Non tutti i mal di denti vengono per nuocere. Capita, ad esempio, che Alex Kapranos si aggiri dolorante per le vie di San Francisco in cerca di un dentista. All'improvviso si sente chiamare: "Alex, sei tu?". Si volta e trova i maestri di una vita: i fratelli Ron e Russell Mael, per gli amici Sparks. "For fuck’s sake!" (ecchecazzo, all'incirca) potrebbe essere proprio l'espressione sfuggitagli di bocca in quel frangente fatale. Abbreviata in "FFS", diventerà il titolo del primo disco targato Franz Ferdinand + Sparks. Quasi un sogno della vita, se si pensa che fu proprio da una (tentata) cover di "Achoo" degli Sparks che gli scozzesi mossero i primi passi.
In realtà, però, i semi erano già stati gettati nel 2004: un caffè insieme, un feeling istintivo tra i due gruppi, il desiderio di provare a unire le forze, chissà quando, chissà come. Poi, il bizzarro incontro in California a schiudere finalmente le porte al progetto: musica che rimbalza sulle due sponde dell'Oceano, nastri scambiati a seimila miglia di distanza, avanti e indietro da Londra a Los Angeles. Cominciano i Mael, recapitando un brano dal titolo che è tutto un programma: "Collaborations Don't Work". Dal Regno Unito replicano con un verso: "I ain't no collaborator, I'm the partisan...". È già tutto chiaro: sarà uno spasso, altro che supergruppi. "Quei progetti erano basati sui virtuosismi dei singoli componenti, noi ci concentriamo sulla musica", chiarisce Kapranos. Alla fine ne escono fuori dodici canzoni (più quattro bonus track nella versione deluxe) prodotte da John Congleton (St. Vincent, Anna Calvi, David Byrne) e incise ai Rak Studios di Londra. Con famigerato acronimo di parolaccia a suggello: FFS. "Descrive bene il nostro suono", chiosa il leader dei Franz Ferdinand. Che siano poi anche le iniziali dei due gruppi è solo un dettaglio.
E la fusione a freddo, va detto subito, è riuscita. Certo, i Franz Ferdinand pagano pegno ai fratelli Mael, a quel loro rutilante cabaret del nonsense, fatto di pantomime glam e parate broadwayane. A volte si ha la sensazione che in quel vortice gli scozzesi finiscano risucchiati, anche nelle interpretazioni, con il falsetto di Russell Mael a sovrastare a tratti la voce di Kapranos. Ma il balsamo degli Sparks restituisce vitalità a una formula che, dopo lo scintillante esordio "Franz Ferdinand" del 2004, aveva perso un po' di smalto, pur mantenendosi sempre accattivante.
Più delle singole tracce, a brillare è il sound, un amalgama tra glam, synth-pop, art-rock e (nu?) new wave, in cui traspare il clima divertito e goliardico che ha animato l'intero progetto. Non mancano comunque le canzoni da ricordare. A cominciare da quella "Johnny Delusional", estratta come primo singolo, in cui le due anime sembrano davvero fondersi in modo perfetto: il teatro dell'assurdo dei genii di "This Town Ain't Big Enough For Both Of Us" e le progressioni ubriacanti alla "Take Me Out", tastiere sature e chitarre graffianti a incorniciare la storia di un romantico loser ("I know I haven't a chance/ Still I want you"). Fusione che si rinnova in modo ancor più ardito nell'ircocervo di "Save Me From Myself": metà melodramma sparksiano (l'intro, i coretti, le aperture art-rock), metà party a casa Kapranos (il ritmo saltellante, le chitarre nevrotiche, il canto a squarciagola).
Più tipicamente FF la baldanzosa "Call Girl", dove gli scozzesi salgono in cattedra con un loro tipico numero ballabile a tutta birra, e la non meno briosa "Police Encounters", impreziosita dal bel dialogo tra le due voci nel refrain. È invece tutta griffata Mael la pantomima di "Dictator's Son", sardonica parabola di un rampollo di despota esotico ("a country that's banned the rain") che sogna di tornare un giorno in patria alla testa di un'armata ribelle, ma per il momento è troppo preso da Nat 'King' Cole, Bundesliga, Hugo Boss e Instagram.
Ma la joint venture non restituisce solo la somma dei due addendi. Affiorano, infatti, risultati anche del tutto originali, come "Little Guy From The Suburbs", una di quelle ballate atmosferiche nero pece che ai Tindersticks non riescono più da tempo ("I learned to kill better than the others", ci informa sinistramente il protagonista). O come "So Desu Ne", un frankenstein in laboratorio di "Kimono My House" stravolto in salsa elettropop e imbottito di beat bombastici. Ma il culmine dell'audacia sperimentale è proprio la mini-opera "Collaborations Don't Work", quasi sette minuti di puro delirio che sembrano usciti fuori da un musical off degli anni 70: si spazia da abulie soft a vertiginosi "staccato", da aperture orchestrali art-rock a pastiche jazz-funk, da synth pulsanti alla delicata coda di piano finale di Ron, con quel ritornello "I'm gonna do it all by myself" che risuona beffardo più che mai. Così come beffardo è l'epilogo di "Piss Off", un inno alla vita appartata e anticonformista ("Tell everybody to piss off... they should piss off and leave you alone in your world"), che suona quasi come un manifesto dell'intera carriera degli Sparks.
Un disco coraggioso, anche nei suoi difetti. Forse troppo stravagante per piacere a tutti i fan dei Franz Ferdinand - non a caso in classifica finora non è andato oltre il n. 17 in UK, il n. 60 in Italia e il n. 22 nella chart Usa (Billboard). Ma di sicuro "FFS" indica una strada nuova da percorrere alla band scozzese, con il piccolo aiuto dei vecchi amici californiani. Starà a loro decidere di intraprenderla anche nei loro prossimi lavori. Nel frattempo, il non-supergruppo è in tour (anche in Italia, dove si è già esibito a Genova e dove tornerà il 16 luglio, per lo Zanne Festival di Catania) e il 2 settembre a Treviso per l'Home Festival. Il divertimento, per loro e per chi li vedrà, è assicurato. Collaborations work.
14/07/2015