Gli Psychedelic Furs sono, al tempo stesso, tra i più degni eredi della tradizione psichedelica e tra i più originali interpreti della nuova stagione wave, nata a cavallo tra i decenni 70 e 80. Il loro sound, infatti, unisce le liturgie allucinate dei Velvet Underground (cui si ispirano fin dal nome, che cita la celebre "Venus In Furs") e certe ombrosità dark di scuola britannica (Joy Division, Cure, Siouxsie) con le melodie pop e il romanticismo glam di David Bowie e Roxy Music. Una formula resa ancor più suggestiva dall'interpretazione catalettica e morbosa del cantante e leader della band, Richard Butler: il suo caratteristico timbro vocale, grezzo e monocorde, conferisce ai brani quel tocco di decadenza in più.
La band si forma a Londra nel 1977, in piena era punk, su iniziativa di Butler. Lo affiancano il fratello Tim (basso), John Ashton e Roger Morris (chitarre), Duncan Kilburn (sassofono) e Vince Ely (batteria). Il sestetto debutta con il singolo "We Love You" (1979), che combina ombrosità di matrice darkwave con le atmosfere elettroniche del David Bowie berlinese.
Un anno dopo arriva il debutto su Lp con Psychedelic Furs (1980), prodotto da Steve Lillywhite. Un album all'insegna di sonorità essenziali, ma suadenti, spesso morbosamente accattivanti. Svettano in particolare tre episodi: la conturbante "India", che dopo due minuti di bip e rumori elettronici travolge l'ascoltatore col suo incalzante piglio post-punk; la isterica "Sister Europe", sorta di trenodia dark atmosferica, ammorbidita da delicati ricami melodici e sfregiata da graffi di sax; la lisergica "Imitation Of Christ", con la sua andatura jangle-pop disinvolta che farà scuola per tanti discepoli di Byrds e compagni, a partire da Rem e Smiths.
Ma non mancano altri momenti da rimarcare, da "Fall", con il suo ritmo saltellante in stile Northern soul che si sposa all'asprezza dei lick chitarristici, alla cavalcata punk alla X-Ray Spex di "Pulse", dominata dal trittico batteria-chitarra-sax, dall'inquietante "The Wedding Song", che rievoca la claustrofobia opprimente di Pil e Joy Division avventurandosi anche in un breve proto-rap, fino all'assalto finale di "Blacks/Radio", due brani uniti, dall’incedere tambureggiante e dall'atmosfera caotica alla Velvet Underground.
Un grande debutto che consente alla band londinese di irrompere con originalità nel variegato panorama wave dell'epoca, dimostrando oltre tutto ampi margini di miglioramento.
A perfezionare la formula, provvede un anno dopo Talk Talk Talk (1981). Il disco definisce una volta per tutte le coordinate sonore della band londinese. Ennesimo prodotto della "Venus In Furs" velvettiana, il sound degli Psychedelic Furs si rivela più precisamente il crocevia di tre tradizioni culturali e musicali: la new wave di cui recupera le epilessi ritmiche e il chitarrismo secco e nervoso (figlio di quello di Tom Verlaine) oltre che l'immaginario, il dark-punk di cui riprende il mood esistenziale, il revival psichedelico (capeggiato in Inghilterra da gruppi come The Sound, Echo & The Bunnymen e Teardrop Explodes) a cui si devono certi intrecci strumentali e la complessiva atmosfera allucinogena. La voce felpata e monocorde di Richard Butler, oltre che il suo stile di canto distaccato, alla Lou Reed, conferiscono all'insieme una patina di malato romanticismo alla maniera di Japan, Roxy Music e del "fallen angel" di "Transformer". Ad accrescere l'originalità dei brani sono anche le frasi di sassofono di Duncan Kilburn, che riesce a donare un tocco di sobrietà ai baccanali ritmici costantemente ossessivi dei Furs.
