Boy George

Boy George

L'imprevedibile karma del Camaleonte

Poliedrico, colorato e scandaloso: tutti sanno chi è Boy George. Pochissimi, però, conoscono veramente il suo lungo, schizofrenico e tutt'altro che scontato percorso solista; una carriera che, dal 1987 a oggi, ha travalicato ogni confine della tradizione, regalandoci una discreta quantità di aneddoti e drammi, ma anche qualche gemma rimasta ingiustamente sepolta sotto la polvere.

di Damiano Pandolfini

Piero Chiambretti: Lei, negli anni 80, ha venduto, col suo gruppo e poi anche da solo, 50 milioni di dischi. E poi, piano piano, lei si è perso! E' entrato in un tunnel, e poi piano piano adesso ne sta uscendo. Cosa è successo... what happened?

Boy George: Ma forse sono scomparso nella sua, di vita, ma sono rimasto in quella di tante altre persone... forse lei è un po' vecchio... Il fatto di non essere in tv non significa essere in coma, per tutti questi anni ho fatto altre cose al di là della televisione! Sono stato in prigione, sono stato arrestato... mi sono divertito un sacco!

Una risposta del genere dovrebbe bastare e avanzare per farsi un'idea. Le mezze misure non sono mai state il piatto forte per George Alan O'Dowd, alias Boy George. Una vita percorsa controcorrente, fin da bambino, quando ad appena 11 anni riuscì a persuadere il padre a mandarlo al concerto dell'alieno Ziggy Stardust, poi qualche anno dopo alla testa dei Culture Club di fronte a milioni di persone, e oggi non sembra certo aver perso l'attitudine. Amatelo o odiatelo (come la famosa Marmite tanto cara agli inglesi), perché nei suoi continui saliscendi mediatici Boy George ha raccattato critiche, denunce, processi e sentenze, riempiendo tutte le righe disponibili sulla sua fedina penale: al confronto i Sex Pistols sono delle mammolette.

Quello che ne ha sofferto, ovviamente, è stata l'attenzione rivolta alla sua arte. Boy George è da sempre un autore pop di spessore, dotato di un ottimo fiuto per la melodia e un'arguta penna, con la quale scrive brani toccanti, sarcastici e pungenti. Ma, con l'esclusione di Sold (pubblicato nell'ormai lontanissimo 1987), la sua lunga carriera post-Culture Club è passata praticamente tutta sottotraccia, facendosi notare, semmai, negli ambienti underground con gli episodi più dance ed electro. Non sarebbe sbagliato dire che, per molti, il Boy George cantante è ancora la damina di porcellana cinese di "Karma Chameleon". Invece, il suo percorso solista è stato tutt'altro che scontato. Può anche capitare di vederlo prender parte a qualche triste serata nostalgia dove reinterpreta i vecchi successi della sua band, ma lo fa solo per pagarsi una cauzione di tanto in tanto. La verità è che in oltre 30 anni di attività Boy George si è dimostrato un'instancabile personalità a tutto tondo. Ha prodotto la musica più disparata (pop, soul, acid-house, techno, electroclash, glam-rock, reggaeton, un disco acustico, blues e quant'altro), ha scritto un musical di gran successo sulla scena new romantic da lui stesso frequentata ai tempi ("Taboo", 2002), ha pubblicato un paio di biografie (irriverenti e diffamatorie, ovviamente), ha una sua etichetta affiliata alla Virgin - la More Protein, con la quale si specializza nel lanciare artisti underground (tipo le E-zee Possee di "Everything Starts With An E") - e una casa di moda chiamata B-Rude, con la quale dà libero sfogo al culto dell'immagine, un fattore da sempre centrale nel suo personaggio. Inoltre, da fine anni 80 a oggi, si è pure trasformato in dj di tutto rispetto, puntualmente invitato a tenere serate a Ibiza o in qualche club privato (solitamente in compagnia dell'amico e collega Marc Vedo). Chi ha avuto la malaugurata idea di seguirlo su Twitter sa che verrà quotidianamente tampinato con le sue richieste per farsi votare nella top 100 di DJ Mag.

Certo, la caratteristica linguaccia ruvida e schietta gli è sempre rimasta. Ha un fronte aperto con la Radio Bbc1 perché a suo giudizio esiste un complotto implicito sul fatto che, da anni a questa parte, non gli passino mai i suoi pezzi ("ma se si aspettano che gli scriva una nuova 'Karma Chameleon', possono anche andare all'inferno"). Più propriamente, però, sono stati il tanto chiacchierato arresto di qualche anno fa e la condanna per sequestro di persona dell'escort Audun Carlsen, ad averlo messo letteralmente con le spalle al muro. Lui l'ha presa con filosofia e ironia, dice, ma sono stati momenti veramente bui, per lui e per il pubblico che, disgustato, gli ha voltato le spalle.
Sembrava che i riflettori si fossero spenti una volta per tutte. Invece Boy George si è rimesso in sesto, ha perso una tonnellata di peso e si è pure fatto crescere la barba, e sta tornando alla ribalta nel 2013 con un nuovo disco chiamato This Is What I Do; l'attenzione che sta ricevendo potrebbe portarlo a un successo che non toccava, nelle sue avventure soliste, da oltre un ventennio.

Ognuno mantenga la sua opinione sullo scomodo Boy George. Per alcuni potrà rimanere una macchietta kitsch dai plastici archivi degli anni 80, mentre per l'intero movimento transgender e surrogati  (Antony in primis) è da sempre una fonte d'ispirazione; c'è chi lo ricorda come il disco-hare krishna con l'eyeliner, e chi invece come un raffinato songwriter acustico. Su una cosa però si può star certi: che faccia del bene, o che faccia una cazzata delle sue (concedetemi il termine), Boy George non si nasconde mai. Tra un pugno dato e uno preso, tra un altalenante abuso di droghe quasi trentennale, la depressione o l'affibbiato status di popstar decaduta, il suo spirito combattiero da irlandese della working class si è solo andato rafforzando nel tempo. E oggi, sorpassato il mezzo secolo d'età, George O'Dowd è la figura pubblica più nuda, vulnerabile e al contempo veritiera d'Inghilterra. Basta sentirlo cantare, con quella voce fattasi roca, pastosa e maliconica come un consumato bluesman, per capire che sotto il trucco si nascondono un fascio di nervi ed emozioni sempre a fior di pelle. Tenterò quindi di dare il più spazio possibile alla musica, ma in linea con i canoni del personaggio non si può che cominciare con un dramma.

(S)venduto

Boy GeorgeL’avevamo lasciato in tribunale, sul finire del 1986, dopo esser stato arrestato per possesso di droga, con la sua ex-band Culture Club allo sfascio totale e un impedimento a metter piede negli Usa. Invece, rieccolo Boy George, dopo qualche mese appena, ben truccato e con una zazzera ossigenata come un clone di San Francisco, che ondeggia candidamente sul sintetico ritmo reggae di un vecchio standard quale “Everything I Own”. Il contratto con la Virgin è sempre valido, così a meno di un anno di distanza Sold (1987) segue all’implosione dei Culture Club come niente fosse. Solista o meno, bisogna far cassa.
Ma con così poco tempo a disposizione - e con situazioni personali ben più pressanti – la qualità del lavoro si attesta nuovamente sotto la media. Pur con il rientro in cabina di regia dello storico produttore dei primi Culture Club - Steve Levine - Boy George (ri)propone il solito mix di r’n’b danzereccio, reggae, strati di ottoni, chitarre funky, in onore del suo nuovo idolo Prince, e una produzione fine anni 80 luccicante e plastificata, dove l’uso massiccio dei sintetizzatori formatta qualunque slancio melodico di troppo. Ma soprattutto, a stonare è proprio l’immagine stessa del cantante, che sembra continuare a fare la popstar innocente e sbarazzina per contratto, e non esprime un briciolo dell’evidente dramma che si sta consumando nella sua vita personale.
Con l’eccezione di qualche blando testo inneggiante alla libertà d’espressione (“Freedom”) o di un’ironico “lasciatemi in pace” (“Next Time”) non vi è minima traccia del Boy George onesto, tragico e sboccato che tutti conoscono. Canzoni d’amore andato male (“I Asked For Love”, “Just Ain’t Enough Love”) o sulla via di guarigione (“We’ve Got The Right”), debole protesta sociale al governo Thatcher (“Sold”), un po' di tardo glam (“Little Ghost”) o di r’n’b d’annata condito da una sbarazzina sezione di fiati (“Keep Me In Mind”) regalano poco e nulla. Sottotono pure la ballata d’obbligo, “To Be Reborn” - resa famosa più che altro per il video che verrà clamorosamente copiato da Madonna qualche anno più tardi per girare quello di “This Used To Be My Playground”.

