni di carriera, i Franz Ferdinand sono sempre più in grado di mantenere gli aspetti fondamentali della propria cifra stilistica e allo stesso tempo andare incontro con profitto a un processo di cambiamento che non era mai stato così marcato. Il risultato è, ancora una volta, convincente.
* AA.VV. = Cristian Degano, Marco Bercella, Ciro Frattini, Davide Sechi, Stefano Bartolotta
FRANZ FERDINAND | ||
Darts Of Pleasure (Ep, Domino, 2003) | 6,5 | |
Franz Ferdinand (Domino, 2004) | 8 | |
You Could Have It So Much Better (Domino, 2005) | 6,5 | |
Tonight: Franz Ferdinand (Domino, 2009) | 7 | |
Right Thoughts, Right Words, Right Action (Domino, 2013) | 7 | |
Always Ascending (Domino, 2018) | 7 | |
FFS (FRANZ FERDINAND + SPARKS) | ||
FFS (Domino, 2015) | 7,5 |
Darts Of Pleasure | |
Take Me Out | |
Michael | |
Matinee | |
This Fire | |
Walk Away | |
The Fallen | |
Eleanor Put Your Boots On | |
Ulysses | |
Can't Stop Feeling | |
No You Girls | |
Love Illumination | |
Right Action |
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