I dieci gioielli dell'album mantengono una tensione emotiva continua (ma che non esplode mai), occasionalmente interrotta dagli eleganti deliqui sassofonistici di Kilburn, come in "She Is Mine", disegnando così un affresco di sotterraneo malessere più che declamata alienazione. Queste caratteristiche faranno del disco uno dei trait d'union tra la new wave classica e la sua deriva synth-pop, che il gruppo stesso imboccherà con i lavori successivi, comunque godibili oltre che commercialmente fortunati. La grandezza dell'album consta soprattutto nell'essere veicolo pop delle sperimentazioni ritmiche e armoniche wave, così come Bowie lo era stato per le conquiste avanguardistiche di inizio anni 70 nel campo dell'elettronica. Mirabile come i Furs riescano a integrare, a livello armonico, le ruvidezze chitarristiche di Tim Butler e il drumming incessante di Ely con le delicate tessiture sassofonistiche di Kilburn, dando così vita a un sound fluido e compatto al contempo.
Come in ogni capolavoro che si rispetti, ad aprire le danza è un brano-manifesto, in questo caso la trascinante "Pretty In Pink" che, spogliata dalla caratteristica progressione chitarristica di stampo velvettiano, potrebbe essere un docile power-folk alla Byrds, con tanto di jingle-jangle accattivante, ma così non è. Martellante, malata ma melodica, si snoda per circa quattro minuti con una dinamica veloce-lento-veloce, snervante nella sua capacità di accrescere la tensione per poi abortirla di colpo, e di nuovo riattizzarla.
L'album è principalmente figlio della new wave, come dimostra "I Wanna Sleep With You", con una micidiale ritmica alla Wire, che riesce a rendere quel senso di claustrofobia caratteristico del gruppo di Colin Newman. La baraonda di "It Goes On" è supportata dal drumming potente e meccanico di Vince Ely, da cui emerge all'improvviso un epico refrain, modello per i tanti gruppi (gli U2 di "Gloria", i Tears For Fears di "Shout") che della new wave riprenderanno quasi esclusivamente l'aspetto romantico-solenne-enfatico.
Il segreto dell'album è quello di essere impregnato da un romanticismo di fondo che si esprime in strutture pop facilmente digeribili, e non in composizioni complesse, alla maniera di alcuni gruppi di quel periodo come ad esempio i Japan; anche nelle canzoni più esagitate l'aspetto melodico è sempre preminente, come in "Into You Like A Train", dove un esotico motivo di sassofono riesce addirittura a stemperare la tensione creata dal drumming ossessivo di Ely.
"She Is Mine" è, oltre che una delicata ballata, un mirabile esercizio sulla tecnica del contrappunto con addirittura tre linee melodiche che si sovrappongono e si alternano, le due di chitarra di Morris e Ashton e quella (onnipresente) di sassofono di Kilburn. Ritmiche androidi e dissonanze assortite fanno di "Dumb Waiters" uno dei ponti tra la new wave in senso stretto e la musica industriale, mentre in un tono lugubre-romantico-fatalista Butler rifinisce la stupenda "No Tears", che esclusivamente per il suo fluire melodico riesce ad affrancarsi dal modello di canzone dark-punk. L'album si chiude con la ballata "All Of This And Nothing" che, imbevuta di spleen esistenziale, dimostra l'attitudine poetico-decadente di Butler, a metà tra Ian Curtis e Bryan Ferry.
Davvero difficile resistere al fascino obliquo di Talk Talk Talk. Il suo situarsi in un territorio abitato da impeti sperimentali ne fa uno dei cimeli più accattivanti della new wave, il suo dipanarsi in un linguaggio pop ne ha determinato la facile decodificazione e assimilazione; un oggetto che ha superato bene l'esame del tempo: un classico.
Esigenze commerciali e discografiche determinano i primi mutamenti in Forever Now (1982). Con la rinuncia a Morris e Kilburn, la formazione si riduce a quattro elementi e convoca al mixer Todd Rundgren, che smussa le spigolosità del sound e aggiunge alcuni dei suoi pupilli (il sassofonista Gary Windo e Flo & Eddie). Ne scaturisce anzitutto un'altra prodezza: la torbida hit single "Love My Way", trascinata da un'epica marimba (suonata dallo stesso Rundgren) in un territorio al crocevia tra new wave, synth-pop e disco-punk alla Blondie. Un inno all'amore che sarà recuperato diversi anni dopo da Luca Guadagnino nel film "Chiamami col tuo nome", e non a caso, vista la sua dedica a un'omosessualità senza timori ("Love my way, it's a new road/ I follow where my mind goes").