In America Sold verrà largamente ignorato, ma al pubblico inglese la nuova incarnazione di Boy George piacerà al punto da mandare “Everything I Own” al n.1 della chart, mentre gli altri tre singoli si posizioneranno tutti entro la top 30. Niente di troppo eclatante, ma comunque un ottimo risultato perché visti i precedenti – e la qualità non proprio eccelsa del lavoro – un simile successo era tutt’altro che auspicabile. Anche in Europa il disco venderà piuttosto bene, mentre in Italia otterrà addirittura il suo più grande consenso di sempre, sorpassando per vendite e popolarità pure i tempi di “Colour By Numbers”! Della serie, meglio tardi che mai.

B-Boy George e la sua Crew

Boy GeorgeUn anno appena e le cose cambiano drasticamente. Svestiti i panni giornalieri della popstar famosa, Boy George ritrova conforto nel familiare mondo underground dal quale era provenuto con i Culture Club nell'era new romantic. La scena adesso è completamente diversa rispetto all’ambiente post-punk dei primi anni 80, ma per Boy George sono ugualmente mesi vissuti intensamente, tra forti sperimentazioni lisergiche, frequenti visite ai rave, una nuova relazione sentimentale non sempre stabile con Michael Dunne, l'incontro di nuove grandi amicizie - come quella con la sboccata Caron Geary aka McKinky, un minuta ragazzina bianca capace di far fluire un toastin' rozzo come pochi - e un fervore creativo che non sempre riesce a incanalarsi a dovere. Nello stesso periodo avviene, ad esempio, la creazione della sua etichetta More Protein (che tuttora lo aiuta a dar sfogo alla sua passione per la dance e promuovere artisti underground) e pure il lancio della casa di moda B-Rude, che mantiene il suo negozio nella zona decisamente trendy di Shoreditch, a Londra.
Musicalmente pure le cose cambiano. Frequentando assiduamente la vita notturna londinese, Boy George si espone, anima e corpo, alle varie tendenze che animano la florida scena dance. Hi NRG e house girano forte nelle casse, ma non solo; in quel di Chicago, un trio di dj dal misterioso nome Phuture ha messo mano a un vecchio Roland Tb-303 senza saperlo usare propriamente, e nel distorcerne all’inverosimile la funzione del basso, ha involontariamente gettato le basi sulle quali si fonderà il fenomeno dell’acid-house. “Acid Tracks” (1987) “The Creator” e “We Are Phuture” (entrambi dell’88) sono a tutt’oggi considerati i capostipiti del genere.

Mescolando quindi le nuove tendenze house con il fenomeno black che sta spopolando oltreoceano sotto il nome di new jack swing e il solito soul-pop vocale da contratto con la Virgin, si può avere una vaga idea del guazzabuglio che compone Tense Nervous Headache (1988) e il suo poco degno successore Boyfriend (1989). Nelle intenzioni di alcuni addetti ai lavori, Boy George potrebbe trasformarsi in una sorta di b-boy da lanciare in risposta alle varie Janet Jackson o Bobby Brown del caso. Alla produzione di Tense Nervous Headache contribuisce Bobby Z, già batterista di Prince, mentre tra i collaboratori appaiono Teddy Riley (personalità piuttosto nota sulla scena ai tempi, già al lavoro con suddetto Bobby Brown) e Mike Pela (Sade). Tuttavia, un po' per la confusione generale che regna in studio, un po' per la nota idiosincrasia dell'interprete (e il suo debilitante uso di droghe) i lavori prendono ben presto una piega a zig-zag.
Trovare un filo conduttore tra le varie sonorità del disco è impossibile, ma in certi frangenti la nuova veste stranamente funziona. Tagliate dove possibile le sezioni acustiche, ma ponendo molta più attenzione alla cura della parte sintetica, Tense Nervous Headache suona sfacciatamente eighties, e a tratti sembra di ascoltare due dischi in uno, ma il rinnovato Boy George fa centro con un paio di ottimi brani in entrambi i frangenti. Da un lato ci sono i pezzi che ammiccano alla moda del periodo, mentre dall’altro l'autore si lancia in una disperata fuga verso la libertà d’espressione e di confessione dei propri drammi, anche a costo del suicidio di pubblico (che difatti arriverà puntuale). Sul lato del pop più canonico si salva indubbiamente “Don’t Cry”, splendido brano soul vecchio stampo che si attesta senza problemi tra le sue migliori performance vocali di sempre - peccato semmai che le sue sorti come singolo di lancio sono a dir poco disastrose. Pure “Something Strange Called Love” e l'altro singolo “Whisper” si lasciano ascoltare con piacere, anche se sono innegabilmente invecchiate con tutti gli acciacchi dell’età. Carine, ma certo non indispensabili, “Mama Never Knew”, la sbarazzina “I Love You” o la più canonica “I Go Where I Go”, mentre “American Boyz” tenta di ricalcare il Bowie di “Young Americans” senza riuscirci granché bene.
Quando però la valvola di sfogo viene lasciata aperta, i risultati crescono. Con “You Are My Heroin” (altro titolo che si spiega tragicamente da solo) arriva la dolorosa confessione: nei suoi sei minuti di Motown possente, tesa e inacidita, Boy George si racconta per la prima volta con la voce rotta dall’emozione, intonando parole drammatiche e pregne di un autolesionismo spietato ma oltremodo veritiero. A dir poco spiazzante, ma geniale, il bizzarro esperimento ragamuffin “Kipsy” (col carismatico toastin' dell'amica McKinky), e l’oscuro racconto di amore multirazziale “Girl With Combination Skin”, forte di una produzione talmente compatta che sembra essere uscita dalla mano di Trevor Horn. Altrove, Boy George mostra le unghie contro il governo conservatore della Thatcher, con la scanzonata e divertentissima “No Clause 28”, scritta in risposta alla clausola 28 secondo la quale viene vietata “ogni promozione di omosessualità da parte del pubblico ufficiale”; il video/parodia che l'accompagna è tutto un programma.
Alla Virgin, tuttavia, Tense Nervous Headache non va giù. Volutamente mal promosso, e mai stampato in America, finirà immediatamente fuori catalogo e dritto nel dimenticatoio, dove rimane, un po' ingiustamente, tutt’oggi.

Non contento, Boy George rincara la dose, ma stavolta il danno è annunciato. Boyfriend (1989) ha forse il pregio (o meglio, l’incoscienza) di lanciarsi senza rete nel mondo della musica dance - confermandosi un lavoro molto importante a livello personale per un artista che di lì a breve si reinventerà ufficialmente come dj di tutto rispetto – ma dal punto di vista qualitativo siamo ai minimi storici. Del resto, più che un album vero e proprio, le otto tracce di Boyfriend dovrebbero costituire un ideale proseguimento del lavoro precedente, come dimostra anche la foto di copertina, che è la stessa vista da un'angolatura leggermente diversa. Tuttavia, sono in pochi oggigiorno ad aver lo stomaco per poter affrontare dei pezzi come il plastico new jack swing di “Don’t Take My Mind On A Trip”, o i vari stadi di svisate house di “Lies”, “Big Dark Man (Waiting)” o “Girlfriend” (condita da un intro parlato che solo Divine saprebbe fare meglio). Per inciso questo è il meglio che Boyfriend ha da offrire. Quando Boy George ritorna al pop della forma canzone, arrivano pezzi come “I’m Not Sleeping Anymore” (che sfigurerebbe sul peggiore di Michael Bolton), la tarda rabbia adolescenziale di “You Found Another Guy”, o la filastrocca nichilista “Whether They Like It Or Not” che si poteva concludere tranquillamente al secondo minuto, e invece il ritornello viene ripetuto all'infinito portandola a quota cinque.
Come il suo predecessore, Boyfriend verrà ignorato sia dal grande pubblico che dalla casa discografica (che non lo stamperà in America), ed è a tutt’oggi fuori catalogo e di difficile reperibilità. Nel caso vi troviate una vecchia copia originale in soffitta, evitatene pure l’ascolto, ma non provate a buttarlo via, perché il valore collezionistico sta continuando a salire. Ad ogni modo, per i rari interessati al confusionario periodo di fine anni 80, si può trovare più facilmente in giro High Hat (1989), una compilation di 10 tracce - composta per metà dai pezzi migliori di Tense Nervous Headache e per metà da quelli peggiori di Boyfriend - che la Virgin mise insieme ai tempi da promuovere negli Usa. Piccola rivincita per Boy George, il singolo “Don’t Take My Mind On A Trip” arriverà fino al n.5 dell’r’n’b chart di Billboard.

