La catena di montaggio che stiamo per visitare è separata dall'esterno con una qualità di vetro talmente sottile, da essere impercettibile, e dare l'illusione ottica di toccare con mano uno degli addetti alla confezione che, in abiti da lavoro fluorescenti, mette insieme inermi manichini di cioccolato molto auto-referenziali nella loro statica mimica facciale. Tutto sembra così surreale e agghiacciante, proprio di un'umanità altra, disinvolta nella sua provocazione, capace di avvalersi di un linguaggio paradossale e sfuggente, inquietante e attraente, sintesi superba di primitivismo, nelle sue pulsioni, e cerebrale fulgore, nel suo codice simbolico.
Fuori da ogni rigido schematismo spazio-temporale destinato a chiudere a chiave, nell'armadio dei ricordi, decadi aggressive e rilucenti, Grace Jones, a distanza di quasi vent'anni dal poco felice "Bulletproof Heart", e di circa trenta dall'esordio di "Portfolio", specchio di un'epoca di plastica, eccessi, suggestioni mutant disco, timor panico eppur immediata acquisizione dello status di "icona", torna, armata di un nuovo, elegante frustino, a stupire con "Hurricane" - nato dalla collaborazione con Sly & Robbie, Brian Eno e Ivor Guest e con la partecipazione di Bruce Wolley, Tricky e Tony Allen.
Essenza animale, agilità nel nascondersi tanto nei meandri di un reticolo metropolitano veloce come un videogioco, quanto in una selva nella stagione dell'amore ferino, pece mescolata con l'argento a segnare il territorio, un'allucinazione futuristica introducono l'urban reggae di "This Is Life", discorso che prosegue, nell'oscuro calore sprigionato dalla penombra di "Well Well Well", colonna sonora di pomeriggi da diva underground in una qualche isola cool.
Se per pop(ular) si vuol intendere un'innata capacità di rimescolare il tessuto emozionale senza girarci troppo intorno con inutili e falsi manierismi, "William's Blood" ne possiede da vendere, forte di un tessuto sonoro sorretto dalla mano provvidenziale di Eno, capace di elettrificare e raffreddare un, di per sé, magnetico soul.
Ma la stessa capacità di disseminare inquietudine utilizzando un registro vocale algido, enigmatico, marziale, torna con il singolo "Corporate Cannibal", corredato di video in b/n deformante, specchio distorto di un'identità provocatoria e sfuggente, nel suo avvolgersi attorno a un trip-hop che, carico dell'alienazione trickyana, in "Hurricane", fa da sottofondo a una sfilata di moda per mutanti à-la page.
Il topos del tango torna, vischioso più che mai, a tenere le fila di ciò che, a tutti gli effetti, è un discorso dei sensi ("Love You to Life") e un languido inseguirsi, vellutato ammiccare, intrecciarsi di pulsioni conturbanti ("Sunset Sunrise").
La drammatizzazione, riprendendo "I'm Crying (Mother's Tears)", chiude questo viaggio intorno alla vertigine, sfiorando l'alta, eppur ammaliante, tensione con "The Devil in My Life".
Pronti per abbandonarci al masochistico piacere dei nostri più patinati, colti incubi, per un attimo abbandoniamo quel cinismo che, spesso, nutrito di pregiudizio, ci fa denigrare sontuosi gioielli scambiati per bijoux di poco valore, salvando, in extremis, questo 2008 così poco emozionante.
Per chi non teme di sfuggire, ogni tanto, al tarlo della ragione.
09/12/2008