In generale, il sound si fa più levigato, all'insegna del raffinato synth-pop di Ultravox, Simple Minds e Japan in voga nel periodo. Non manca però un anello di congiunzione con i primi due dischi, sotto forma del boogie scintillante di “President Gas”, magistralmente gestito da Butler e impreziosito da un suggestivo inciso strumentale. E riaffiorano qua e là colpi di classe autentica, come lo stacco di chitarra post-funk di "You And I" e l'appiccosa ballata scioglilingua di "No Easy Street" ("You cry like a baby/ you cry like a babe/ you cry like a lady/ you cry like a girl"), chiusa da un graffiante assolo di chitarra.
Le tentazioni commerciali si fanno più evidenti in Mirror Moves (1984), con la produzione di Keith Forsey che mette ancor più in evidenza i sintetizzatori, aggiungendovi cospicue basi di drum machine. Laddove l'esperimento gira al meglio, scattano i capolavori. Come i due singoli-bomba, sospinti da una radiosa vena melodica e da un magico equilibrio tra la chitarra di John Ashton e i raffinati intarsi di synth: "Heaven" (forse la loro massima hit, griffata dal celebre videoclip sotto la pioggia) con ritornello-killer e avvolgente impianto ritmico, e la struggente "The Ghost In You", ballad fatata e ammaliante fin dall'incantevole intro di tastiere, che gli Strokes citeranno 36 anni dopo in “Eternal Summer”.
Il canto di Butler, sempre più ruvido e magnetico, diventa uno dei marchi di fabbrica del decennio, unito a testi sempre acuti e spiazzanti, senza disdegnare anche incursioni politiche, come quelle di "Here Come Cowboys", attacco mirato al governo inglese dell'epoca ma anche ai divi idolatrati della tv, e di "Highwire Days", brillante riflessione su paranoia e fobie politiche del decennio 80, condita da arrangiamenti tesi che richiamano i Chameleons in versione più elettrica. Anche se il cantante respinge ogni velleità politica: "Mi piace la musica che mi aiuta a capire me stesso, perché quando capisco me stesso posso capire un po' meglio il mondo esterno - racconta Butler ad Artist Magazine - Penso che quando le persone vengono a gridare slogan, in realtà non ti aiutano a capire niente, a parte il fatto che c'è una guerra in corso in qualche angolo del mondo. Non ti aiutano a venire a patti con te stesso e a comprendere come puoi relazionarti con gli altri".
Resta anche l'abilità del gruppo nel rendere originali e stranianti i brani con il minimo degli orpelli: prendiamo la succitata "Here Come Cowboys", con il suo chitarrismo da trilogia berlinese bowiana squarciato da improvvisi inserti di archi e il suo brillante refrain discendente, oppure il trascinante, nevrotico piano che accompagna gli intrecci vocali di "Alice's House".
Mirror Moves è il disco della definitiva consacrazione per i Furs e il loro incontrastato vertice pop: sfonderà sia in Europa che negli Stati Uniti, dove varcherà le soglie della Top 40 di Billboard. Ma paradossalmente sarà anche la cartina di tornasole delle loro incomprensioni, mostrando insanabile crepe nel progetto, ridotto ormai a un trio (i due Butler e Ashton).
Le difficoltà interne si traducono rapidamente in un inaridimento della ispirazione artistica. Midnight To Midnight (1987) accentua gli aspetti commerciali virando verso un synth-pop da discoteca che ha ormai perso quasi del tutto la vena malata e sinistra degli esordi. L'hit dance-rock "Heartbreak Beat" fa quasi il verso all'Aor che spopola in classifica, riuscendo in un ultimo guizzo melodico. Ma il resto del disco mette a nudo le prime carenze compositive di Butler e compagni. Lo stesso leader boccerà l'intero progetto senza pietà, definendolo "vuoto, insulso e debole".