Gesù, Krishna e i Santi tutti – la reincarnazione globale in pista da ballo

Boy GeorgeE' lunga la trafila di celebrità che rinascono con una conversione religiosa, e Boy George non fa eccezione. Con l'aiuto della filosofia buddista (e un dovuto viaggio in India), l'ex-Culture Club rinnova la propria vita artistica, ma soprattutto riesce a porre un (momentaneo) freno alla dipendenza da droghe che tanto ha afflitto le dinamiche del passato più recente. Rasato a zero, sobriamente truccato, vestito in colori (quasi) neutri e linee rette, il nuovo Boy George appare agli occhi del pubblico quasi irriconoscibile, ma indubbiamente più sereno e rilassato. Per non rischiare un ulteriore deterioramento alle quotazioni del suo nome  - fattosi un tantino pesante ultimamente tra scandali e insuccessi - la nuova reincarnazione ne porta uno nuovo: Jesus Loves You è il gruppo satellite dietro al quale l'autore si nasconde per pubblicare il nuovo materiale, e l'alter ego che ne firma i pezzi è la fantomatica Angela Dust (un surreale gioco di parole con "angel dust", espressione per indicare la cocaina). L'unica eccezione saranno gli Usa, dove la Virgin insisterà per l'uso del nome Boy George.
Certo, satellite o meno, George non è propriamente da solo. Diversi musicisti, amici nella vita e compagni del nuovo viaggio spirituale lo aiutano a coprire la gamma strumentale necessaria a sostenere le nuove canzoni. Tra questi, il più importante e meritevole di nota è sicuramente lo schivo chitarrista John Themis, che rimarrà al suo fianco per gli anni a venire e contribuirà alla composizione di moltissimi dei brani migliori della sua carriera, sostituendo la colonna portante un tempo formata da Roy, Jon e Mickey (c'è chi sostiene, a proposito, che Themis sia il "quinto Culture Club", in quanto il suo contributo sarà evidente anche sul disco della loro reunion "Don't Mind If I Do").

I Jesus Loves You immettono le nuove canzoni sul mercato in forma libera, e si nota subito una nuova linfa melodica che meglio si sposa al timbro vocale soul del cantante, e rinuncia finalmente alle plasticose forzature r'n'b del passato. Alla dolorosa "After The Love" (scritta incidentalmente da Boy George col suo ex-amante Jon Moss), seguono la storica "Generations Of Love" tinteggiata di chitarre gitane, la sensualità di "One On One" e la bizzarra filastrocca iper-melodica hare krishna "Bow Down Mister".
La cosa peculiare è che The Martyr Mantras (1991) è in realtà un disco composto da remix di questi stessi brani, più quelli di altri inediti. Ma stavolta la ruota gira dalla parte giusta. Tagliate, spezzettate e dilaniate, le nuove tracce si tramutano in veri e propri mantra, mentre i loop melodici vengono ripetuti all'ossessione in una sorta di preghiera senza tempo. Sono i testi, adesso, a dare indice della nuova direzione: temi d'amore andato e venuto, ingiustizia sociale, ricerca spirituale, droga e solitudine, sensualità di coppia e voglia di sesso, trovano tutti posto nelle nuove composizioni, ma anche la musica non è certamente da meno. Si dice che la dance invecchi male rispetto ad altri generi, ma The Martyr Mantras è un disco troppo intelligente per cadere nella trappola, e dal suo modesto angolino - mediaticamente parlando - scatta una fotografia a un momento piuttosto cruciale, quale il passaggio tra gli 80 e i 90. Si respira l'esoterica new age di "MCDXII a.D" degli Enigma - un vero capostipite del genere: sentite il trattamento qui ricevuto da "After The Love (Ten Glorious Years Mix)" o il malinconico incedere di "Love's Gonna Let You Down (Popcorn Mix)" - il sound di Bristol dei Massive Attack (che di fatti metteranno mano a un ottimo remix di "One On One", purtroppo quì non incluso), il sensuale disco-soul alla Lisa Stansfield (sul kitsch andante di "Siempre Te Amaré"), il peculiare crocevia tra melodia pop e acid house dei patchwork dei Saint Etienne di "Foxbase Alpha" (la mano di Oakenfold su "Generations Of Love" - basso in evidenza, ostinato di piano elettrico, inserti dub e un feroce toastin' di McKinky), e pure un lieve accenno al suadente "Love Deluxe" degli Sade che verrà ("I Specialize In Loneliness"). La vecchia "No Clause 28" viene completamente stravolta da Pascal Gabriel e rivestitia di un cattivissimo beat house e sciami di voci robotiche che non fanno che accentuare la rabbia verso l'Iron Lady in questione.
Completano l'opera le calde atmosfere electro di "Too Much Love" e, ciliegina sulla torta, la lucidissima patina disco di "Love Hurts (Lp Mix)", sul cui ritmo è semplicemente impossibile non battere il piede.

Il successo di pubblico è però sotto le aspettative (n.60 in Uk per il disco, n.30 per il singolo che va più in alto, "Bow Down Mister"), anche se nei club i vari remix spopoleranno, "Generations Of Love" su tutti.
Il nuovo lavoro a nome Jesus Loves You avrebbe dovuto chiamarsi "Popularity Breeds Contempt", e il primo Ep di lancio, Sweet Toxic Love, vede la luce già nel 1992, in due versioni con altrettanti remix a seguito. La traccia principale segue la falsariga di "Bow Down Mister", ma con accenni country, gioca ancora una volta col tema della religione e appare corredata di un video decisamente d'impatto. La seconda traccia "Am I Losing Control" è un ottimo esempio di scrittura Boy George/Themis soprattutto nella versione Dizzy Tequila Mix (ma sarà di gran lunga valorizzata quando verrà ripresa in versione acustica 10 anni più tardi), mentre "Oh Lord" è una sorta di redenzione techno da attuarsi sulla pista da ballo - Boy George in sari bianco e fiori di hennè dipinti sulle mani vi assolverà. Tuttavia, l'insuccesso commerciale di Sweet Toxic Love è troppo per la Virgin, e la spina viene prematuramente staccata mandando a rotoli l'intero progetto.

Ad ogni modo gli accoliti del periodo Jesus Loves You e The Martyr Mantras non mancano. La sua reputazione è andata cementandosi nel tempo, e grazie a un lento ma costante tam-tam è diventato uno dei dischi preferiti dai fan, e soprattutto un episodio consigliabile anche a chi magari non nutre solitamente troppa simpatia per l'autore. Nel mondo della dance invece il disco è da sempre considerato una piccola gemma, e la sola "Generations Of Love" è stata oggetto di più di 15 remix diversi. Una certa Madonna ha più volte citato il disco come un'influenza sulla sua musica (affermazione peraltro riconducibile a certi episodi di "Erotica") e ha ammesso di usarlo come sottofondo per fare yoga; proveniente da una solitamente stretta di plausi come lei, è indubbiamente un gran complimento. Più accorato, semmai, è stato l'omaggio di Matteo B Bianchi, che ha intitolato proprio "Generations Of Love" un suo spassosissimo romanzo. Più una curiosità che altro, nel 2005 Boy George ha pubblicato, sotto la More Protein, un vecchio brano dal titolo "Love Your Brother" che è accreditato ai Jesus Loves You e pare fosse uno dei pochissimi inediti rimasti ancora chiusi negli archivi.

