Ultravox

Ultravox

Il romanticismo al tempo del synth

Epici e decadenti, eleganti e malinconici, gli Ultravox hanno colorato la new wave delle tinte astratte dell'elettronica, aprendo la strada alla stagione del synth-pop e ai movimenti "new romantic" dei quali sono rimasti sempre all'avanguardia. Con due distinte stagioni - l'era-Foxx e l'era-Ure - entrambe, per motivi diversi, fondamentali

di Claudio Fabretti

Avanguardisti e melodici, proiettati nel futuro, ma prigionieri di uno spleen romanticamente nostalgico, gli Ultravox hanno incarnato una delle esperienze cardinali dell'intera new wave. Il loro sound futurista e decadente, figlio dell'elettronica pionieristica di Brian Eno e Kraftwerk, ha assorbito il profumo del glam-rock (David Bowie, Roxy Music) e l'inquietudine del punk, aprendo la strada alla stagione del synth-pop e ai movimenti "new romantic", dei quali è peraltro rimasto sempre l'ineguagliato vertice. Al termine di una gloriosa - e sempre sciaguratamente sottovalutata - carriera ventennale, gli Ultravox potranno vantarsi di aver traghettato l'elettronica nella new wave, di aver riportato in auge un sinfonismo melodico art-rock, degno di istituzioni progressive come Genesis e King Crimson, e di aver dato voce all'angoscia esistenziale di una generazione che non si è mai riconosciuta nei vacui idoli degli anni Ottanta.

Due sono le stagioni in cui va suddivisa la storia degli Ultravox: quella sperimentale-robotica segnata dalla leadership di John Foxx (1974-1979) e quella più melodico-romantica che ha seguito l'avvento al timone di Midge Ure. Entrambe, per motivi diversi, sono fondamentali. Diffidate, dunque, di tutti coloro che sciorinano il nuovo, nauseante cliché, quello di una presunta deriva commerciale della seconda fase della band, rea unicamente di aver messo il naso nelle classifiche: sono quelli che, degli Ultravox targati 80, vi citeranno sempre i soliti tre hit, ignorando crassamente tutto ciò che dietro "l'oro finto" (secondo l'ultima, triste definizione di Bertoncelli) luccicava davvero. Sono gli stessi che teorizzano la prostituzione commerciale dei Kraftwerk post-"Autobahn", rinnegando persino i propri teoremi sulla capacità d'innovazione come principale merito artistico (se la band di Dusseldorf ha influenzato moltitudini di band, è proprio per la sua produzione "techno-pop"). Insomma, i soliti talebani della critica, quelli che alla pazienza dell'ascolto e della riflessione, preferiscono la rapidità del luogo comune.

L'era di John Foxx

Il primo nucleo degli Ultravox prende vita nei Tiger Lily, la band formata nel 1974 dallo studente del Royal College Of Art John Foxx (voce) e da Steve Shears (chitarra), reclutando tramite un annuncio su "Melody Maker" anche il canadese Warren Cann (batteria) e Chris Cross (basso). Questa line-up pubblica il singolo "Ain't Misbehavin'", quindi, nel 1976, prende il nome di Ultravox! (il punto esclamativo scomparirà negli anni 80), con l'innesto di Billy Currie (violino e sintetizzatore).
Sotto contratto con la Island Records, la nuova band si fa apprezzare per il primo singolo, "Young Savage", e pubblica l'album d'esordio, prodotto con la collaborazione di Brian Eno e Steve Lillywhite.

My sex is a spark of electro flesh...
Skyscraper shadows on a carcrash overpass...
It wears no future faces, owns just random gender
("My Sex")

