Ci sono musicisti indelebilmente legati al luogo da cui provengono. Citando Londra, si possono nominare (tra i tantissimi altri) i Sex Pistols e i Clash, che incendiarono la città con la rivoluzione punk degli anni 70, i Pet Shop Boys che si aggiravano nei club di Kings Road nei primi anni 80, la colorata combriccola new romantic del Blitz di Leicester Square o i Suede di Brett Anderson, pionieri dell'epopea britpop degli anni Novanta. Mettiamoci pure la compianta Amy Winehouse, che dai pub di Camden Town ha lanciato un bel revival dir&b anni 60 e vecchio jazz che ha fatto proseliti nel pop anglosassone al femminile. Negli anni Novanta, però, c'è stato un altro gruppo un po' meno conosciuto, meno appariscente nell'immagine e sicuramente meno omogeneo nello stile, ma che ha fatto per Londra quello che quasi nessun altro è mai riuscito a fare: catturarne quella strana, unica e magnetica energia che si respira tra le sue strade, nelle piazze, nei parchi e sottoterra nella metropolitana e metterla su disco. Trattasi proprio dei Saint Etienne e del loro esordio "Foxbase Alpha".
Il punto è che una città come Londra di mode ne crea e ne distrugge almeno tre al mese; il buon vecchio punk dei Sex Pistols oggi serve solo a vendere magliette a TopShop, e se esiste ancora è solo perché qualcuno l'ha adottato e continua a diffonderne il verbo. I Pet Shop Boys hanno recentemente affermato di preferire Berlino perché "molto più d'avanguardia", Kings Road oggi è un deserto popolato da Hugh Grant, Starbucks e boutique dai gusti vintage tra le più costose (e inutili) al mondo. Ed ecco che, allora, ha senso parlare di "Foxbase Alpha". Questo disco dalla misteriosa copertina non ha mai fatto veramente parte di alcuna moda del momento, eppure ancora oggi rimane in piedi di fronte all'ascolto più critico, resiste alla città e alle sue tendenze e forse un giorno le farà pure da epitaffio, se mai ce ne sarà bisogno. Perché "Foxbase Alpha" è Londra; come se i Saint Etienne avessero lasciato aperte le finestre dello studio durante le sessioni di registrazione e la città, con i suoi suoni e le sue armonie urbane dei milioni di persone che ci vivono, si fosse infilata nei nastri e tra i microfoni, rimanendone per sempre prigioniera e testimone di fronte al passare del tempo.
La stampa inglese li definì indie-dance. Qualcun altro, più semplicemente, ci schiaffò sopra un generico crossover per mancanza di termini. Le radio di quel 1991 non seppero bene se passarli tra i ballabili nel programma del venerdì sera o se passarli ovunque, perché da ballare non c'era poi molto. La critica li definì amatoriali, perché quel suono un po' fatto in casa certo non si sposava bene a quello più patinato che passava nelle discoteche in della capitale. Sembrava house ma era già qualcos'altro. Pop, forse? Certo, ci sono dei richiami ad una certa estetica anni Sessanta - incluso un noto sample preso in prestito alla signora del soul bianco Dusty Springfield - così come una vena melodica vicina alla stagione sintetica degli anni 80 e all'indie-pop di marca Sarah Records, ma tutto è mirabilmente trasfigurato. Trip-hop? Del resto il 1991 è anche l'anno di "Blue Lines" dei Massive Attack, ma del sound di Bristol si scorge solo un accenno. E a definire un'identità non contribuiscono certo quegli spezzoni di film d'autore che vengono inseriti a mo' di ponte tra una traccia e l'altra, o quel riciclaggio generalizzato delle più varie fonti sonore rimontate in un collage.
Difficile definirli, allora. E anche inutile, dal momento che di iconografie londinesi apparentemente ve ne sono davvero poche. Niente Union Jack da sventolare in giro, a differenza di altri gruppi britannici. E poi quel nome, Saint Etienne, preso in prestito non tanto dalla città francese quanto dall'omonima squadra di calcio, club dal passato glorioso, in cui giocò anche Michel Platini. La stessa intro del disco, "This Is Radio Etienne", altro non è che uno spezzone di una trasmissione calcistica radiofonica francese, quasi a voler ribadire una non-appartenenza geografica e indurre per un momento chiunque abbia acquistato il cd a credere di trovarsi di fronte a un'altra incarnazione del french touch à-la Air. A dissipare i dubbi non contribuisce neanche la copertina, con l'immagine di una sconosciuta, di nome Celina Nash, e la band relegata a un riquadro nel retro del cd. L'immagine del gruppo, di fatto, è affidata alla cantante Sarah Cracknell, distinta signora inglese dalla pelle diafana e la voce di velluto che fa da frontwoman e appare di solito nei video, mentre gli altri due membri (Bob Stanley e Pete Wiggs) rischiano di passare inosservati anche dopo una ricerca su Google Immagini.