1992/1994 The Wild Years

La delusione dell'implosione dei "suoi" Jesus Loves You non ferma comunque l'amore per la dance. Personalità sempre nota e presenza estrosa nei club, Boy George viene ingaggiato dagli organizzatori degli storici rave Fantazia per curare il mixtape "The House Collection 2", che diviene disco d'oro in Uk. Da lì arrivano a ruota l'invito da parte del Ministry Of Sound e la prima compilation da lui curata per il noto club venderà prontamente 100mila copie (costringendolo a ripetere i lavori fino al quinto volume!).
La sorpresa del periodo risiede nel curioso Ep di remix The Devil In Sister George (accreditato a Boy George & Jesus Loves You), che oggi viene considerato una rarità ma ai tempi arrivò al n.26 in classifica contro le aspettative di tutti - autore sicuramente incluso. La copertina, col buon George tinto in volto di un rosso demoniaco e cornetti assortiti sulla fronte, è tutto programma. Le cinque tracce presenti sono tutti remix di varia fattura, che si muovono tra lo scanzonato (la recente "Love Hurts (Disco Moment Mix)", lo svagato con tanto di canna su una spiaggia caraibica - il vecchio successo "Everything I Own (Redemption Extension Mix)" che per inciso è meglio dell'originale - il robotico - "Generations Of Love (Ramp Club Mix)" - il geniale - "Am I Losing Control (Metal Bird Mix)" che sembra uscito dal "Debut" di Bjork - e, perché no, anche l'inutile "Miss Me Blind (Return To Gender Mix)" del periodo Culture Club, che a conti fatti non aggiunge né innova assolutamente niente.
Tuttavia, il lato della canzone pop non viene interamente trascurato. Boy George duetta con PM Dawn su "More Than Likely" (1993), ma la gemma è un'altra, e forse non avrebbe nemmeno bisogno di tanti preamboli, visto il successo ottenuto ai tempi. Trattasi di "The Crying Game" (1992) - un vecchio brano interpretato da Dave Barry - che viene reinciso per la colonna sonora dell'omonimo film. Sarà forse la soffice produzione elettronica dei Pet Shop Boys in stato di grazia (un anno dopo daranno alle stampe, con gran successo, l'ottimo "Very"), o magari l'interpretazione da manuale di Boy George - mai così elegante e calibrato con la voce - ma il brano spicca letteralmente il volo, nei cuori del pubblico e in classifica, dove raggiunge finalmente la top 20 in America come non accadeva ormai dall'86.

Wham, Bam, Thank You ma'am! Una Kamikaze-Queer alla volta dell'era glam

Boy GeorgeCome già detto, le etichette non fanno per Boy George. Proprio quando la sua carriera da dj ha preso il via, e il successo del pop elettronico di "The Crying Game" lo ha riscattato anche al pubblico americano, lui decide di attuare il più drastico dei proverbiali "back to the roots". Non si tratta infatti di tornare alle radici new wave dei primi anni 80 quando bazzicava la scena con suoi i Culture Club, bensì di un ritorno all'era glam del decennio precedente, e alle scorribande di Marc Bolan e del suo idolo indiscusso David Bowie. Anacronistico o meno, Boy George dà alle stampe Cheapness And Beauty nel 1995, e si tratta di un disco che rimane a tutt'oggi una delle sue prove più solide. Trattasi di un sound scarno, elettrico, nervoso e aggressivo, pregno di chitarre acide, ritmi serrati, sfacciataggine punk e androginia alla "Jesus Christ Superstar" - una veste nella quale uno showman nato come Boy George si immedesima con estrema naturalezza, fornendo alcune delle sue migliori interpretazioni vocali.
Le prime cinque tracce compongono una sfacciatissima tirata rock, dove svettano la riuscita cover di "Funtime" della coppia Bowie/Pop (ed è ottimo pure il video, che ricorda certi look del futuro Marilyn Manson), "Genocide Peroxide" per il vecchio amico Marilyn, e "God Don't Hold A Grudge" dedicata ai genitori disperati di ogni figlio omosessuale. Sull'acido andante pure lo sciancato andamento di "Evil Is So Civilized" (amabilmente dedicata a tutti i "queer-killer rednecks") e le sferzate di "Sad" e "Blind Man". Tuttavia, quando le acque si calmano, Boy George tira fuori un paio di pop song da manuale, quali la scoppiettante "Cheapness And Beauty", o l'impasto sinfonico da brividi della sognante "If I Could Fly" (tra le migliori di sempre). Come non apprezzare, poi, la genialità di un testo come quello di "Same Thing In Reverse"? Davvero stupisce la poca risonanza che ebbe ai tempi un inno del genere sul mondo gay (solo la versione remix ottenne un timido succeso in Usa), perché riesce mirabilmente a concentrare in 3 minuti e mezzo tutte le risposte che in tanti vorrebbero poter dare a centinaia di domande inopportune. Anni più tardi, la canzone verrà ridedicata a Eminem dopo un paio di commenti omofobi da parte di quest'ultimo (e il messaggio per il rapper sarà chiosato infine da Neil Tennant, che scriverà per lui la scherzosa illazione "The Night I Fell In Love", contenuta su "Release").
Il disco si chiude anche con una piccola perla: dedicata a un amico sul letto di morte, "Il Adore" si muove su un lievissimo polverio chitarristico e un arrangiamento sinfonico così calibrato, ma allo stesso tempo enfatico, da richiamare alla mente le orchestrazioni su "Five Leaves Left" di Nick Drake. Tra le b-side, una menzione di assoluto riguardo va fatta per la delirante cover di "These Boots Are Made For Walking".

In retrospettiva, le sorti dell'insuccesso commerciale (n.44 in Uk) e la totale assenza di una legacy di Cheapness And Beauty  sono varie. La Virgin ai tempi fece meno del minimo sindacale per promuoverlo, mandando su tutte le furie i fan e lo stesso Boy George, al quale non venne più rinnovato il contratto. Una parte della "colpa" però, sta anche all'opera in sé, che si presentò nell'ostile panorama del periodo come una mosca bianca. Indubbiamente, il salto di stile dalla dance dei Jesus Loves You alle schitarrate glam di quest'ultimo fu spiazzante, e incomprensibile anche per certe frange del suo pubblico più stretto, ma il punto è un altro. Nel 1995, il britpop era ai massimi isterici - con la storica lotta alla classifica tra i Blur e gli Oasis combattuta nell'agosto di quell'anno - il massimo del "glam" era semmai impersonato (a meraviglia) dal leader dei Suede, Brett Anderson, e l'amore per il grunge non era certo scemato con la morte di Kurt Cobain, anzi, lo storico produttore di "Nevermind", Butch Vig, ne aveva appena iniettato il malessere in quell'arguta creatura pop chiamata Garbage. In un clima del genere, la rimozione forzata di qualsiasi elemento ricordasse, anche alla lontana, l'effimero decennio 80 era feroce come pochi. E per molti, Boy George era pur sempre il poster-boy di quell'era (o, al massimo, l'ex-drogato rinato hare krishna su ritmi new age... capirai!), e nessuno aveva realmente voglia di farsi trovare con un suo disco in mano.
E' un peccato, ma si può sempre rimediare. Del resto, con una veste così scarna ed essenziale, l'energico Cheapness And Beauty è invecchiato decisamente bene rispetto a tanti altri dischi allora più in voga e ha il potenziale per piacere anche a chi non si sognerebbe mai di ascoltare un disco targato Boy George. Dategli una chance.