Ultravox!Lo straordinario Ultravox! (1977) combina l'elettronica robotica dei Kraftwerk con l'atteggiamento violento del punk, melodie decadenti e riff feroci. L'effetto è straniante, nella miglior tradizione del cabaret surreale ed espressionista in voga nel periodo. E non può non intravedersi la lezione del Bowie in perenne mutazione, che si accingeva a realizzare i suoi capolavori berlinesi insieme allo stesso Eno. Lo scenario è da "Cronache del dopobomba" (per ricorrere all'immaginario di Philip K. Dick): un futuro meccanizzato e terrorizzante, che sopprime la vitalità e annienta l'individuo. Qualcosa di molto simile, insomma, a ciò che oltreoceano, su versanti diversi della stessa new wave, andavano preconizzando Pere Ubu e Devo. A fissare le coordinate del progetto è Cann, con un'ambiziosa definizione: "Una contorta ma uniforme alchimia di melodramma alla Roy Orbison, crudezza Stones o Velvet, testi alla David Bowie/Marc Bolan". Un obiettivo perseguito attraverso il massimo dell'essenzialità: "Canzoni di due minuti e mezzo, tre, con un assolo di quattro battute, massimo otto".
Ma il songwriting è ricco di suggestioni: si spazia dai sapori orientali del singolo "Dangerous Rhythm" all'elettronica nevrastenica di "I Want To Be A Machine", dal recitato alienante di "My Sex" all'anthem contagioso di "Wide Boys", fino al balletto robotico di "Saturday Night In The City" e al melodismo magniloquente di "The Wild The Beautiful And The Damned".
Un immaginario in cui emerge l'idea di una giunzione corpo-macchina di tipica impronta ballardiana, a cominciare da quella "My Sex" che suona come un inno alla sessualità alienata: "My sex is a spark of electro flesh... Skyscraper shadows on a carcrash overpass... It wears no future faces, owns just random gender" ("Il mio sesso è una scintilla di carne elettronica... Una sagoma al neon sopra un'alta città sovrappopolata... Ombre di grattacielo su un incidente sul cavalcavia... Non indossa volti futuri, il suo genere è casuale").
Foxx è l'algido dandy, il vocalist d'effetto di questo ensemble di androidi, ma dietro le quinte comincia a farsi strada il violino (oltre che il synth) di Billy Currie, destinato a divenire la vera anima del progetto. Sfortunatamente per loro, in questo periodo la musica britannica imbocca la strada del punk e la rivoluzione dei neo-romantici di Steve Strange è ancora lontana: la critica li snobba e dovranno passare molti anni prima dell'immancabile rivalutazione tardiva.

Sono molto frustato dal modo in cui siamo costretti a vivere al momento. Essere una persona completa vuol dire accettare la parte più oscura di sé e si dà il caso che sia la parte che mi interessi maggiormente.
(John Foxx)

Nello stesso anno esce anche Ha! Ha! Ha!, in cui spicca l'epica "Hiroshima Mon Amour" (ispirata dall'amore impossibile del film di Resnais del 1959, uno dei capolavori della Nouvelle Vague). Il brano, posto in chiusura dell'album, è una delle prime produzioni britanniche ad annoverare una drum machine (la Roland TR-77 con pattern preselezionati), ma la sua genialità sta anche nello straniante intervento al sax di C.C. (Gloria Mundi) e nell'interpretazione asettica, eppure incredibilmente struggente, di Foxx. Resterà uno dei vertici espressivi della prima stagione degli Ultravox.
Il singolo estratto è però "Rockwrok", omaggio a Marcel Duchamp e al suo giornale RongWrong (il titolo finale fu, a quanto pare, un errore di stampa). Una sorta di boogie epilettico dalle chitarre roventi e dalle liriche particolarmente esplicite: "Come on, let's tangle in the dark/ fuck like a dog, bite like a shark... the whole wide world fits hip to hip". Questa sorta di electropunk si dimostra creatura sempre più ibrida e mutante, lambendo pulsazioni disco nella minacciosa "Man Who Dies Every Day", che mette a nudo l'esistenzialismo cupo di Foxx: "Come essere umano sono molto frustato dal modo in cui viviamo, dal modo in cui siamo costretti a vivere al momento - racconta - essere una persona completa vuol dire accettare la parte più oscura di sé e si dà il caso che sia la parte che mi interessi maggiormente". È ancora J.C. Ballard dietro l'angolo, ma la sua estetica futurista si salda con una visione romantica e decadente, capace di pennellare scenari glaciali come su "The Frozen Ones", che si interroga su uno dei temi-chiave della poetica foxxiana: il rapporto distorto tra la comunicazione, televisiva in particolare, e l'umanità: "Too many pictures on my screen/and they all are screaming at me/ Man I need this insulation/ The only way to stop the rush/ Whenever feelings gets too real/ is to cut the information”. L'angoscia per l'onnipresenza del medium televisivo torna anche su "Fear In The Western World", dove il discorso si allarga alla propaganda politica e religiosa diffusa dai teleschermi in un Occidente allo sbando: "Your picture of yourself it’s a media myth/ Someone told me Jesus was the Devil's lover/ While we masturbate on a magazine's cover/ Mother's still on valium/ Daddy puts the news on tv/ Orphans laughs at the confusion/ Ireland screams/ Africa burns/ Suburbia stumbles/ I can feel the fear in the western world".
In un contesto così alienante, l'umanità resta sospesa nel tempo in una condizione di semi-demenza, inebetita al cospetto dell'alternarsi delle stagioni, come teorizza la splendida "Distant Smile", che inizia su tonalità ambient soffuse per piano, deflagrando, poi, in un'orgia di synth ("Sometimes I always seem to be/ adrift in other times/ with a distant smile"). Non resta, allora, che una "Artificial Life": si completa la trasformazione dell'uomo in automa, una creatura meccanica che insegue il mito della perfezione, finendo stritolata nei gangli frenetici della società postmoderna, con tutti i suoi illusori feticci ("She turned to perfection once, but realised she'd only turned into pain/ She ran through Divine Light/ Chemicals/ Scientology/ Her own sex/ Before she turned away/ And it goes on all night/ The artificial life"). Una parabola declamata su nevrasteniche trame art-rock che riportano alla mente i Roxy Music di "In Every Dream Home A Heartache".
Sono tutti brani di enorme influenza, che ispireranno profondamente i lavori di Gary Numan, pioniere del synth-pop, e la carriera solista dello stesso Foxx.