In poche parole, i Saint Etienne non tentano di arruffianarsi nessuno. Proseguendo l'ascolto, infatti, si scopre anche che la traccia d'inizio vera e propria, estratta come singolo, "Only Love Can Break Your Heart", non porta la loro firma. E' infatti la cover di un classico di Neil Young (si trovava su "After The Gold Rush") e non è cantata da Sarah Cracknell, bensì da Moira Lambert, voce della band indie-pop Faith Over Reason. Eppure il pubblico se ne innamora al primo ascolto: il tempo di valzer dell'originale qui è tradotto in 4/4 e nel ritornello gli accordi sono tutti in minore, così la voce di cristallo di Moira Lambert suona malinconica e ne enfatizza il testo, mentre una sezione roboante di basso/batteria, mista alle tastiere, trasporta il brano in là di un paio di decenni. Se lo scopo di una cover è quello di rendere omaggio all'autore facendo proprio il pezzo ma senza snaturarne il contesto, "Only Love Can Break Your Heart" è praticamente perfetta. Retrò e cool al tempo stesso, come si confà a un classico. La traccia seguente, "Wilson", è un vero e proprio anti-climax sonoro, una non-canzone minimalista costruita su un brevissimo sample di Wilson Pickett mandato in loop, mentre la voce di una nonna che chiede al nipotino "Would you like some sweets, Willy? Would you like some sweets, Willy? What would you like?". A voi ogni libera interpretazione...
Ma è con "Carnt Sleep" (scritta proprio così, con la "r" nel mezzo) che si entra veramente nel cuore di "Foxbase Alpha": la melodia è rubata a una nota base multiuso di dub jamaicano e ne conserva intatto lo spirito vagamente malinconico. La voce della Cracknell, però, ci trasporta dalle spiagge assolate dei Caraibi alle ombre lunghe dei palazzi al tramonto su Victoria Park, Est di Londra. Qui sta il loro vero talento: i Saint Etienne (dj e produttori, più che musicisti) raccolgono i frutti in giro vivendo la città nel quotidiano, e poi mescolando le varie influenze al frullatore senza pensarci troppo su, forgiando un inedito London sound e abbattendo ogni barriera, sociale e razziale. Come in uno street party, dove tutti - bianchi, neri, asiatici, latini - fanno gruppo, riconoscendosi prima di tutto come londinesi.
Accompagnata dai flauti, "Girl VII" è un atlante immaginario tra Londra e variegati luoghi esotici, altro saggio di pop elettronico sinuoso e trasognato. "Spring", con le sue calde tonalità funky e le sue atmosfere dreamy, è un raggio di sole tra le nuvole che coprono la città. Così, per contrasto, "Stoned To Say The Least" è il lato B della città: un lungo drone strumentale molto più introspettivo e dai toni più cupi à-la Massive Attack. Come una passeggiata urbana di domenica sera tra i cantieri edili disabitati di periferia.
Il secondo singolo estratto, "Nothing Can Stop Us Now", è il pezzo che più fa il verso alle solari e nostalgiche sonorità anni 60 stile "Scandalo al sole", sfoderando il famoso sample di un brano di Dusty Springfield. Sarà reinciso una seconda volta dai Saint Etienne, con Kylie Minogue alla voce, un paio d'anni dopo.
"London Belongs To Me" è una dolcissima ballata, impreziosita da arrangiamenti classicheggianti per clavicembalo e flauto, ma attraversata da potenti cascate elettroniche. Come suggerisce il titolo, si tratta di una dedica d'amore verso la città in un momento di sole. A far da contrappunto giunge il nuovo, misterioso drone di "Like The Swallow" che pare registrato in mezzo al traffico nell'ora di punta: si apre e si chiude solo verso la metà, sostenuto da un crescendo di batteria, con la voce cristallina della Cracknell che intona una breve melodia da colonna sonora morriconiana, scandita da una campana: il rumore la ingoierà di nuovo in coda, con quello che sembra un sitar distorto.
La chiusura, piuttosto demodé, è affidata a "Dilworth's Theme", brevissima e oscura composizione per voce e pianoforte, probabilmente registrata in casa durante una recita di bambini.
Resterà un patrimonio di suoni e canzoni cruciali per comprendere il passaggio dal decennio del synth-pop a quello della house, del trip-hop, del chill-out e del britpop. E magari la prossima volta che passate da Londra evitate di andare allo scontatissimo mercato di Camden Town sull'onda di un'imprecisata nostalgia dei punk e dei rocker, rimanete piuttosto sulla linea nera della metro per un paio di fermate in più, fino a Tufnell Park (la vecchia "base" dei Saint Etienne), e poi, con "Foxbase Alpha" in cuffia, iniziate a vagare per le strade, perdetevi un po' senza la mappa sotto mano e scoprirete un lato nuovo di una città che ha molto più da dire rispetto alle magliette-nostalgia e i poster da studenti.
16/10/2011