Arrivare al trono (da sempre piuttosto affollato, peraltro) di nuovo fenomeno del rock inglese in due mosse: a) appropriarsi di stilemi americani di circa trent'anni fa b) usare e farsi usare dalla formidabile stampa musicale del proprio paese per questi stilemi esaltare, ovviamente come fossero inglesi da sempre. Procedimento ingegnoso, ma che abbia la benedizione di Rough Trade e Fierce Panda, spiace.
Degli Art Brut e del loro primo disco si dice che siano una ventata di rock fresco, ma intellettuale; che siano la riedizione aggiornata dei Fall, ma che facciano parte della scena di Libertines e compagnia; che i testi siano geniali, ma ordinari; che, dopo i festival estivi, siano destinati a un successo travolgente. Chi scrive è perplesso persino circa l'ultima affermazione. Il paragone coi Fall si ferma al timbro vocale del frontman Eddie Argos, poiché altre tracce della poetica di Mark E. Smith (o dei Television Personalities, anch'essi citati da molti) non si ravvisano nel lavoro di Art Brut: in luogo della scarne e sghangherate litanie del complesso di Manchester, infatti, questi londinesi propongono un simil-punk forse coeso, sicuramente monotono. Una citazione del più grande museo d'arte moderna della propria città, o una scontata frecciatina al New Musical Express: lo spessore intellettuale dei testi si ferma a questo. La potenza delle liriche, d'altro canto, consiste nella riedizione poco convincente di slogan falsità: se è pacifico che il rock ha perso da tempo la propria spinta sociale, e che il pubblico di Art Brut e simili è formato da laureati e dottorandi - sapete chi siete -, allora versi quali "we're just talking to the kids" (dal primo singolo "Formed A Band") non possono che essere classificati quali noiosi divertissement, il cui impatto è quello di una pallina da tennistavolo. E allora è sacrosanto collocare Art Brut nel calderone di band come Libertines (dei quali sono amici), Hives, Vines e Dio sa quante altre, delle quali rappresentano l'alter ego pittato lumpenproletariat.
Non vantando Art Brut nemmeno un pezzo memorabile, è invece improprio il paragone con Franz Ferdinand o Bloc Party, insieme ai quali vengono talora compresi sotto l'etichetta di arty rock o art wave: non male per chi dichiara, in title track, di non sopportare i Velvet Underground (e sarebbe curioso conoscere il parere, in proposito, del presunto nume tutelare, Mark E. Smith). L'attitudine di Argos e compagni pare essere, pur con esiti ben meno felici, quella di Jonathan Richman e dei suoi Modern Lovers: la formularità spinta, il parlato che fa capolino tanto spesso, ma soprattutto una poetica fatta di racconti in prima persona che assurgono a parabole, pennellate sparse ma che si vorrebbero capaci di fondare un'etica valida per chi ascolta. Tuttavia, se Richman si confessava dalla sua stanza a un pubblico potenzialmente universale, Eddie Argos mi ricorda quei sedicenni che usano perdere i pomeriggi seduti su qualche gradone, a ciarlare di massimi sistemi con i compagnucci di sorta.
Si configura pertanto l'opera di un adolescente che pretende di discettare del fratello minore, e un disco dalla ricerca melodica palesemente insufficiente e per giunta incapace di cambiare registro al suo interno ("Emily Kane" conserva lo stesso incedere del resto dell'album): "Bang Bang Rock'n'Roll" è il ragazzino che, parlando di sé ai propri simili, teme lo scherno non appena abbandoni la superficie. Musicalmente, del resto, il discorso è identico: i riferimenti sono il timbro chitarristico di Richard Hell e i licks che furono di Peter Laughner, mentre "Bad Weekend", uno dei pezzi più riusciti, strizza l'occhio ai Television; ma il punto è che della New York di Lester Bangs rimane solo un bolo pesantemente masticato e sepolto da un onnipresente suono "marcetta punk" (la contraddizione è voluta), che ben presto viene a noia e poi a odio, come gli intercalare dei quali costellano ogni frase i giovani che parlano male.
Qualcosa di buono il disco in parola ha, e non si tratta dei singoli designati: "Rusted Guns Of Milan" è una canzone sorprendentemente brillante e dall'ironia per una volta riuscita, mentre "My Little Brother" ci fa dimenticare tutto ciò che abbiamo appena detto, perché spesso, a pelle, la new wave è divertente anche quando surrogata. L'eterno bello del rock salva quindi il quartetto dall'insopportabile accento cockney da guai peggiori in sede di valutazione: in tempi di acquisto digitale, meglio procurarsi quel paio di pezzi e lasciare sugli scaffali un disco che difficilmente vedrebbe la piastra dopo una-due settimane.
07/02/2011