Ci sentiamo europei. Il sottofondo e le melodie che tendiamo a produrre sembravano... teutonici ancora prima che arrivassimo a Berlino.
(John Foxx)

Ultravox - John FoxxNel 1978 Shears viene sostituito da Robin Simon ed esce Systems Of Romance (1978), primo lavoro con la produzione di Conny Plank, guru del rock elettronico fin dall'era dei leggendari Can. Il disco fonde la visione art-punk del gruppo con un'elettronica asettica, sempre più lontana dall'uomo, e indica a Foxx la strada da seguire una volta abbandonato il gruppo a causa dei ripetuti contrasti con Billy Currie. Foxx, infatti, vuole addentrarsi su sentieri sempre più minimali, laddove Currie vuole sviluppare di più la musica e aprirsi maggiormente alle nuove tendenze che iniziano a prendere piede in Inghilterra, come il fenomeno "New Romantic".
Nel complesso, però, Systems Of Romance suona come un buon compromesso tra le due opzioni, sposando arrangiamenti sofisticati a un approccio diretto ed essenziale, grazie a un ardito intrico strumentale di violini, chitarre, Ems, Arp e Roland TR-77, anche se appare chiaro come la componente elettronica stia diventando predominante. Ne scaturisce un album ancora una volta proiettato nel futuro e destinato a tracciare una scia luminosa su tutto il pop elettronico degli anni a venire. L'iniziale singolo "Slow Motion" è emblematico di questa formula ormai matura, che unisce l'irruenza delle chitarre e il sound raggelato delle tastiere, su ritmi scolpiti da un basso implacabile e dal drumming robotico. "Quiet Men", scandita dal basso sintetico e dalla drum machine, è quasi un manifesto del personaggio-Foxx, ripiegato nell'ombra della sua tranquilla vita privata, a distanza di sicurezza dalle luci della ribalta; ma è soprattutto un formidabile saggio del loro rock elettronico, appeso alle linee nervose della chitarra di Simon e al fantasmagorico synth di Currie, che si produce in un assolo memorabile. Colpiscono nel segno anche la sinuosa "Blue Light", la più sostenuta "Some Of Them" e quella "Dislocation" che, con i suoi singulti di drum machine e tastiere e con i suoi cori spettrali ad assecondare il cantato desolato e asettico, si rivela, forse, l'apice sperimentale di un album graziato dall'ispirazione anche nei suoi episodi apparentemente minori (le romantiche "Maximum Acceleration" e "When You Walk Through Me") e suggellato dal commiato finale di "Just For A Moment" nel segno di un'elettronica diafana e solenne.
Gli Ultravox! divengono così i portabandiera di una new wave tutta europea, che rifugge i cliché del rock americano. Currie usa il violino ripudiando le scale blues e rifacendosi semmai alla classica. E Foxx attinge a un immaginario decadente in linea con le avanguardie del Vecchio Continente: "Ci sentiamo europei - racconta lo stesso leader a Nme - Il sottofondo e le melodie che tendiamo a produrre sembravano... teutonici ancora prima che arrivassimo a Berlino".

Systems Of Romance, però, non mantiene le aspettative commerciali, e la Island ne approfitta per rompere il contratto con Foxx e Simon, che proseguiranno le loro carriere da solisti. Il primo, in particolare, raggiungerà il vertice formale della sua arte con il suo esordio, Metamatic (1980), su sonorità sempre più minimaliste e alienanti ("Underpass", "No One Driving"), e con l'ambizioso The Garden (1981), inno "pastorale", con due perle come "Europe After The Rain" e "Walk Away," che riscoprono gli strumenti acustici offrendo visioni di misteriosi mondi familiari. La carriera dell'ex-leader degli Ultravox proseguirà ancora a lungo, tra esperimenti ambientali, church-music e ritorni di fiamma alle architetture sintetiche dei prime dischi, come Interplay (2011) uscito a nome John Foxx And The Maths, che suggella la clamorosa riscossa del Quiet Man del Duemila, con un pugno di formidabili esercizi di techno-writing, trascinati dal fantastico singolo "Destination".
Ma questa è storia recente. Per riannodare il filo dell'esperienza Ultravox, invece, bisogna calarsi nelle atmosfere fascinose e nostalgiche del movimento New Romantic dei primi anni 80 e del suo indiscusso tempio, il Blitz di Londra.

