Il nome Franz Ferdinand fa riferimento proprio all'arciduca d'Austria la cui morte, avvenuta il 28 giugno 1914, diede inizio alla Prima Guerra Mondiale. Curioso, certo, e volto a rimarcare l'insostituibilità weberiana degli accadimenti storici, l'importanza di singoli piccoli eventi che cambiano il corso di migliaia di esistenze. Questo album forse non arriverà a tanto, ma nella sua esuberanza compositiva, nella sottile ironia perversa dei testi, nella postura a tratti sprezzante del tessuto sonoro, appare essere uno spartiacque dell'anno appena cominciato, giano bifronte che raccoglie il passato contestualizzandolo e aprendo la strada al futuro.
La storicità, già evidenziata dal nome scelto dalla formazione inglese, gli appartiene, eppure è attraversato da una inafferrabile e quasi nietzscheana volontà di superamento, di abbattimento di ogni inutile nostalgia elegiaca in nome di un robusto sound che epicamente attraversa la storia musicale del secolo scorso superandola: i Sixties, rappresentati dalla roboanti chitarre di metallo, i Seventies dalle accentuazioni glam del ritmo (basso-batteria a unire le forze creando un effetto di magniloquenza e imponenza come il Bowie di "Low" e "Heroes"), gli eighties dalle melanconiche tastiere così lontane eppur così vicine, i nineties da certa stravaganza sboccata e naiv che ricorda i Pavement più anarchici e irriverenti.
Eppure, ascolto dopo ascolto, insorge la sensazione di percepire qualcosa che va ben oltre tutto ciò, svelando dietro l'orecchiabilità più classicamente rock dei pezzi una complessità sonora ignota ad altre formazioni a cui il quartetto potrebbe essere paragonato (Strokes, The Kills) e figlia della migliore tradizione albionica: The Smiths, Bauhaus, The Clash, oltre a certe deliziose intrusioni elettroniche di matrice dance.
I testi poi, danzanti sulla musica come se attraversati da un'ineluttabilità fatale ("devono stare lì e non altrimenti"), si legano tra loro attorno al tema portante della follia creativa generata dall'amore nelle sue più sataniche e brumose forme, così da ricordare tanto le trasgressioni perverse di Mick Jagger quanto i dirupi dell'animo del primo Nick Cave.
Ci scontriamo con la potenza quasi nullificante dello sguardo dell'altro (Sartre) in "Jacqueline", con la solitudine rassegnata di "Tell Her Tonight", con la dannazione eterna scaturita dal peccato di "Auf Achse" ("It's with your sins that you have killed me"), con la libidine platonica di "Darts Of Pleasure", con l'amore lussuriosamente omosessuale di "Michael". Il tutto sorretto da un suono robusto, imperiosamente ondivago e mai stanco, megalomaniacamente pago e soddisfatto di sé.
Non state a sentire tutti coloro che un po' spocchiosamente vi diranno che l'originalità latita in questo lavoro, che tutto è già sentito, che non vale la pena di spendere del denaro per un'opera di scribacchini inesperti come questi. Mentono. Non hanno scorto l'infinito oltre la siepe, o per lo meno i delimitati ma emozionanti spazi di là da quella.
13/12/2004