Restano solo scampoli della loro grandezza: le chitarre spigolose di "Shock" e quelle più sfocate di "All Of The Law", i fiati di "Shadow In My Heart" e "Torture", gli sbuffi di chitarra ritmica di "One More Word", l'andatura accattivante della title track. Ma forse l'unico vero episodio degno di nota è quella iper-romantica "Angels Don't Cry" che rimescola un po' tutti gli ingredienti rimasti a disposizione: l'epica melodia introduttiva della chitarra, lo staccato della tastiera, il canto tagliente e ipnotico di Butler che unisce "bacio" e "dolore" nello stesso verso, in più, l'assolo di sax dell'ospite Mars Williams ad aggiungere un tocco più piacione che jazzy.
A risollevare le quotazioni della band (che nel frattempo reintegra il batterista Ely, precedentemente sostituito da Philip Calvert, ex-Birthday Party) provvede la colonna sonora del film "Pretty In Pink" di Howard Deutch, con Molly Ringwald, che trae spunto dall'omonimo brano originariamente pubblicato su Talk Talk Talk, riproponendolo anche nella colonna sonora. E da ormai consumati marpioni, i Furs ne approfittano per inserire questa nuova versione del brano in coda a Midnight To Midnight.
I successivi singoli "All That Money Wants" (1988) e "Until She Comes" non invertono la parabola negativa, che giunge al capolinea con i due ultimi album, Book Of Days (1989) e World Outside (1991). Il primo si mantiene ancora a galla mostrando qualche segno di vitalità residua, anche se rifugiandosi spesso nell'autocitazione (le dissonanze post-punk di "Should God Forget", il basso tenebroso di "Shine", la psichedelia morbosa di "Entertain Me", la raffinata decadenza della title track, la viola romantica alla Cale di "Torch"), con l'inconfondibile canto in catalessi di Butler a far da collante. Il secondo, invece, affoga inesorabilmente nella prevedibilità, nonostante la co-produzione di Stephen Street, che aveva lavorato con la band in modo eccellente in "All That Money Wants". Si salvano in parte il singolo "Until She Comes", classica ballata agrodolce alla Furs, la verve chitarristica di Ashton su "Don't Be A Girl" e i ricami dell'acustica "Get A Room". Ma troppi brani appaiono solo pallide imitazioni di quanto la band londinese era riuscita a produrre nell'arco di un decennio di carriera.
Sembra chiudersi per sempre, così, la saga di una delle formazioni più originali e suggestive dell'intera new wave. Sciolti gli Psychedelic Furs, Richard Butler ingaggia il chitarrista Richard Fortus (ex-Pale Divine) e dà vita al progetto Love Spit Love (1994). Prodotto da Dave Jerden (Jane's Addiction), il disco omonimo mescola con una certa abilità le sonorità classiche della vecchia band con quelle più attuali dell'alternative rock americano. "Am I Wrong", "Seventeen", "Jigsaw" e "Wake Up" sono i brani più efficaci, mentre "Change In The Weather" rivela un fervore quasi inedito per Butler.
Ai Love Spit Love, tuttavia, non arride il successo commerciale. Così Butler e Fortus cambiano rotta, approdando al folk-rock di Trysome Eatone (1997), pubblicato dalla Maverick, l'etichetta di Madonna. I nuovi riferimenti sono le ballate acustiche dei Rem, il rock elettronico dei Cars e le melodie decadenti del nuovo pop britannico (dai Radiohead ai Suede). Nascono così brani come "Long Long Time", "Believe", "Well Well Well", "It Hurts When I Laugh" e "Sweet Thing", che alternano momenti di tenera malinconia ad altri più inquieti e vibranti.
Con l'esperimento Love Spit Love, Butler si conferma autore di classe, ma senza più raggiungere i vertici della stagione d'oro degli Psychedelic Furs.