Eravamo disillusi dal punk e pensammo quindi di fare una serata per tutti i punk più glam che non uscivano nel weekend per paura di essere picchiati.
(Rusty Egan, a proposito del movimento New Romantic)

L'era di Midge Ure

Orfani di Foxx, gli Ultravox! sono in un vicolo cieco. Billy Currie, momentaneamente disoccupato, affoga la sua malinconia nelle notti retro-glamorous del Billy's, un club londinese di Soho in cui il dj Rusty Egan, ex-batterista dei Rich Kids, professava tutta la sua Bowie-dipendenza in un evento settimanale di nome "A Club For Heroes". Un manipolo di inguaribili romantici, eccentricamente abbigliati, tra vistosi make-up, vaporose acconciature, parrucche e abiti aristocratici, si forma attorno a queste serate danzanti, che mescolano il Duca Bianco ai Kraftwerk, le suggestioni cinematografiche d'antan al nascente electro-pop. La congrega si allarga e mette radici nel più ampio Blitz, un locale londinese in cui, oltre a Egan, si fa strada il suo coinquilino Steve Strange: uno stravagante dandy irlandese con un passato di commesso nello spaccio di una base militare. Insieme, Egan e Strange fissano le coordinate della nuova estetica New Romantic: "Entrambi eravamo disillusi dal punk e pensammo quindi di fare una serata per tutti i punk più glam che non uscivano nel weekend per paura di essere picchiati", spiegherà Egan.
La loro creatura musicale si chiama Visage ed è un incredibile supergruppo, che, insieme ai due sodali, annovera il trio delle meraviglie dei Magazine - John McGeoch, Barry Adamson e David Formula - e proprio Billy Currie, oltre a un cantante e chitarrista scozzese di nome Midge Ure, componente dei Slick e dei The Rich Kids (con Egan e l'ex-Sex Pistol Glen Matlock).
Secondo la definizione di Strange, il termine "Visage" stava a indicare l'attitudine "visuale" del gruppo ("Vis") e la nuova era ("Age") della dance music. Il frutto prelibato di tanta grazia è una fantastica ballata di dance atmosferica in puro stile new romantic, dall'accattivante titolo di "Fade To Grey". Praticamente una bomba, che farà collassare le chart raggiungendo il n.1 in 21 paesi. "Fade To Grey" sarà il singolo trascinante dell'album omonimo d'esordio dei Visage, cui seguiranno due prove più opache ("The Anvil", "Beat Boy") tra continui cambi di formazione.
Non bastasse la loro breve parabola, i Visage resteranno sempre benemeriti nella storia del rock per aver fornito l'occasione agli Ultravox di una seconda vita. Currie, infatti, vede in Ure il frontman perfetto per una rinascita della band e richiama in servizio Cross e Cann. Il gruppo, che ora si chiama semplicemente Ultravox (senza punto esclamativo), firma con la Chrysalis Records.

Nel 1979 il punk volge ormai al tramonto. I Blondie e i Cars hanno già lanciato nel mondo il disco-punk, variante ballabile e levigata del "no future" di Ramones, Clash e Sex Pistols. In Gran Bretagna cominciano ad affacciarsi i primi gruppi di synth-pop e di dark-punk. E si fa largo tra le nuove generazioni un umore più quieto e malinconico, destinato a pervadere l'intero decennio 80. Gli orfani del punto esclamativo riescono a catturare lo spirito del decennio, sintetizzandolo in una nuova formula musicale. Per Midge Ure i nuovi Ultravox sono "una rock band che usa il sintetizzatore". Nasce così un sound che farà dell'equilibrio tra sperimentazione elettronica e melodismo crepuscolare la sua chiave di volta. Sontuosi sintetizzatori, ritmi ossessivi, virtuosismi di violino e tesi assoli di chitarra ne saranno i principali ingredienti.

On a crowded beach
washed by the sun
He puts his headphones on
His modern world revolves around the synthesizer's song
Full of future thoughts and thrills
his senses slip away
He is a European legacy
A culture for today
("New Europeans")