Il 1995 è pure l'anno nel quale Boy George pubblica la sua prima dissacrante autobiografia, "Take It Like A Man" che è altamente consigliata, fosse anche solo per carpire qualche gustoso gossip sul periodo di dominio della new wave inglese da parte di un vero insider del movimento. E a proposito di gossip, ancora una volta è la vita privata ad attirare le attenzioni a sfavore della musica. Nella biografia, ma soprattutto tra le argute parole di "Unfinished Business" (che è pure una delle melodie più azzeccate dell'intera carriera) viene raccontato apertamente di un vecchio fling tra Boy George e Kirk Brandon, che ai tempi dell'era post-punk militava nei Theatre Of Hate. Brandon - sposato e con figli - non apprezzerà assolutamente il forzato outing, e lo citerà in tribunale (ove perderà la causa, ma a pagare gli oneri sarà comunque George).

Bandito

Sconfitto ancora una volta da vendite insoddisfacenti, e rimasto per giunta senza contratto, Boy George si trova impossibilitato a dare un seguito a Cheapness And Beauty (per il quale aveva già pronto il titolo di "Too Spooky") e concentra le energie sulla reunion dei Culture Club e sulla stesura del loro primo disco d'inediti in 13 anni - "Don't Mind If I Do" - che godrà di un discreto successo in Uk, grazie ai singoli "I Just Wanna Be Loved" e "Your Kisses Are Charity". Nello stesso periodo trovano posto anche una collaborazione con Faithless ("Why Go"), Groove Armada (la bellissima "Innocence Is Lost"), e qualche brano dance in pieno fervore anni 90, quali "Love Is Leaving" e soprattutto "When Will You Learn", che arriverà al n.3 in classifica in Italia.

Se The Unrecoupable One Man Bandit (Volume 1) (1999) è per antonomasia il disco più sconosciuto della carriera di Boy George, il motivo è semplice: oltre a uscire in contemporanea al nuovo dei Culture Club (rimanendone oscurato per forza di cose), si tratta di una release su specifica richiesta dei fan più stretti, nella quale Boy George inserisce 10 dei brani scritti principalmente per il seguito di Cheapness And Beauty e rimasti inediti o in forma di demo, ma che sono stati eseguiti dal vivo in diverse occasioni, diventando (suo malgrado) dei favoriti tra il pubblico. L'album viene distribuito in esigue quantità dalla minuscola Back Door Records, e non si prefigge alcun esito commerciale. Siamo tutti ancora in attesa dell'annunciato Volume 2, ma per adesso pare non esservene traccia.
Non si tratta quindi di un album vero e propro, ma anche il "Bandito" ha i suoi pezzi di pregio. Ancora una volta, la stoccata ai benpensanti viene servita nel geniale testo di "GI Josephine", che se la prende contro il presidente Clinton e la pratica del "don't ask don't tell" riguardo l'attitudine verso l'omosessualità nell'esercito americano. Come se non bastasse, il pezzo viene arrangiato in una comica marcetta country che non fa che accentuarne il lato parossistico. Invece, nonostante di primo acchito il titolo possa trarre in inganno, non vi è alcuna traccia d'ironia in "She Was Never He", ma trattasi di un vero saggio di scrittura; su un gitano ritmo di chitarre, Boy George traccia con navigata maestria il ritratto di Tasha, una transessuale che vive coraggiosamente alla luce del giorno in una società non sempre benevola verso donne come lei, e si sforza di apparire fiera e non mostrare la solitudine mentre cammina per la Old Kent Road (e chi ci è stato sa che non è certo il luogo più glamour di Londra). Molto bella anche la melodia di "In Maya", e piuttosto divertenti le parole di "Mr. Strange" che raccontano con ironia della rivalità da dive che vigeva un tempo tra Boy George e Steve Strange, leader dei Visage. Il resto è un generico pop-rock ben congegnato ma senza grandi guizzi, ai quali si aggiunge purtroppo una fiacca versione di "Suffragette City", che sarebbe stato davvero meglio non andare a scomodare.
Non imprescindibile, The Unrecoupable One Man Bandit (Volume 1) è comunque una divertente raccolta di curiosità che raggiunge lo scopo prefisso: far felici i fan.

L'apice - Taboo

Domanda: come sfoga la creatività repressa Boy George? Risposta: "Scrivo un musical". Su libretto di Mark Davies Markham, con testi di Boy George e musica di Boy George, John Themis, Kevan Frost e Richie Stevens, "Taboo" arriva nel West End di Londra nel 2002, ed è un successo plateale, con due anni di presenza in teatro e la vincita del Theatre World Award. Tanto è il clamore, che l'anno dopo "Taboo" viene riadattato a Brodway da un'entusiasta Rosie O'Donnel (dove non ottiene però lo stesso successo e viene sospeso in meno di un anno). Nel 2012 lo show è stato riportato in vita con gran successo a Brixton per altre 100 date.

La storia si svolge attorno allo storico locale Taboo, che fu creato ai tempi dalla dissacrante personalità underground Leigh Bowery e nella sua breve vita (85-87) divenne il posto più "in" della capitale. Le vicende dei vari personaggi s'intrecciano sullo sfondo della scena new romantic; alcuni sono fittizi, altri invece realmente esistiti (come Steve Strange, Marilyn o lo stesso Leigh Bowery, che verrà interpretato da Boy George in persona). Si tratta di un lavoro divertente, spiritoso e oltraggioso come da copione, e le canzoni scritte da Boy George coprono tutta la gamma emotiva - dal glam-rock alla new wave alle ballate acustiche. E' divertente da guardarsi anche in Dvd.

Il disco unanimamente più apprezzato dalla critica - e aggiungerei a ragione - è in realtà un affare decisamente peculiare. U Can Never B2 Str8 (2002) è una semi-raccolta in chiave acustica di 16 tracce (più ghost track "Out Of Fashion"). Otto di queste provengono da lavori già pubblicati da Boy George negli anni 90 e dal contemporaneo musical "Taboo", mentre le rimanenti otto sono inedite scritte principalmente con Themis in altri momenti. Si potrebbe quasi dire che il disco abbia una triplice funzione. Innanzi tutto, è un lavoro che suona stilisticamente coerente da cima a fondo, e il suo fluire ne fa un lavoro di senso compiuto a tutti gli effetti. In secondo luogo, si presenta come un mini-best of, poiché raccoglie gli episodi più "morbidi" e pop scritti da Boy George. Infine, il tema generale dei brani scelti forma una specie di concept-album sul ruolo di artista omosessuale alle soglie del nuovo millennio, che guarda al passato e si interroga sulla condizione sociale del presente. Alcuni pezzi vengono registrati in salotto, o mixati da Themis e Kevan Frost in casa. Il delicatissimo impasto di chitarra acustica, condito saltuariamente da una sezione di violini o sparute note di pianoforte, non fa che accentuare il bel canto di Boy George, la cui voce si è fatta matura e ricca di sfumature da consumato soulsinger qual è.
Non sarà forse l'Elton John dei tempi d'oro, o i dannati sprazzi di genio di Marc Almond, ma la triade George/Themis/Frost mostra il meglio del suo songwriting abile e sensibile, capace di tracciare splendidi ritratti di persona ("She Was Never He"), ricordare il passato ("Letter To A School Friend"), fare la macchietta ("Ich Bin Kunst"), dedicare parole cariche d'amore all'ex-fidanzato Michael Dunne ("If I Could Fly", "The Deal" e "Losing Control"), punzecchiare un certo "Julian", o ammiccare maliziosamente su un felpato passo jazz ("St Christopher").
Non mancano gli episodi d'oro come "Il Adore", "Unfinished Business" e "Same Thing In Reverse", mentre a chiudere il cerchio viene reinserita "Bow Down Mister". La ghost track "Out Of Fashion" - una dolente confessione da popstar decaduta estratta dal musical "Taboo" - viene bizzarramente estratta come singolo nella versione remix a cura di Hi-gate.
C'è giusto la pecca del titolo scelto (oggettivamente, è atroce), che probabilmente ha contribuito alla malasorte del disco. Pubblicato quasi malvolentieri dalla Virgin esclusivamente in Inghilterra e in Giappone senza un minimo accenno di promozione, U Can Never B2 Str8 è scivolato sotto i radar alla nascita e rimane paradossalmente un disco di culto, un vero scherzo del destino per un lavoro di tale fattura, che è stato per di più pubblicato in un periodo nel quale le quotazioni del suo autore viaggiavano decisamente alte, grazie al successo di "Taboo". Poco importa. Ad oltre un decennio dalla sua pubblicazione, la settima meraviglia di Boy George è sempre disponibile a farsi ascoltare, ed è il cavallo di battaglia col quale andare a riscattare la non sempre brillante reputazione del suo autore.