L'ex-leader, allora, prova a mettersi in gioco da solista, con l'omonimo Richard Butler (2006) all'insegna di un cantautorato dalle tinte malinconiche e soffuse, che non riscalda gli animi ma mette in mostra qualche buon brano, a partire dall'iniziale "Good Days, Bad Days" che conoscerà una certa popolarità grazie al suo inserimento nel trailer del film di Susanne Bier "Noi due sconosciuti" (Things We Lost in the Fire), con Halle Berry e Benicio del Toro. Una ballata che parte acustica e diventa elettrica, incentrata su un testo ricco di locuzioni negative (unmake, unread, unsay, unwrite ecc.) che sembra esprimere il desiderio di rimettersi in discussione alleggerendosi dal carico di responsabilità passate ("Give back everythings I won"…). Un album introspettivo, quasi come un unico flusso di coscienza, appena disturbato da chitarre distorte, echi remoti, carillon e voci radiofoniche, in cui trovano posto episodi di delicata morbidezza, come "California" (costruita su un drone che guadagna intensità come le onde dell'Oceano), "Breathe", "Milk", "Nothing's Wrong" e "Second To Second". E se "Last Monkey" punta sull'elettronica con una struttura quasi interamente strumentale, la conclusiva "Maybe Someday" mostra un Butler particolarmente appassionato in una interpretazione peculiare e distante dal suo classico standard.
Ma anche questa esperienza solista non lascerà il segno, Butler nel frattempo si dedicherà ad altre attività, incluse cover d'autore, come la “She” di Charles Aznavour (per un altro trailer, quello del film “Gone Girl”) e si dedicherà anche, a partire dall’inizio del nuovo millennio, all’attività di pittore, con gallerie esposte a New York, Miami e Firenze. Avrà anche una figlia, Maggie Mozart Butler, e si sposerà nel 2020 con l’attrice e modella Erika Anderson.
La grande sorpresa, però, arriva nel 2020. Dopo una pausa di ben 29 anni, infatti, gli Psychedelic Furs tornano sulle scene, e nel miglior modo possibile, con Made Of Rain (2020) un disco in grado di esaltare quel romanticismo malato e conturbante che da sempre è la loro firma, nonostante il tempo trascorso e l’assenza del chitarrista Josh Ashton, qui sostituito da Rich Good.
L’inizio è di quelli che non ti aspetti. Il baritono atonale di Butler in primo piano, la grana metallica delle chitarre e la strisciante paranoia megalomane e nevrotica del testo fanno di “The Boy That Invented Rock & Roll” un'opener perfetta, che quasi sembra far parte da sempre del repertorio storico della band britannica. Sulla stessa scia anche il potente singolo “Don’t Believe”, in cui viene calato un cuore di vivace synth-pop, e “No-One”, che presenta un approccio più massimalista e più rock. Più ordinaria ma altrettanto intrigante “Come All Ye Faithful”, dall’incedere sinuoso e peccaminoso delle strofe, con sax e basso pulsante a dettare la linea melodica. Non mancano divagazioni rumoristiche, pur contenute all’interno di una perfetta struttura concentrica.
Diverso è il discorso per le ballate, poiché talune presentano potenzialità inespresse; è il caso di “Hide The Medicine”, “Tiny Hands” e anche di “Turn Your Back On Me”, che pure spinge molto su feedback chitarristici e un’atmosfera dreamy, e altre invece più riuscite come l'ispirata “Wrong Train”, che già avevano suonato dal vivo diverse volte, “Stars”, che incanta grazie a una ricchezza strutturale fatta di space rock, riverberi, suoni granulari e deraglianti e, soprattutto, “This I'll Never Be Like Love”, che a tratti richiama il Bowie di “Blackstar”.
Made Of Rain non è certo un album innovativo o rivoluzionario, non cambia la storia di una band che la storia l'ha già scritta da tempo, ma aggiunge al suo percorso un piccolo, delizioso tassello che i fan non potranno non apprezzare.
Contributi di Giulia Quaranta ("Made Of Rain")