Ultravox - Midge UreIl primo capolavoro di questo nuovo corso è Vienna (1980), che spopola in Europa grazie al fascino decadente della title track, primo pezzo degli Ultravox a entrare in classifica. È una piece di pop sinfonico, magistralmente orchestrata da Currie, con il canto di Ure melodrammatico come non mai: il suo urlo "This means nothing to me" non vuole esprimere rassegnata indifferenza, ma il lamento per il passato perduto. A fruttare alla band un inaspettato successo commerciale sono anche l'elettropop ultraveloce di "All Stood Still", il synth-pop vigoroso di "Sleepwalk" (con un canto di Ure che può ricordare quello di Trevor Horn in "Drama" degli Yes, con l'aggressivo battito di Cann e la deliziosa viola di Currie nel finale) e il refrain più convenzionale di "Passing Strangers". A ben vedere, però, è in altre tracce che va rinvenuto il valore dell'album. A cominciare dall'iniziale "Astradyne", sette minuti di elettronica sperimentale che riecheggia i tempi d'oro di Kraftwerk e Tangerine Dream, così come "Mr X", altro saggio di questo sound robotico che sembra provenire da "Man Machine": è la storia di un misterioso viaggiatore narrata da Chris Cross con registro glaciale su un lussureggiante tappeto di synth, con l'irruzione finale della viola di Currie.
Manifesto culturale del disco è invece "New Europeans", con la chitarra lacerante di Ure accompagnata dal battito ossessivo della batteria elettronica e dai ghirigori astratti delle tastiere, che lasciano spazio nel finale a un magnifico piano. L'Europa degli Ultravox è un continente corroso dalla decadenza, raffigurato con scenari glamour quasi hollywoodiani (stile "Julia"), ma capace di gettare uno sguardo inquieto sul futuro: "On a crowded beach/ washed by the sun/ He puts his headphones on/ His modern world revolves around the synthesizer's song/ Full of future thoughts and thrills/ his senses slip away/ He is a European legacy/ A culture for today" (da "New Europeans"). Musicalmente, Ure e soci compiono un'operazione inversa a quella portata avanti in quegli anni da Trevor Horn: non sovvertono le strutture della canzone pop, ma le convertono in un formato artistico, attraverso contaminazioni con l'elettronica (le tastiere) e la classica (il violino). A lanciare in orbita gli Ultravox nel circuito alternativo sono anche i loro meravigliosi video, ispirati a un espressionismo cupo e a un glam decadente nello stile di Bowie e Roxy Music. In Italia, sarà il benemerito Carlo Massarini, con il (mai troppo rimpianto) programma tv "Mister Fantasy" a farli conoscere al pubblico.

Siamo una rock band che usa il sintetizzatore.
(Midge Ure)

Rage In Eden (1981), ultimo album prodotto da Conny Plank, può vantare un solo hit, l'inno dai risvolti orwelliani di "The Voice" (robusto guitar-rock condito da raffinati rintocchi elettronici e da un drumming martellante), ma conferma gli Ultravox all'avanguardia del movimento elettro-rock dell'epoca, insieme ai connazionali Japan. È il disco del capolavoro "I Remember (Death In The Afternoon)", una delle loro tipiche ballate decadenti, tanto struggenti quanto trascinanti: il drumming ossessivo di Cann asseconda l'andamento sinuoso delle tastiere di Currie, con la chitarra tesa e la voce metallica di Ure che accrescono il pathos, preparando l'ingresso a una partitura di piano di struggente bellezza.
L'intero lavoro è in realtà un nuovo incubo futurista, come testimoniano una serie di episodi di marca prettamente sperimentale (alla faccia della presunta svolta commerciale teorizzata dai soliti balordi). La robotica "The Thin Wall" si snoda su una sorta di recitato di Ure, contrappuntato dalle pulsazioni elettroniche dei synth; la straniante "Stranger Within" è tutta giocata su una trama elettronica criptica e sinistra; "Accent On Youth" è impreziosita da magnifici ricami chitarristici, a screziare la spessa coltre delle tastiere; "Your Name (Has Slipped My Mind Again)" suona ancora più apocalittica, con il lamento mortifero di Ure che echeggia nel vuoto, accompagnato solo da un cupo rimbombo e dalle raggelanti tastiere di Currie, disegnando uno scenario da Day After in cui si colloca anche la non meno funerea title track, propulsa da un battito meccanico e ammantata di cupezza dai cori d'oltretomba. Ma il genio si coglie anche dalle sfumature, come nel breve (e strabiliante) intermezzo strumentale di "The "Ascent", con le tastiere e il violino di Billie Currie che si sfidano in un maestoso crescendo alla Schulze da lasciare senza fiato.
Ci vuole una buona dose di disonestà per tacciare di "svolta commerciale" un album di tale complessità e valore. Ma la critica del tempo sarà troppo distratta per accorgersi che gli Ultravox non sono solo l'ennesimo gruppo di synth-pop (come vengono superficialmente etichettati), ma ancora una band d'avanguardia, che maschera dietro qualche hit più orecchiabile ambiziosi intenti sperimentali.