Yum Yum: polpette di glitter in salsa electro (colpa di Leigh)

Boy GeorgeForse la collaborazione con Sash! su "Run" (un singolo del 2002) andava vista come un indizio, ma anche all'orecchio del fan più abituato ai repentini cambiamenti, Boy George non poteva veramente suonare più drastico. Nuovamente deluso, stanco e insofferente di tutto e di tutti, eccolo rilanciarsi senza rete nel mondo della dance. L'ispirazione principale, stavolta, giunge dal totale senso di libertà provato interpretando il ruolo Leigh Bowery in Taboo - un personaggio leggendario nella scena underground londinese, famoso per la sua performance art, il suo vestiario eccentrico e un'attitudine dissacrante (vedasi l'ottimo documentario postumo), nonché amico e confidente dello stesso Boy George. Il nuovo alter ego - The Twin - è una drag queen riottosa e vistosamente sovrappeso, che si trucca come un clown dalle smorfie demoniache e cavalca la notte (ma anche il giorno!) terrorizzando il popolo delle discoteche della capitale (tra le quali lo storico - e oggi purtroppo estinto - Ghetto in Tottenham Court Road), pronta a lanciar vituperio con lingua biforcuta declinando tutto al femminile (nei limiti consentiti dalla lingua inglese). Il "gemello", per inciso, è il lato cattivo di Boy George.

Ecco quindi l'Ep The Twin (2003) che Boy George produce col dj tedesco Kinky Roland. Basta citare giusto il brano di apertura "Nothing" (col suo "fuck you" in bella mostra) per avere un'idea: Boy George è incazzato, e non ha certo intenzione di far finta di niente. Via quindi le chitarre acustiche e i violini romantici del disco precedente, solo le atmosfere cliniche di un sintetizzatore ben affilato possono esprimere i nuovi deliri di rabbia e disdegno; pertanto, lo sfuggente electroclash è sicuramente il genere più appropriato da usare per i tempi che corrono. Del resto non c'è molto da stupirsi, questo è pure il periodo in cui in Uk si muovono Felix Da Housecat, Peaches e la svolta synth dei Goldfrapp di "Black Cherry" per citarne alcuni, ma nessuno di loro sembra possedere l'efferatezza di Boy George, che infatti pensa bene di pubblicare The Twin indipendentemente attraverso la sua More Protein per ritenere ogni libertà creativa a scanso di una possibile censura (ma anche conscio del fatto che nessuno lo metterebbe sotto contratto con materiale del genere).

L'assaggio dell'Ep viene completato l'anno dopo con la pubblicazione di Yum Yum (2004), ed è subito amore. Musicalmente, il trip è dei più acidi. House, nubi di reggaeton, mutazioni disco, asciutti sentori minimal, inserti di chitarre rock intrise di nervosismo, sampling disparati e atmosfere apocalittiche formano un vero e proprio electroclash tagliente e cattivissimo. Kinky Roland in cabina di regia compatta il sound imbevendolo di gasolio e lanciandolo all'ascoltatore come una molotov in fiamme, e per le 13 tracce del disco non si respira un solo secondo d'aria pulita.
Boy George, dal canto suo, sgancia a briglia sciolta le liriche più irriverenti mai scritte. Si va dal sesso ("Fire-Desire" così sboccata che farebbe arrossire il Casto Divo) alla rabbia repressa ("Sanitised"), da veri e propri deliri homosex (l'iniziale "Here Come The Girls", "Electro Hetero") a strambe riflessioni sul peccato originale ("Garden Of Eden"), vituperio gratutito ("Disco Ugly") e un gigantesco vaffanculo a chiunque gli nomini i suoi (evidenti) problemi di peso ("I'm overweight!/ I'm sexually frustrated!", urla in "Size Queen"). A tratti Boy George mantiene comunque il buon gusto di non tralasciare completamente il lato della melodia (una forma della quale è maestro), ed ecco quindi la spiritata e vampiresca "After Dark" (un vero e proprio manifesto per il popolo notturno), un ritrovato glam-rock in "So Much Love", l'inno da dancefloor "Who Made You" o la stellare "Never Over U", che non starebbe male in bocca alla miglior Róisín Murphy (anzi, l'ex-Moloko sembra averne ricalcato pari pari la linea di synth per la sua "Movie Star").
Yum Yum è geniale. Nel suo estenuante incedere, scandalizza e spara a zero senza pietà, ma pur non essendo propriamente un disco facile, è l'ennesima riprova della versatilità del suo autore - un personaggio di fama internazionale che si concede la libertà di esplorare gli antri più reconditi della musica dance, mettendo a nudo ogni dannato difetto del suo animo omosessuale avariato. Certo, un disco del genere non può (e non deve!) far breccia nel grande pubblico, ma per il mondo underground è amore istantaneo. Del resto l'album viene stampato in sole 1000 copie, e ancora meno sono quelle per i promo dei vari singoli (oggi tutte ambitissime dai fan), e viene messo ufficialmente in download online solo due anni dopo la sua pubblicazione. Unica avvertenza: avvicinarsi con cautela.

Gli effetti collaterali non tarderanno ad arrivare. Dopo la pubblicazione di Yum Yum, incapace di mettere un freno tra il "gemello cattivo" e la vita reale, Boy George entra ufficialmente nel periodo più buio della sua vita privata, e per oltre un lustro ci saranno pochissimi contributi musicali. Un progetto di cover in collaborazione con T-Total viene annunciato e poi archiviato già nel 2003. I pochi brani pervenuti mostrano risultati altalenanti, quali una velleitaria versione electroclash di "Somebody To Love" dei Jefferson Airplane, e altri ancora invece in un'ulteriore veste diversissima dal progetto The Twin, come la (decisamente scadente) "Love Is A Stranger" degli Eurythmics, ma pure una stranamente affascinante "River Man" di Nick Drake (ed è tutto dire).

2004/2009: The Very Wild Years

Chi ha ancora in mente l'immagine di Boy George come una popstar tragica e decaduta, il dinosauro sul viale del tramonto, o una reliquia degli anni 80, probabilmente l'ha presa da questo periodo; in realtà, sono la droga e la depressione i principali fautori delle sue disgrazie (stando a lui, invece, è tutta colpa del troppo zucchero che mangia!). Nell'ottobre 2005 viene arrestato a New York, in stato visibilmente confusionario e con una casa piena di cocaina, mentre denuncia una falsa rapina. La condanna - dopo una tiritera lunga un anno in giro per i tribunali - è una multa di 1.000 dollari e una settimana di servizi di comunità a spazzare le strade della città (poi spostata in luoghi chiusi a causa del tampinamento dei media che gli impedisce letteralmente di lavorare). E come la prende il nostro? "It's just a bit of cleaning... I like being an housewife...". Nel maggio del 2008 invece viene trovato in condizioni sospette a vendere magliette della sua stessa B-Rude al mercato di Spitalfields per 10 sterline l'una.
Più gravemente però, nel dicembre dello stesso anno Boy George viene condannato a 15 mesi di carcere per il sequestro di persona ai danni del norvegese Audun Carlsen, un escort col quale aveva già avuto un incontro tempi addietro. Si narra che in sala di tribunale, il pubblico ministero gli abbia chiesto "did you really want to hurt him?". La sua sentenza, da scontarsi nel carcere di Pentonville, inizia nel gennaio 2009, e viene poi tagliata a soli 4 mesi. Una volta uscito però, a Boy George viene negata la partecipazione come concorrente al Celebrity Big Brother. Fortunatamente, aggiungerei col senno di poi, ma ai tempi è un duro colpo - la sua reputazione è così in basso che Channel 4 non lo considera degno manco di fare il fenomeno da baraccone insieme agli altri partecipanti al programma.