UltravoxLa musica degli Ultravox si fa sempre più romantica, ma forse un po' meno intensa sul successivo Quartet (1982), prodotto da sua maestà George Martin, il guru dei Beatles, e forte di un altro hit, la trascinante "Hymn", apologo pessimista su "potere e gloria". Il disco abbandona quasi del tutto le suite strumentali che avevano fatto la fortuna della prima fase del nuovo corso-Ure, per concentrarsi su un genere assai ricercato di "canzone elettronica". Nascono così altre gemme come la malinconica "Visions In Blue", con il synth di Currie mai così struggente, la disperata "Mine For Life", forte di uno dei migliori assoli di chitarra di Ure, che ingaggia un nuovo, formidabile corpo a corpo con le tastiere, e l'incalzante "When The Scream Subsides", che fonde sapientemente energia rock e vena melodica, imbroccando un ritmo ubriacante e irresistibile.
Un certo manierismo rischia di minare brani come "Reap The Wild Wind" e "Serenade", che conservano tuttavia una rarefatta eleganza. L'altro singolo, "We Came To Dance", è invece un fiacco seguito dell'electro-glam di "Vienna".
Nel complesso, Quartet denuncia qualche limite nella nuova formula di Ure e compagni, forse ancora non pronti per compiere un passo più marcato verso i ritornelli pop e le canzoni più immediate, che invece sbocceranno copiosamente nel successivo album in studio.

Un anno dopo esce Monument: The Soundtrack, che raccoglie dal vivo otto brani più l'inedita "Monument" e dimostra soprattutto come Ure e compagni sappiano ricostruire nelle loro esibizioni live l'atmosfera incantata e struggente dei loro dischi.

It's late and I'm with my love alone
We drink to forget the coming storm
We love to the sound of our favorite song
Over and over
Dancing with tears in my eyes
Living out a memory of a love that died
("Dancing With Tears In My Eyes")

Meno ricercato e più consono ai canoni del pop-rock, Lament (1984) è l'ultimo grande disco degli Ultravox, che in seguito si perderanno per strada tentando perfino un'improbabile "conversione" acustica. L'album risente in minima parte di quella contaminazione con il folk celtico che Midge Ure tenterà di portare avanti nell'ultimo disco di questa fase, U-Vox, e nei suoi lavori da solista. Ma a brillare è ancora l'epos romantico della band.
Il melodrammatico singolo "Dancing With Tears In My Eyes" indovina un refrain memorabile, aprendosi in una melodia nostalgica di grande suggestione: a contribuire al suo successo sarà anche un videoclip ad effetto, che narra gli ultimi momenti d'intimità di una coppia prima che un'esplosione nucleare spazzi via ogni cosa, bruciando anche il film dei ricordi. Il secondo 45 giri, "One Small Day", segna uno dei momenti più rock del periodo-Ure, insistendo su un refrain semplice e immediato, che va dritto al bersaglio. Gli Ultravox non dimenticano, però, di essere una band capace di colpire al cuore, come confermano i due capolavori del disco: la title track "Lament", una struggente litania intonata da Ure su fondale di tastiere crepuscolari, e la commovente "Man Of Two Worlds", un'impennata melodica prodigiosa su tela elettronica, impreziosita dagli stupendi vocalizzi femminili in gaelico, a cura di Mae McKenna. E a corroborare il pathos provvede anche la conclusiva "A Friend I Call Desire", che decolla su un magistrale riff di chitarra sopra una distesa di synth, con uno Ure in stato di grazia al microfono, assecondato da nuovi vocals femminili.
Completano il ricco menù "White China" e "Heart Of The Country", due gradevoli saggi di pop elettronico, che tuttavia non aggiungono granché al repertorio della band. Un repertorio che nello stesso anno viene sintetizzato in The Collection, antologia dei singoli del periodo post-Foxx (1980-'84), contenente anche l'inedita "Love's Great Adventures", in cui Ure svela tutta la sua auto-ironia nei panni di un improbabile avventuriero da Camel Trophy (il brano in sé, invece, non lascia il segno).

Ma all'apice del successo, la band inizia a sgretolarsi. Nel 1986 il batterista Warren Cann comunica la sua intenzione di abbandonare, a seguito di incomprensioni con Ure. I tre superstiti ingaggiano così Mark Brzezicki dei Big Country per terminare le registrazioni di U-Vox. L'album, però, delude oltremodo le attese, virando verso uno scialbo folk-rock dal messaggio vagamente cristiano, prodotto, per di più, in modo patinato e ottuso, attenuando del tutto ogni pathos. Un pasticcio di cui è sintesi emblematica il singolo "Same Old Story", che introduce goffamente dei fiati attorno a una struttura che frana già al primo ascolto.
L'antimilitarista ode folk "All Fall Down", registrata insieme ai Chieftains, regala forse le uniche emozioni, ma certo ha poco a che fare con la storia e l'estetica della band, mentre la più classica "Follow Your Heart" non fa che aumentare i rimpianti per il passato.
Gli Ultravox sono arrivati al capolinea e si sciolgono un anno dopo.

Ho lasciato la band perché non ero più felice, anche se eravamo ancora piuttosto popolari. È stato difficile. Non potevo uscire e riprodurre il suono degli Ultravox, ma capire cosa volevo dire in base alle mie sensazioni. Mi ci è voluto del tempo.
(Midge Ure)

La diaspora

Ultravox - Midge Ure"Ho lasciato la band perché non ero più felice, anche se eravamo ancora piuttosto popolari - racconterà Ure - È stato difficile. Non potevo uscire e riprodurre il suono degli Ultravox, ma capire cosa volevo dire in base alle mie sensazioni. Mi ci è voluto del tempo".
Il chitarrista e cantante scozzese intraprenderà la carriera solista, pubblicando una serie di album tutt'altro che esaltanti: The Gift (1985), lanciato dallo stucchevole singolo "If I Was"; Answer To Nothing (1988), con la partecipazione di Kate Bush e l'ode religiosa "Dear God"; Breathe (1996) con l'exploit della title track, trasformata in hit da uno spot pubblicitario; e Move Me (2000), all'insegna di un pop pomposo e fatuo, con l'unica eccezione di "Monster".
A riscattare le sorti di un percorso extra-Ultravox decisamente deludente, ci sono almeno un paio di episodi: la cover walkeriana di "No Regrets" (1982) e la collaborazione con Mick Karn dei Japan nella suggestiva "After A Fashion" (1983).
Oltre alla militanza negli Ultravox, il principale merito di Ure resterà l'aver ideato insieme a Bob Geldof il più grande evento musicale degli anni Ottanta, Live Aid, preceduto dal singolo per beneficenza "Do They Know It's Christmas?" (realizzato da una superband con, tra gli altri, Paul McCartney, Sting, Bono Vox, Phil Collins, George Michael, Boy George, Eurythmics, Duran Duran e Spandau Ballet).

Nel 1993 Currie riassume il controllo del gruppo e Tony Fennell prende il posto di Ure, ma Revelation è un flop. Due anni dopo Currie forma una nuova line-up per Ingenuity, con Sam Blue alla voce e Vinny Burns alla chitarra, portando avanti anche un tour, testimoniato dal live Future Picture (1995). Ma degli Ultravox, ormai, è rimasto solo il nome.
Currie si dedicherà poi al suo primo progetto solista, Transportation (1998), interamente strumentale, in collaborazione con Steve Howe, l'ex-chitarrista di Yes e Asia, seguito da diversi altri progetti.

Quello che infastidisce di più, però, negli anni successivi, è la stolida e sbrigativa opera di liquidazione della fase-Ure da parte di una critica miope, che non va oltre una disamina grossolana di quei quattro successi da classifica, ignorando (o meglio: non conoscendo) tutto il resto, e si esercita in un tiro al bersaglio sarcastico, in cui i svettano "perle" come il presunto crollo artistico ai limiti del "ridicolo" sotto la guida di "baffetto Ure", la succitata definizione bertoncelliana di "oro finto" e altre imbarazzanti dissertazioni che arrivano a vaneggiare di "derive commerciali" e "svolte dance", denotando - delle due l'una - o una palese malafede oppure una insuperabile capacità di immaginazione (quanta ne serve per trasformare in riempipista brani come "Astradyne", "Your Name" o "The Ascent").  

Un ritorno (poco) Brilliant


Quando il nome Ultravox sembra rimasto appannaggio dei soliti nostalgici della new wave "vera", alle prese con una snervante disfida con i nuovi emuli "nu", ecco che, improvvisamente, Midge Ure e compagni si ritrovano, riformando addirittura la storica line-up di Vienna.
Dapprima il reunion tour del 2009, quindi, nel 2012, un nuovo disco con la produzione di quel Stephen Lipson già braccio destro di Trevor Horn, e dunque corresponsabile delle fortune dei Frankie Goes To Hollywood, di Grace Jones e ancor più dei Propaganda.
Che Brilliant (2012) miri ad aggredire il palato dei fan più accaniti lo si capisce sin dall'inizio: "Live" è il classico anthem ureiano base-brigde-ritornello con tanto di "oh oh oh ohh" e schitarrata a supporto, e la sua figura la fa, tanto da indurre a pensare che sarebbe stato meglio proporla come singolo. Poi arriva "Flow", un pop elettronico da far la gioia dei Killers, e quindi il discusso singolo "Brilliant", una sorta di "Reap The Wild Wind" che però, a differenza di quest'ultima, non lascia presagire fra le sue pieghe un album a colpi di "Visions In Blue" e di "Hymn". Se "Change" passa via senza infamia né lode, "Rise" mette a fuoco l'obiettivo su robotizzazioni prossime all'era-Systems Of Romance, in un curioso contatto con le odierne produzioni di Foxx, con uno di quei micidiali assoletti di synth che solo Currie sa fare e che alla prova degli ascolti si rivela come la migliore del lotto, per quanto Midge provi a minarla, senza riuscirvi, con un risparmiabile falsetto d'inciso.
Ma le vere magagne arrivano dopo, allorché si riappalesano le impuntature da primadonna di Ure, in un poker di marmittone indigeste che prendono il nome di "Remembering", "One", "Fall" e di "Contact". Currie riappare in "Hello", non eccezionale ma comunque un buon salvagente in mezzo alla palude di cui sopra, e in "Lie", una sorta di "Live" in chiave minore con tanto di cartella d'iscrizione a ruolo recapitata ai Muse giusto in coda (ma la circostanza era già emersa nell'accorato arpeggio chitarristico di "Flow").
Un discorso a parte merita "Satellite", in quanto emblema di questo contrastato concepimento: il tiro è quello dei tempi migliori, chitarra e rullatona sono al loro posto, il pathos è al giusto livello, il tanto promesso violino a campeggiare solenne ma poi... ecco il ritornello di "Storie di tutti i giorni", la sempreverde hit di Riccardo Fogli che però è anche l'orlo del precipizio per quella che rimane la synth-wave band melodica per eccellenza.
Un disco che delude le attese, dunque, ma che se non altro offre l'opportunità a chi li perse all'epoca di poter vedere gli Ultravox dal vivo, in un tour europeo che tocca anche l'Italia.