I contributi musicali in tale periodo, ovviamente, sono pochi ma non del tutto irrilevanti. Nel 2005 viene allegato l'Ep di 5 tracce Straight all'autobiografia dello stesso nome, ed è un lavoro curioso, pur non imprescindibile. Ricompare "Julian", dal periodo U Can Never B2 Str8, mentre altri tre sono pezzi principalmente acustici intrisi sentimento sul romantico andante, quali "Panic" (che sembra scritta per essere cantata dai Boyzone), il numero da musical "Only Child" (la cui melodia potrebbe essere stata di Whitney Houston negli anni 80) e il pimpante andamento di "Cookie Jar".
Decisamente peculiare, invece, "Song For a Boy", che sfugge ogni definizione, un po' per l'intro parlato ripreso da un documentario, un po' per il curioso andamento dub e i languidi archi campionati che contornano la voce fattasi dolente (possibilmente di droga) - a suo modo, un "demo di razza".

Tra le collaborazioni, invece, la più prestigiosa e bella di tutte è sicuramente quella in coppia con Antony Hegarty su "You Are My Sister" (contenuta nel suo album "I Am A Bird Now"), che non ha bisogno di descrizione, ma andrebbe semplicemente ascoltata: la riprova ufficiale che, nonostante i suoi problemi, Boy George è un Cantante con la C maiuscola.

Sulla via di guarigione (Yes, We Can!)

Boy GeorgeSarà anche sembrato abbattuto ai minimi storici, ma Boy George è stato dato per perso troppo presto. Ancora una volta, la sua volontà di ferro riesce ad avere la meglio sulla droga, e a risanare i cospicui debiti finanziari. Più volte infatti, nel corso degli anni, la sua casa di Hampstead è stata ipotecata, ma non è mai andata perduta - "sono contenta di vedere che non sei riuscito a infilartela su per il naso", ironizzerà l'amica Tracey Emin. I tributi iniziano ad arrivare. Dapprima è la Bbc 2 a dedicargli un dramma retrospettivo sulla sua vita chiamato "Worried About The Boy" (che in realtà è decisamente scadente, ma in questo caso l'omaggio conta più della qualità). La nota presentatrice Vanessa Feltz, invece, lo seguirà per 24 ore per il suo programma "A Day In The Life Of..." per Channel 5. Anche i contributi musicali non tardano. Mark Ronson lo ingaggia come ospite sull'ottima "Somebody To Love" (contenuta su "Record Collection"), mentre con Glide & Swerve canterà l'autobiografico reggae "Pentonville Blues", ed è subito chiaro quanto sia cambiata la sua vocalità: roca, calda, triste e piena di sfumature soul come mai prima d'ora.
Boy George è maturato, e sta valicando il ponte.

Ordinary Alien vede finalmente la luce nel 2010. E' sempre il fido Kinky Roland a mettere mano ad altri 13 brani - molti dei quali registrati nel corso di oltre 10 anni ma rimasti inediti - e crearne lunghi remix che su carta si attestano sullo stesso electroclash della precedente collaborazione tra i due. Nelle prime tracce, però, l'atmosfera appare completamente diversa; un Boy George redento, calmo e posato, risponde al gemello cattivo di sei anni fa con positivi messaggi di pace e amore ("Yes We Can", per dire, campiona pure un discorso di Obama e si conclude su estatici cori gospel!), e le atmosfere si fanno a tratti distese, gassose, sognanti e quasi chill out. E' il caso della significativa "Brand New" (che potrebbe essere intonata da Cher), di "Turn 2 Dust" e dell'incedere quasi religioso del singolo "Amazing Grace", con un ritornello da cantare tutti in coro.
Tuttavia, se il testo dolorosamente autobiografico di "Don't Wanna See Myself" appare altamente esplicativo del nuovo George, la melodia si dimena di nuovo tra un riff tirato e apparentemente fuori posto rispetto al ritornello, che è molto più morbido e pacificatore. E' un fattore significativo, perché questa metà strada permea il resto dei brani inediti del disco, e sembra quasi mostrare l'autore ancora diviso tra uno sguardo dolorante alle piaghe del passato e uno al futuro speranzoso appena intravisto ma non ancora toccato con mano per accertarsi che sia vero. Il problema è che della nuova incarnazione fanno parte anche episodi melodicamente più annacquati, quali "Go Your Own Way", il mea culpa di "If I Were You", "Time Machine", o la lunghissima cavalcata techno di "Psycology Of a Dreamer". Il progetto finisce col farsi ulteriormente confusionario quando Roland va a ripescare - rimaneggiandoli appena - due brani da Yum Yum, quali "After Dark" e "Here Come The Girls", mentre "Human Racing" mostra se non altro un impianto di chitarra elettrica un po' diverso. Ma anche un pezzo denso e claustrofobico come "Seconds" (con Phillip Something) appare fuori luogo e sarebbe stato meglio sul disco precedente - le voci campionate sembrano rubate ai Daft Punk!
In un certo senso, Ordinary Alien è un ritorno a metà. E' un lavoro che mostra diversi buoni spunti, ma non sembra riuscire a metterli tutti a fuoco in modo coerente. Si guarda indietro al passato di The Twin, e ne ripudia (anche giustamente) certi caratteri che lo avevano tutto sommato reso un disco brillante - cattiveria, sfacciataggine e attitudine riottosa - ma non mostra ancora una veste completamente nuova che riesca a rispecchiare appieno la miracolosa rinascita avvenuta nella vita del suo autore. Poteva essere un ritorno col botto quindi - anche solo per l'attenzione mediatica attirata negli anni - e invece le vendite e i riscontri di Ordinary Alien sono quasi inesistenti. Certo, è pur sempre vero che nel 2010 un disco di electroclash ammorbidito risulta tutt'altro che alla moda, ma forse il punto non è questo. La vera novità è che Boy George è sopravvissuto a un periodo decisamente difficile, ed è riuscito a riprendere in mano la sua carriera contro le aspettative di tutti, probabilmente anche quelle di se stesso. Le capacità non gli sono mai mancate, e gli episodi futuri lo confermeranno.

La rinascita è completa: This Is What I Do

Dapprima è stata la sua bellissima cover di "Video Games" di Lana Del Rey nel 2012, e poi il featuring su "Coming Home" dei nuovi compagni di etichetta Dharma Protocol di quest'anno a dare il giusto indizio: Boy George ha risollevato lo sguardo al cielo, e sta tornando. Ha perso una tonnellata di peso, ha smontato il trucco eccessivo e si è pure fatto crescere la barba come mai prima d'ora. La sua voce si è fatta più calda, roca ed espressiva che mai. L'ex-cantante blue-eyed soul si è trasformato in un vissuto e provato bluesman a tutti gli effetti - e le sue vicende biografiche lo dimostrano.
Il titolo del nuovo album, This Is What I Do, è altamente esplicativo; Boy George ci tiene a ricordare che non è mai veramente scomparso, ma si è tenuto sempre impegnato in mille progetti diversi (cosa peraltro vera). Però un disco del genere non l'aveva mai fatto: quasto è in assoluto il lavoro più calmo e riflessivo da lui mai inciso, e i testi sono il vero specchio della nuova anima. Come la sua connnazionale Sinead O'Connor, anche Boy George ha avuto le sue continue crisi di religione, e oggi la sua fede buddista sembra tingersi di un cristianesimo sudista dai curiosi risvolti rastafari, quasi fosse il punto di arrivo di un lungo e personalissimo viaggio iniziato ormai più di 20 anni fa, quando "militava" nei disco-hare krishna Jesus Loves You.
Musicalmente, la nuova reincarnazione si veste di accenni blues in provenienza direttamente dal Delta ("Bigger Than War"), garbati ritmi reggae ("Live Your Life", "Love And Danger") e riverberi dub ("My Star", il bizzarro esperimento "Play Me" e "Feel The Vibration", che rimanda direttamente a "Throw Down Your Arms" della O'Connor). Non mancano  gli accenni gospel ("My God", ovviamente) e un impasto di chitarre acustiche che riporta alle polverose atmosfere della tradizione americana, sia per intonare un vago passo di country ("It's Easy") o immacolate ballate quali "Any Road", che sembra cantata da Michael Stipe, e la dolente e bellissima cover di "Death Of Samantha" di Yoko Ono.
Dice poi che il singolo - "King Of Everything" - non sia in realtà una riflessione autobiografica, ma una dedica a un boxer decaduto (come mostra anche il video), eppure è onestamente impossibile non trarre paralleli tra le liriche della canzone e i recenti trascorsi di vita del suo autore. "E' proprio per questo che l'ho scelto come primo singolo", racconta Boy George, "perché sapevo che si sarebbe parlato di allusioni autobiografiche e così ho deciso di mettere le mani avanti da subito, un po' come quando Dolly Parton scherza sulle sue tette". Se lo dice lui...
Che dire, maturo e posato sono due aggettivi che non mi sarei mai sognato di scrivere riguardo a un disco di Boy George - visti i precedenti - eppure sono i primi a venire in mente. E' la pura semplicità il punto di forza di This Is What I Do, e anche una carriera schizofrenica come quella del suo autore alle volte necessita di un punto fermo per tirare il fiato. Poi, si può anche notare che, musicalmente parlando, è stato fatto indubbiamente di meglio in passato, e con tutta probabilità questo nuovo lavoro non sarà uno smash hit stile "Colour By Numbers", ma il punto non è questo. Quello che è veramente bello è constatare che Boy George si è redento, ed è tornato con un disco maturo e interpretato con sentimento, ma sempre dannatamente onesto come da copione. Indubbiamente, un bel modo per celebrare 31 anni di carriera.