 

Epici e decadenti, eleganti e irriducibilmente romantici, gli Ultravox hanno colorato la new wave delle tinte astratte dell'elettronica, riuscendo a umanizzarla grazie a un formidabile talento melodico e a composizioni tanto lambiccate quanto emozionanti. Insieme ai Japan di David Sylvian, hanno raggiunto le vette più alte del rock elettronico targato anni Ottanta.

 

Contributi di Marco Bercella ("Brilliant")

Ultravox

Discografia

ULTRAVOX! (JOHN FOXX)

Ultravox! (Island, 1977)

8

Ha!-Ha!-Ha! (Island, 1977)

8

Systems Of Romance (Island, 1978)

7,5

Live At The Rainbow 1977 (live, Island/UMC, 2021)

7


ULTRAVOX (MIDGE URE)

Vienna (Chrysalis, 1980)

8,5

Rage In Eden (Chrysalis, 1981)

8

Quartet (Chrysalis, 1982)

7

Monument, The Soundtrack (Chrysalis, 1983)

6,5

Lament (Chrysalis, 1984)

7,5

The Collection (antologia, Chrysalis, 1984)

7

U-Vox (Chrysalis, 1986)

4

The Peel Sessions (live, Dutch East India, 1988)

Rare, volume 1 & 2 (antologia, Chrysalis, 1993-94)

Dancing With Tears In My Eyes (antologia, Disky, 1996)

The Very Best Of Midge Ure and Ultravox (Chrysalis, 2001)

7

The Very Best Of Ultravox (cd + dvd, antologia, Chrysalis, 2009)

Return To Eden: Live At The Roundhouse (live, Chrysalis, 2010)

Brilliant (Emi, 2012)

5,5


ULTRAVOX (BILLY CURRIE)

Revelation (Deutsche Schallplatten Berlin, 1993)

4

Ingenuity (Resurgence, 1994)

Future Picture (live, Receiver Records Limited, 1995)


MIDGE URE

The Gift (Chrysalis, 1985)

5

Answers To Nothing (Chrysalis, 1988)

5

Pure (RCA, 1991)

4

If I Was: The Best Of Midge Ure and Ultravox (Chrysalis, 1993)

7

Breathe (Arista, 1996)

6

Move Me (Arista, 2000)

4

10 (Hypertension, 2008)


BILLY CURRIE

Transportation (Atlantic, 1988)

Pietra miliare
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 Ultravox
  
The Wild, The Beautiful And The Damned (Island promo, da Ultravox!, 1977)
Hiroshima Mon Amour (live, da Ha Ha Ha, 1977)
Vienna (videoclip, da Vienna, 1980)
Passing Strangers (videoclip, da Vienna, 1980)
The Voice (videoclip, da Rage In Eden, 1981)
Hymn (videoclip da Quartet, 1982) 
Visions In Blue (videoclip da Quartet, 1982)
Mine For Life (live, da Monument - The Soundtrack, 1983)
Dancing With Tears In My Eyes/Vienna (live, da Live Aid, 1985)
 Dancing With Tears In My Eyes (videoclip da Lament, 1984)
Lament (videoclip da Lament, 1984)
One Small Day (videoclip da Lament, 1984)
Man Of Two Worlds (videoclip da Lament, 1984)
Love's Great Adventure (videoclip da The Collection, 1984)
Same Old Story (videoclip da U-Vox, 1986)
  
 John Foxx
  
Underpass (videoclip da Metamatic, 1980)