Nel 2020 appare a sorpresa in Rete This Is What I Dub, Vol. 1, ovvero le versioni dub di This Is What I Do alle quali Boy George stava lavorando già ai tempi dell'uscita di quest'ultimo quasi sette anni prima. Magari mettiamo poca enfasi su quel "Vol. 1", l'arrivo di una seconda collezione potrebbe non materializzarsi mai (anche perché in teoria staremmo ancora aspettando il volume due della raccolta di inediti The Unrecoupable One Man Bandit (Volume 1) del 1998).
Certamente molti dei pezzi prescelti per la rielaborazione già mostravano influenze reggae nella versione originale, ma Boy George si mette d'impegno per ricantarli e riarrangiarli, aggiungendo o togliendo parti, e soprattuto facendosi spesso da parte per dare ai numerosi ospiti carta bianca per modificare il brano ben oltre l'idea di un semplice remix. Grazie anche ai tre inediti in scaletta, This Is What I Dub, Vol. 1 ha tutti i crismi stilistici di un lavoro a sé stante.

JC001 permuta "Bigger Than War" in una sorta di hip-hop dal rilassato passo downtempo, U Brown fa di "Nice N Dub" un divertente momento da spiaggia, e assieme a Joe Worriker conduce l'intera "Dub Your Life" come un freestyle improvvisato durante un sound system. Emozionante il duetto con Mary Pearce su "Dub N Danger", forse la canzone la cui struttura rimane più fedele alla forma originale, lo scarno arragiamento ne mette in risalto la bella linea melodica.
L'affinità di Boy George col dancefloor rivive nel ritmo di "Vibration Dance Dub", che potrebbe essere uscito da un live dei Soul II Soul, nel passo drum'n'bass di "God Is Dub", e in quella sorta di cavalcata dance dagli umori quasi techno dell'inedito "Original Sin". Non sfigurano manco gli altri due inediti; "Vanity Project" è la canzone più tipica della scrittura di Boy George a partire da un testo amaro e - potenzialmente - autoreferenziale, mentre su "Things Are Gonna Change" la sua voce si spinge con navigato fascino verso il soul della Motown.
Tuttavia il momento il più bello è riservato al finale, dove finalmente - dopo anni di snippet e attesa - troviamo "Death Of Samantha" di Yoko Ono cantanta da un'intensissima Sinead O'Connor, altra irlandese dalla vita turbolenta e dalle forti affinità alla spiritualità del reggae, che semplicemente "vive" il testo del pezzo come fosse suo.
 
Un ascolto forse non propriamente utile, ma che indubbiamente ha un certo fascino e dimostra la naturale affinità di Boy George per quelle sonorità caraibiche che s'infiltrarono nel tessuto britannico degli anni 60 e 70 quando lui era ancora piccolo. Queste non saranno forse le spettrali e inventive versioni dub di "Hurricane" di Grace Jones (solo "Meditation Dub" e "Play Me Dub" si spingono verso territori elettronici più sperimentali, ricchi di riverberi e silenzi), ma il giusto equilibrio tra melodia e atmosfera rende il disco degno di una menzione. Ancora una volta, Boy George dimostra di essere ben più creativo in solitaria che non quando si rimette a litigare con gli altri membri dei Culture Club - l'ultimo "Life" pubblicato con la sua band finisce presto nel dimenticatoio, mentre questo ben più defilato This Is What I Dub, Vol. 1 ha il potenziale per incuriosire l'ascoltatore più esigente.

Solo il futuro adesso può dire cosa succederà prossimanente nella pazza carriera di Boy George. Magari un ritorno alla dance più grezza? O un disco soul-step? Tutto può essere, del resto i colpi di scena non sono mai mancati. Però potrebbe anche succedere qualcosa di diverso: in un'intervista a Classic Pop, il Nostro ha ammesso di essere riuscito finalmente a capire la differenza - e a porre un divario netto - tra Boy George il cantante e George O'Dowd il comune mortale che vive la vita di tutti i giorni. E se così fosse, potrebbero sparire molti degli eccessi che hanno caratterizzato la sua vita passata, sacrificando l'immagine della popstar sboccata tanto cara a una certa fetta dei media. Il che - per inciso - non sarebbe affatto un male, anzi.

Boy George

Discografia

BOY GEORGE
Sold (Virgin, 1987)
Tense Nervous Headache(Virgin, 1988)
Boyfriend (Virgin, 1989)
High Hat(raccolta, Virgin, 1989)
The Devil In Sister George (EP, Virgin, 1994)
Cheapness And Beauty (Virgin, 1995)
The Unrecoupable One Man Bandit (Volume 1) (Back Door, 1999)
U Can Never B2 Str8 (Virgin, 2002)
Straight (EP, More Protein, 2005)
Ordinary Alien (PID, 2010)
This Is What I Do (Very Me, 2013)
This Is What I Dub, Vol. 1 (remix album, BGP, 2020)
Cool Karaoke, Vol. 1 (BGP, 2021)
JESUS LOVES YOU/ BOY GEORGE
The Martyr Mantras (Virgin, 1991)
Sweet Toxic Love (EP, Virgin, 1992)
THE TWIN
The Twin (EP, More Protein, 2003)
Yum Yum (More Protein, 2004)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

 Everything I Own
(da Sold, 1987)
  
 To Be Reborn
(da Sold, 1987)
  
 Don't Cry
(da Tense Nervous Headache, 1988)
  
 You Are My Heroin
(da Tense Nervous Headache, 1988)
  
 Generations Of Love
(singolo, 1989)
  
 No Clause 28
(singolo, 1989)
  
 One On One (Massive Attack Mix)
(singolo, 1990)
  
 Sweet Toxic Love
(da Sweet Toxic Love EP, 1992)
  
 The Crying Game
(dalla soundtrack di The Crying Game, 1992)
  
 Funtime
(da Cheapness And Beauty, 1995)
  
 Il Adore
(da Cheapness And Beauty, 1995)
  
 Unfinished Business
(live, da Cheapness And Beauty, 1995)
  
 Out Of Fashion (feat Hi-Gate)
(remix singolo, dal musical Taboo,2003)
  
 Here Come The Girls
(da Yum Yum, 2004)
  
 After Dark
(da Yum Yum, 2004)
  
 Amazing Grace
(da Ordinary Alien, 2010)
  
 Turn 2 Dust
(da Ordinary Alien, 2010)
  
 

Somebody To Love Me
Mark Ronson & The Business Intl/Boy George

(da Record Collection, 2010)

  
 Video Games
(cover di Lana Del Rey, singolo, 2012)
  
 Coming Home - Dharma Protocol/Boy George
(singolo, 2013)
  
 King Of Everything
(da This Is What i Do, 2013)
  

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